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La Women’s International Democratic Federation (WIDF) verso il XV congresso
La Federazione democratica internazionale delle donne – sessantasei anni portati guardando al futuro – prepara il suo XV congresso mondiale, che si terrà a Brasilia nell’aprile 2012.
“E’ un’emozione per me salutare tante donne d’ogni provenienza, differenti percorsi di vita ed età, che qui rappresentano più di 40 paesi del mondo” disse Eugénie Cotton, prestigiosa allieva di Marie Curie e presidente dell’Unione delle donne francesi, rivolta alle convenute nel Palais de la Mutualité di Parigi, riunite nel primo incontro internazionale di donne del dopoguerra. Il colpo d’occhio sulla sala era in effetti impressionante e l’occasione era di quelle che passano alla storia: 850 donne, o forse più, delegate da oltre 180 organizzazioni d’Europa, Nord e Sud America, Africa e Australia a rappresentare virtualmente 81 milioni di donne.
Da quel congresso, il 1° dicembre 1945, sarebbe nata la Federazione democratica internazionale femminile. Il mondo usciva da una grande tragedia – la guerra scatenata dal nazifascismo, la più distruttiva che l’umanità avesse conosciuto – ed i sentimenti prevalenti fra la gente erano la speranza e la determinazione che quegli orrori non si ripetessero mai più.
“A nome di 81 milioni di donne, facciamo solenne giuramento di aderire allo sviluppo di questa grande organizzazione femminile…” proclamarono allora le presenti, compresa la nutrita delegazione italiana guidata da Camilla Ravera. Oggi forse il linguaggio suona antiquato e fra le donne non usa più fare solenni giuramenti, ma nelle fondatrici della Fdif c’era passione autentica e un grande entusiasmo, come testimoniava la corrispondente di Noi Donne, che scriveva: “Due italiane, tutt’e due dell’Udi, Ada Gobetti e Camilla Ravera, fanno parte del Comitato esecutivo della Federazione…Tutte noi donne italiane dobbiamo essere liete e fiere che il nostro apporto alla lotta di liberazione e all’opera di ricostruzione abbia permesso al nostro paese d’essere degnamente rappresentato in un organismo internazionale di tanta importanza per l’avvenire dell’umanità”.
“La Federazione nasce perché le donne di tutti i continenti possano lottare unite per la realizzazione dei loro interessi e delle loro speranze”, disse ancora Eugénie Cotton, che fu la prima presidente eletta della Federazione e conservò l’incarico fino al 1967. E aggiunse commossa: “Per la nostra bella impresa, abbiamo le stesse ambizioni e lo stesso amore che una giovane madre ha per il figlio che sta per nascerle, e noi vogliamo vegliare sulla giustizia e sulla pace come sulla salute preziosa dei nostri figli”.
Quel momento sarà ricordato a lungo, con tenerezza ancora incredula, dalle donne che vi parteciparono e che negli anni successivi divennero per la maggior parte, ciascuna nel suo paese di provenienza, dirigenti politiche prestigiose. “Oggi una non s’immagina neppure le difficoltà – raccontava molti anni più tardi Marie-Claude Vaillant-Couturier, che della federazione fu la prima segretaria generale – costituite dai lunghi viaggi non soltanto per venire da paesi lontani come l’Argentina o l’India con i mezzi di trasporto dell’epoca, ma anche per attraversare l’Europa devastata dalla guerra. L’organizzazione materiale del congresso richiese grandi sforzi, non c’erano come oggi le apparecchiature per la traduzione simultanea e le traduzioni si facevano per gruppi ad alta voce in un frastuono spaventoso. Ma non era importante, quella che dominava era l’emozione di ritrovarsi assieme, di misurare assieme l’importanza della partecipazione delle donne…”.
La neonata Fdif si diede gli obiettivi che riflettevano i sentimenti e le necessità di quel momento storico, come “la lotta contro il fascismo e l’imperialismo, la sola che può permettere di assicurare le condizioni di una pace durevole”, un’azione risoluta per “l’uguaglianza completa di diritti per donne e uomini in tutti i campi della vita sociale, giuridica, politica ed economica” e per “il rispetto di tutte le libertà fondamentali degli esseri umani, senza distinzione di genere, razza, lingua o credo religioso”.
Alla comunità internazionale il congresso di Parigi chiedeva “il rispetto dei principi di uguaglianza di diritti e di autodeterminazione per tutti i popoli” e “il rispetto del diritto di ciascun popolo a scegliere liberamente, senza ingerenze esterne, la forma di governo che gli conviene”. Già presaghe dei nuovi pericoli che si paravano all’orizzonte, infine, chiedevano che l’energia atomica fosse messa “al servizio del progresso e della pace e posta sotto il controllo delle Nazioni Unite”.
Alle donne di tutto il mondo, la Fdif proponeva un programma d’azione che comprendeva, oltre alla conquista e difesa dei diritti delle donne “in quanto madri, lavoratrici e cittadine”, anche la difesa del diritto alla vita e al futuro per i loro figli, la difesa del diritto dei popoli all’indipendenza nazionale e alle libertà democratiche, la costruzione della pace e del disarmo universale.
Donne del mondo intero
In sessant’anni sono cambiate parecchie cose. In Europa sono stati costruiti muri e poi sono stati abbattuti, il mondo è stato attraversato dalle tensioni parossistiche della guerra fredda e poi di nuovo dalle guerre calde. In molti paesi le donne hanno conquistato molti dei diritti che si proponevano; ma in molti altri paesi gli stessi diritti sono ancora da conquistare.
In molti paesi il miglioramento delle condizioni generali della società ha indotto nuove rivendicazioni, impensabili al congresso di Parigi, e l’affermarsi di una nuova qualità del pensiero femminile; in molti altri paesi per le donne restano ancora un obiettivo anche i diritti più elementari e non è neppure pensabile parlare di diritti riproduttivi. In molti paesi, i diritti sono assicurati sulla carta ma, per una iniqua distribuzione delle risorse, solo una parte delle donne può effettivamente esercitarli, quella che appartiene alle classi privilegiate.
La Fdif e le sue organizzazioni affiliate, nazionali e locali, hanno contribuito per tanta parte ai progressi fatti, non c’è dubbio. Lo statuto consultivo di cui gode presso il Consiglio economico e sociale dell’Onu, presso l’Unesco, l’Unicef, l’Oil, le hanno consentito di avere un ruolo netto e riconosciuto nel sistema delle Nazioni Unite, come organizzazione internazionale non governativa.
Il mensile illustrato Femmes du monde entier, pubblicato in francese, inglese, tedesco, spagnolo, russo e arabo, per qualche decennio è stata la rivista femminile più letta al mondo. Alla Fdif va ascritto il merito di aver proposto l’istituzione, nel 1975, dell’Anno internazionale della donna che culminò nella conferenza di Città del Messico. Da lì nacque il Decennio delle Nazioni Unite per la donna che diede vita alle conferenze di Nairobi nell’85 e di Pechino nel ’95, alla cui preparazione e realizzazione la Fdif ha dedicato grande impegno.
Il nome della Fdif figura tra i promotori della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione verso le donne (Cedaw) – adottata nel 1979 dalle NU e oggi sottoscritta da quasi tutti i paesi del pianeta – e tra quelli che hanno partecipato all’elaborazione della Dichiarazione sulla partecipazione delle donne alla promozione della pace e della cooperazione internazionale, adottata dalle Nazioni Unite nel 1981: il primo passo verso l’omologa e successiva Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza, dell’ottobre 2000, che auspica una presenza egualitaria delle donne ai tavoli negoziali dei grandi conflitti internazionali.
I meriti storici della Fdif riguardano conquiste concrete e anche simboliche, come aver contribuito in misura determinante a fare dell’8 marzo la giornata della donna in tutto il mondo ed essere stata protagonista di una progressione storica scandita da incontri di portata mondiale, rimasti nella memoria di molte che vi parteciparono, come la conferenza delle donne a Berlino nel 1975, quella per l’infanzia a Mosca nel 1979, il congresso per la pace a Praga nel 1981. Solo per nominarne alcune. In riconoscimento del suo impegno per la pace, le nazioni Unite nel 1987 la insignirono del titolo di “Ambasciatrice di Pace”.
Oggi la Fdif dichiara circa duecento organizzazioni affiliate, tra nazionali e locali, in un centinaio di paesi dei cinque continenti. Ma, inutile nasconderselo, i momenti difficili che l’hanno attraversata nell’ultimo ventennio ne hanno limitato l’attività e appannato l’immagine, se non il prestigio, soprattutto agli occhi delle nuove generazioni di donne europee.
L’attenzione all’intreccio tra le tematiche di genere e di classe, alle questioni dell’indipendenza nazionale e della sovranità dei popoli, il primato dell’impegno contro le guerre e per la pace, il rapporto stretto con il sistema delle Nazioni Unite, la sofferta (ma proficua) ambiguità di essere l’unica organizzazione femminile internazionale che riuniva donne provenienti da paesi a regimi sociali differenti, socialisti, capitalisti e in via di sviluppo, sono tutte caratteristiche che hanno reso più significativo e incisivo il ruolo della Fdif nella politica internazionale delle donne, con riflessi in ogni angolo del pianeta. Ma nello stesso tempo sono state alla base dei momenti più acuti di crisi che la Fdif ha attraversato, per lo più collegati con le crisi politiche internazionali, con l’inasprirsi della guerra fredda, con gli opposti schieramenti sullo scacchiere mondiale, che chiamavano anche le donne a scegliere l’una o l’altra parte.
La crisi e la rinascita
Inevitabilmente la Federazione e le sue organizzazioni affiliate ne vivevano i riflessi e le proiezioni al proprio interno. Come quando ci fu lo strappo dell’Udi, al congresso di Mosca del 1963. In quel momento segretaria generale della Federazione era l’italiana Carmen Zanti. Le delegate italiane si rifiutarono di votare due documenti di politica internazionale. Un anno dopo l’Udi comunicò la decisione di passare da affiliata ad associata della Fdif, il che comportava il ritiro dagli organismi dirigenti. La decisione fu votata a maggioranza dal settimo congresso dell’Udi, ma dal grosso delle iscritte fu vissuta come il prezzo doloroso da pagare – erano i primi anni del centrosinistra – all’unità con le socialiste, le quali ponevano, come condizione della loro permanenza nell’organizzazione, l’autonomia dalla Federazione, considerata “filosovietica”.
Bisogna dire, peraltro, che il timore di essere chiamate a “schierarsi” tenne le donne dell’Udi non solo ai margini dalla Fdif, ma spesso anche ai margini del grande movimento per la pace che attraversò negli anni ’80 l’Italia e l’Europa. E tuttavia, mantenere una sovrana lontananza dall’uno e dall’altro schieramento non servì a salvare l’unità con le socialiste. Poi, con la caduta dei regimi comunisti dell’est europeo e con la prima guerra del Golfo, fu tutta un’altra storia.
A partire dagli anni ‘70 la Fdif aveva conosciuto, da una parte, il radicamento crescente tra le donne dei paesi in via di sviluppo che si liberavano dal colonialismo, dall’altra il non facile confronto con l’avanzata impetuosa del movimento femminista nell’Europa occidentale e nel Nord America. Fu a lungo combattuta, al suo interno, fra l’insensibilità alle tematiche del “femminismo borghese” e la necessità di comprendere i tempi che cambiano e cogliere le mutate necessità, pur salvando le ragioni originarie.
Il momento più critico, quello in cui davvero per la Fdif si pose l’alternativa se sciogliersi o continuare ad esserci, coincise col terremoto politico nei paesi dell’est europeo. Con la riunificazione a tappe forzate della Germania, la sede centrale della Fdif, che era stata a Berlino Est fino alla caduta del muro, dovette sloggiare e la Federazione si ritrovò in una situazione di precarietà che fece temere la fine. Con il ridimensionamento, e in molti casi lo scioglimento, delle organizzazioni affiliate nei paesi ex socialisti, vennero meno gran parte dei supporti finanziari. Per lungo tempo, infatti, erano state soprattutto le organizzazioni affiliate dell’est europeo ad accollarsi le spese dei congressi e dell’attività del consiglio direttivo, oltre a supportare grossa parte delle attività nei paesi in via di sviluppo. E naturalmente questo maggiore impegno non era senza contropartite politiche.
“La storia ha molte lezioni e niente si ottiene senza lotta”, disse, lasciando il suo incarico di presidente l’australiana Freda Brown, l’ultima dell’era “sovietica” della Fdif.
Dal congresso di Sheffield del ’91, forse quello più travagliato, la Fdif uscì con la decisione di decentrare l’organizzazione e di creare cinque uffici regionali (per l’Europa, i Paesi Arabi, l’America, l’Africa e l’Asia), semplificando al massimo i rapporti interni, rinunciando ad organismi dirigenti elefantiaci e costosi, sostituiti da un più agile esecutivo internazionale ed un’articolazione reticolare delle affiliazioni. La riorganizzazione si rendeva indispensabile, insieme ad un approfondito dibattito e una seria riflessione su passato, presente e futuro.
Dopo aver vissuto una fase assai sofferta di provvisorietà e oscuramento, la Fdif è tornata sulla scena politica internazionale da un quinquennio, dichiarando non solo la consapevolezza di avere un passato da ricordare, ma anche il desiderio di vivere il presente e la volontà di costruire il futuro. E lo ha fatto sia ridisegnando il suo impegno nel sistema delle Nazioni Unite, a favore della Cedaw e di Pechino+10, ma anche partecipando con competenza riconosciuta alla preparazione dei Social Forum Mondiali, da Porto Alegre a Mumbay e oltre, fino a ritrovare nei movimenti di oggi le sue ragioni delle origini.
La Lettera da Luanda – documento approvato nell’esecutivo tenutosi nel 2005 nella capitale angolana – riconfermò gli obiettivi fondamentali per i quali la Fdif era nata: una genuina uguaglianza di diritti per le donne, il rispetto della dignità della persona, la difesa della democrazia e della sovranità nazionale, lo sviluppo con giustizia in un mondo senza guerre e senza violenze”.
“Abbiamo imparato con la nostra lotta – si diceva nella Lettera – che la globalizzazione neoliberista induce povertà e aumento delle disuguaglianze; abbiamo imparato nella nostra quotidianità che questa globalizzazione esacerba ogni tipo di discriminazione, intolleranza e violenza, dalla violenza di stato a quella di genere, rafforzando i retaggi del sistema patriarcale. Nuove sfide ci sono imposte in questo mondo unipolare governato dall’egemonismo imperiale americano, dall’ideologia del profitto e dall’apologia del mercato che impone altre regole nel mondo del lavoro, annullando le conquiste di sicurezza sociale…”. Allo stesso tempo si riaffermava l’impegno originario e sempre attuale contro la guerra, perché “i conflitti armati sono un ostacolo alla piena partecipazione delle donne ai processi di pace e sviluppo”, si condannavano “tutte le forme di terrorismo, il quale va combattuto aggredendone le cause” e si denunciavano “il terrorismo di stato e le guerre d’invasione delle potenze imperialiste mirate all’espansione dei mercati e all’appropriazione delle ricchezze dei paesi e dei popoli”.
Il congresso di Caracas
Il fastoso XIV congresso di Caracas del 2007, aperto dalla attuale presidente della Federazione Democratica Internazionale delle Donne, la brasiliana Marcia Campos, riaffermò con orgoglio che c’erano ancora tante ragioni perché la Fdif continuasse ad esistere, almeno quante ce n’erano quando fu fondata.
In quella occasione le grandi madri della Federazione – l’argentina Fanny Edelman, l’angolana Ruth Neto, la libanese Linda Mattar, solo per fare qualche nome – tornarono ad incontrarsi con le nuove generazioni: non poté essere presente purtroppo la compianta Wilma Espin, cubana, già gravemente ammalata.
Un congresso storico, quello di Caracas, che recava impresso il segno della crescita impetuosa della mujer latinoamericana e del suo orgoglioso desiderio di riscatto da cinque secoli di oppressione coloniale e di genere.
Oggi un vento nuovo soffia sul pianeta e specialmente in America Latina, recitava infatti la dichiarazione congressuale finale di Caracas, facendo la sintesi di quattro giornate di dibattito ricco e appassionato: “Siamo e saremo donne in lotta per trasformare il mondo e ottenere il benessere durevole e sostenibile attraverso la giustizia sociale, politica, economica e di genere. Siamo donne d’ogni età, credo, fede, identità e cultura; siamo fiduciose della nostra forza e delle nostre capacità, sensibili alle sofferenze dei nostri popoli, apriamo i nostri cuori e le nostre menti ai milioni di esseri umani che sentono la necessità, la volontà e l’impegno di abbattere l’ingiusto ordine economico sociale patriarcale che oggi domina il mondo…Pace per noi non è solo assenza di guerra o conflitti armati, non è la pace dei cimiteri né della sottomissione dei nostri popoli. La pace che noi cerchiamo si ottiene attraverso il pane, il lavoro, la salute, l’educazione, la sicurezza sociale, il diritto alla casa, il rispetto delle differenze, della sovranità nazionale, l’indipendenza economica e politica, l’integrazione delle nostre nazioni. Per noi non ci sarà pace finché ci saranno gli sfruttati, i poveri, gli esclusi e gli emarginati. Vogliamo un mondo di uguaglianza tra uomini e donne in cui la parità di opportunità sia reale ed effettiva. Vogliamo un mondo in cui ci sia il pieno accesso alla cultura e alla conoscenza per tutte. Siamo in tutte le sfere della società e per questo siamo convinte che è la nostra diversità a determinare la nostra vulcanica ricchezza di visioni e proposte. Questa diversità si manifesta nella nostra creatività, che annienta la mediocrità del pensiero unico”.
Le ragioni vecchie e le nuove – in una continuità che vuole rinnovarsi senza rinnegare il passato – saranno riproposte nel prossimo XV congresso, che si terrà l’8-12 aprile 2012 a Brasilia. Richiamarsi alle origini – alle ragioni fondanti espresse dal Congresso di Parigi del 1945 – oggi come oggi non può che far bene alla salute. A condizione che si stia con i piedi ben piantati nel presente e lo sguardo rivolto al futuro, come la vecchia Fdif ha mostrato di voler fare quando ha adottato il motto: “E’ possibile costruire un altro mondo nel XXI secolo”.