Il richiamo nell’editoriale di Sorgi al “governo militare” evidenzia il sovversivismo della classe dirigente italiana e la sua crisi. Incapace di gestire una ennesima ristrutturazione capitalistica e salvaguardare la salute pubblica, la classe dirigente è tentata da un’ennesima torsione autoritaria
di Francesco Maringiò per Marx21.it
L’editoriale di Sorgi su La Stampa, organo per eccellenza della grande capitale industriale italiano, ha fatto discutere, soprattutto per la sua chiosa finale: «Se Draghi fosse costretto a dimettersi (…) al Presidente della Repubblica non resterebbe che mettere su un governo elettorale, forse perfino militare, com’è accaduto con il generale Figliuolo per le vaccinazioni. A mali estremi, estremi rimedi». Siamo al richiamo (o al ricatto) di una torsione autoritaria esplicita che si esercita sui partiti in parlamento e sulla società intera, rea di creare impacci alla direzione politica esercitata dal governo Draghi.
Ma la lettura di questo editoriale è istruttiva anche per altri aspetti più generali.
È la classica interpretazione consapevolmente superficiale della crisi della nostra società e della quale i quotidiani ci offrono giornalmente chiavi interpretative per analisi dal fiato corto. Di fronte alla crisi di direzione esercitata dalle classi dirigenti di questo paese, la cui politica accresce la congiuntura che schiaccia verso il basso proletariato e piccola borghesia, la spiegazione data in pasto alle masse alberga in una derisione sistematica del ruolo del parlamento. «Duole ricordarlo – chiosa Sorgi -, fa parte della cosiddetta “ricerca di visibilità” che i leader dei suddetti partiti ritengono indispensabile per risalire le classifiche dei sondaggi». Come se le convulsioni in parlamento e nella società, con le piazze che si riempiono non solo dei no-vax e no-mask così sovraesposti sui media, ma anche delle lotte operaie contro chiusure e provvedimenti selvaggiamente antioperai (come dimostra l’emblematica vicenda della GKN) non fossero invece il segno della perdita di egemonia del blocco sociale dominante e l’allontanamento da essi di una crescente quota della popolazione.
Questa frattura tra rappresentanti e rappresentati che sta diventando sempre più accentuata nella società italiana e che inquadra la difficoltà dei governi e la crisi del meccanismo di rappresentanza nel suo complesso, ha raggiunto col governo Draghi un punto di maturazione molto esteso. Il parlamento e le forze politiche che, in teoria, avrebbero la forza ed i numeri per condizionare l’indirizzo del governo o mandarlo a casa sono completamente incapaci di qualsiasi direzione politica, bypassati dall’impiego più o meno esteso dei decreti di legge che tendono a sostituire la legislazione ordinaria. Le riflessioni dal carcere di Gramsci ci offrono da questo punto di vista un prezioso apparato concettuale per interpretare la crisi della nostra società e scorgere le inquietanti analogie con la società da lui analizzata. A partire proprio dalla concezione dello Stato come mera forza (del carattere poliziesco dell’egemonia), a cui si richiama in ultima istanza Sorgi, ma anche la forma di cesarismo rappresentato dal governo Draghi e dal suo tentativo ad annullare ogni forma di opposizione al regime capitalistico-borghese in difficoltà. Inoltre, il richiamo nell’editoriale di Sorgi al “governo militare” evidenzia il sovversivismo della classe dirigente italiana e la sua crisi. Incapace di gestire una ennesima ristrutturazione capitalistica e salvaguardare la salute pubblica, la classe dirigente è tentata da un’ennesima torsione autoritaria.
Occorre quindi, innanzi tutto, prendere atto del fatto che questa condizione di apparente invincibilità del quadro politico, sostenuto dalla grande maggioranza dei partiti in parlamento che sono diventati più che altro componenti diverse del grande “partito unico liberale”, più che corpi sociali che rappresentano interessi diversi tra di loro confliggenti, è il frutto di una crisi organica del blocco sociale dominante. Ma soprattutto, bisogna prendere atto della deriva “totalitaria” che si esercita sia a livello interno che anche sul piano internazionale. E le considerazioni sin qui fatte devono necessariamente essere messe in parallelo con la nuova dottrina euro-atlantica che ha innalzato il livello di scontro contro i paesi emergenti e non omologati al Washington consensus, a partire da Cina e Russia, ed impone ai paesi subalterni (quale è l’Italia) indirizzi strategici in politica economica ed estera che è contraria agli interessi materiali dello sviluppo delle forze produttive nazionali. Il bisogno di uscire dalla crisi economica e recuperare quel consenso perso nella società a causa di una mancanza di volontà nella redistribuzione dei poteri e della ricchezza prodotta, potrebbe spingere per una politica nazionale di apertura e maggiore integrazione economica e commerciale con la Cina e gli altri blocchi regionali emergenti. Ma questa è impedita da un vincolo di solidarietà atlantica che scarica sulla “periferia” dell’impero i costi di queste nuove direttive strategiche, scelte nel tentativo – vano- di continuare a mantenere una egemonia planetaria da parte degli Stati Uniti.
È in questa contraddizione e nel suo approfondimento che si giocherà la partita fondamentale per la costruzione di una politica alternativa che lotta per espropriare l’egemonia politica all’attuale classe dominante. Ed in questa lotta, non negli equilibrismi interni alle convulsioni del quadro politico, potrà emergere una nuova classe dirigente.