Subalternità “digitale”. Riflessione sulle dinamiche della produzione nel settore informatico in Italia

di Federico Licastro

In questi ultimi anni il nostro paese è stato costretto a diminuire, se non addirittura svendere e azzerare, la produzione in molti settori strategici a livello internazionale, come è il caso del siderurgico e metallurgico. Il relativamente nuovo “settore informatico” pare essere già emanazione di una visione del mondo che non porta alcun beneficio al nostro paese e a molti altri nel mondo.

da circa vent’anni a questa parte il modo di produzione capitalistico mondiale è stato interessato da un’accelerazione esponenziale degli investimenti nello sviluppo delle tecnologie informatiche, che ne hanno fatto seguire una metamorfosi quasi capillare in tutti i settori di produzione. nel quadro di un’economia di mercato che produce disuguaglianze e povertà in tutto il mondo, questa accelerazione ha reso più solidi i monopoli a livello mondiale di Amazon, Microsoft, Google, Apple. Alcuni osservatori particolarizzano questo cambiamento utilizzando il neologismo capitalismo delle piattaforme.

La mappa seguente mostra l’infrastruttura della Microsoft a livello mondiale: l’ubicazione dei datacenter e le relative tracce delle reti che li uniscono. Si può forzare, nemmeno così prosaicamente, un parallelo se si prende in mano una cartina che segni le basi militari degli Stati Uniti e della NATO nel mondo.

Negli ultimi cinque anni almeno in Italia si sente parlare molto di “trasformazione digitale”. la tecnica del nuovo modo di produzione capitalistico, con l’universo dei suoi strumenti (le tecnologie) che porta nel mondo, che sta conducendo verso il rafforzamento delle rendite, meglio se finanziarie, passa attraverso queste due parole che stanno permeando l’economia, la politica e la società italiana e non solo. durante la pandemia sono esplosi i ricavi del ramo italiano di Microsoft: licenze milionarie sono state acquistate da moltissime PA sul territorio nazionale, soprattutto nel comparto scolastico, nelle università e nella ricerca. Questi contratti sono stati sottoscritti per acquistare software, che in Italia si produce molto poco, salvo qualche isola felice che però strategicamente è nulla e abbraccia solo il profitto privato; licenze per utilizzare le macchine di proprietà Microsoft, soprattutto, il che la dice lunga sulla visione strategica italiana nel settore delle tecnologie informatiche.

Vengono spesi centinaia di migliaia di euro non solo per l’utilizzo di software sviluppati altrove, ma anche per i dispositivi, per la strumentazione fisica (server fisici e virtuali, dischi di archiviazione e infrastrutture di rete che vanno a comporre il cosiddetto cloud, ovvero le “macchine” dei Grundrisse di Marx, il cui utilizzo può raggiungere costi di centinaia di migliaia di euro). Anche un buon numero tra le professionalità del settore gravitano ormai attorno a questo grande oligopolio.

Una ulteriore criticità emerge dall’osservare che molti dei laureati delle facoltà informatiche, quelli che rimangono in Italia, lavorano per aziende, a volte acquistate da fondi speculativi esteri, che costruiscono dei prodotti software relativi a settori economici non certo strategici, come la moda. Le alte professionalità (grande attenzione bisognerebbe rivolgere a mio parere allo studio e all’applicazione dell’intelligenza artificiale) vanno via dal nostro paese o ripiegano sul ginepraio delle start up, per interessi individualistici, che contribuiscono a fomentare la dinamica della privatizzazione della sanità, tra le altre.

Produrre in Italia almeno la parte software di un sistema informatico sarebbe un grande passo: ci sono giovani con abilità e visione che ahinoi nella maggior parte dei casi non vengono adeguatamente inseriti nelle attività produttive. Mancano infrastrutture pubbliche, passatemi il termine, efficienti, e manca soprattutto una gestione che abbia una visione dell’interesse collettivo nel medio-lungo periodo. Questo comporterebbe una rivalutazione della destinazione dei fondi assegnati alle varie agenzie statali: non pochi ostacoli, generati dalle politiche dell’Unione Europea e dal suo sistema di finanziamento (Horizon) e non solo, incontrerebbe una volontà politica che si prefissasse di superare la logica presente, ritornando a finanziare in maniera adeguata la ricerca universitaria pubblica, e non solo nel dominio delle tecnologie informatiche!

Nel cosiddetto campo del “digitale”, l’industria italiana è molto indietro perché gli interessi di poche multinazionali globali si ripercuotono negativamente sulle piccole e medie imprese, non solo in Italia, e questo per volontà politiche ben precise. Uno dei grandi problemi, a mio avviso, riguarda non solo l’adeguatezza di investimenti e il risparmio privati, ma riguarda anche le strutture adibite a gestire i meccanismi di amministrazione pubblici di un paese. La scuola, l’università e la ricerca rischiano di diventare diretta emanazione di volontà politiche e visioni del mondo (le quali vanno sempre a costruire quest’ultimo) che rafforzano interessi ben definiti delle classi dominanti.

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