Sotto il referendum nulla

di Ugo Boghetta

Passati alcuni giorni dal risultato referendario e dalle reazioni a volte istintive, a volte non diverse dalle chiacchiere da bar, è utile procedere in modo più approfondito all’analisi del voto e alle relative implicazioni.

Ancora una volta emerge la questione del quorum. Questa ha due aspetti. Il primo luogo c’è il fatto che i referendum costituzionali non hanno il quorum (del resto come le elezioni) a differenza dello strumento popolare per eccellenza. Senza il quorum oggi faremmo un’altra discussione anche se le questioni di fondo non cambierebbero di molto. In secondo luogo il mancato quorum rimanda alla pregnanza dei quesiti proposti. Infatti la promozione dei referendum sul lavoro partiva dalla previsione che ci sarebbe stato anche quello sull’autonomia differenziata. In questo caso il centro destra non avrebbe potuto dare indicazioni di non partecipare e avremmo avuto al sud molti più votanti. Con il quorum si sarebbero portati a casa miglioramenti per i lavoratori al momento non ottenibili in altro modo. Saltato quello sull’Autonomia gli altri quesiti sono rimasti nudi. 

Le considerazioni di cui sopra nulla tolgono alle responsabilità di questa grave sconfitta di Schlein e Conte. I referendum infatti non fanno parte di nessuna vera strategia. Landini aveva parlato di rivolta sociale ma con questi due partiti di riferimento non si va da nessuna parte. Tuttavia i quesiti erano deboli. Non avevano quegli elementi simbolici e trasversali che servono ad un referendum. Non producevano pathos. Quelli che hanno superato il quorum erano di ben altra portata: divorzio, finanziamento ai partiti, aborto, scala mobile , nucleare (scoppio centrali), legge elettorale (Segni/periodo tangentopoli). 

A ciò si sono aggiunte altre problematiche strutturali: la melassa sociale del lavoro dove ognuno è in posizione diversa. Basti pensare ai milioni di partite Iva o ai precari che non venivano intaccati dai quesiti. Non considerare la frammentazione di classe nella scelta dei temi è cosa grave.

Hanno inoltre inciso la relativa credibilità della Cgil e l’ennesima frattura sindacale con un Cisl ormai diventa un cinghia di trasmissione del governo Meloni. Del resto la questione sindacale è di lunga data a partire dalla politica dell’Eur del 1977. Per non parlare della presenza del Pd che a molti ha dato fastidio perché fa e disfa come Penelope. Ma almeno lei aveva un motivo. 

Il referendum sulla cittadinanza pone invece ancora più problemi. Se il quorum fosse stato superato il referendum radicaloide sulla cittadinanza sarebbe probabilmente stato bocciato. Infatti gli elettori di destra avrebbero portato i No oltre il 50%. Ma oltre a ciò, come rileva l’Istituto Cattaneo, fra coloro che hanno votato Sì ai referendum sul lavoro uno su quattro ha votato No al 5° quesito. Di questi circa il 60% sono elettori del M5S, ma ha votato No anche il 20% di elettori PD. Inoltre se andiamo a vedere la distribuzione dei voti sul territorio troviamo l’ennesima riconferma della divisione fra sinistra ZTL e periferie. Infatti nelle ZTL, soprattutto del nord, i No sono poco sotto il 40% nelle zone periferiche. Mentre nel centro, dove gli immigrati li vedono in televisione, i Sì sono al 90%. 

Tutto ciò ci dice due cose. La prima che la cosiddetta sinistra (tutta) sbaglia nell’approccio alla questione immigrazione lasciando alla destra un tema di propaganda potente. La seconda è che per questi motivi non si può affrontare la questione immigrazione (di cui la cittadinanza è solo un aspetto) con un referendum. Questa va affrontata in modo tanto complessivo quanto realistico. Altrimenti ci si rimette tutti.

A partire da queste premesse trovo non convincenti una serie di opinioni espresse prima e dopo il risultato referendario. Trovo infatti sciocco non andare a votare guardando al dito (Cgil, PD) e non al tema del lavoro che comunque veniva messo al centro. In secondo luogo trovo sbagliata la conclusione per la quale solo con la lotta si può cambiare la situazione. La lotta infatti non è solo conflitto tradeunionista (e rimando a Lenin), ma anche battaglia politica, elettorale, ideologica. Credere che nel prossimo periodo si possa cambiare solo con il conflitto è estremismo infantile … anzi, ormai senile. Credere che basti un sindacato duro e puro senza la presenza di partiti di classe è pura illusione. Se è vero infatti che senza lotta sociale non si va da nessuna parte, è altresì vero che questa deve trovare sbocchi, senso, prospettiva. Ciò è ancor più necessario stante la sconfitta storica e i cambiamenti sociali interni al mondo del lavoro che proprio per la frammentazione l’unità di classe non è data nemmeno in sé. Mancano anche le parole. Alcune sono state fatte proprie dal nemico: riforma ad esempio. Altre sono ormai quasi assenti: classe, lotta di classe. Il termine democrazia da tempo ha cambiato senso. Altre ancora sono del tutto assenti: socialismo. Inoltre bisogna tener conto della fase che propone cambiamenti epocali: fine della globalizzazione liberista occidentale, ridefinizione del Unione Europea, della Nato e il ritorno della guerra anche all’interno dell’Occidente. Nonché il ritorno degli Stati. Ma se ne erano mai andati!?

Ciò ci propone compiti gravosi: il ritorno al classismo quando la classe è al massimo della divisione e subalternità; la reinvenzione della politica in quanto questo termine è scaduto per tutti nell’attualismo e nel “comunicazionismo”; la necessità di un ideologia: il socialismo. Senza almeno un po’ di tutto ciò si rimane nel pensiero unico liberista in cui prima o poi tutto ritorna come in un buco nero.

Sfrondata dunque la questione referendaria da tutte le questioni superficiali ci rimane una situazione più grama dello stesso pur deludente risultato. Serve un cambio di passo. Senza il coraggio di essere inattuali non potremo mai dire: “Ben scavato vecchia talpa”!

Unisciti al nostro canale telegram