Vita precaria, un incentivo al «sommerso»

di Francesco Piccioni | da il Manifesto del 1 settembre 2012

stop precarietaUna lunga strada piena di grandi successi. Tre decenni di politiche economiche, di «riforme» del mercato del lavoro, di «riforme» pensionistiche, tutte motivate con la necessità di «aiutare i giovani» a trovare un’occupazione ed ecco qui i risultati. Un tasso di disoccupazione giovanile vicino al 34%, accompagnata da un’occupazione per due terzi precaria e ricca di «part time involontari», è qualcosa di più di una «generazione perduta». Indica che la crisi – globale, oggettiva, indiscutibile – è stata aggravata da scelte scellerate, a loro modo «pro cicliche», che aggiungono disastro a disastro. Alzare l’età pensionabile in regime di articolo 18 significava «tecnicamente» ridurre l’occupazione giovanile – generalmente precaria – alla prima recessione, con le aziende che preferiscono mantenere al lavoro gente esperta, anche se relativamente più costosa. È quello che è accaduto finora. Quando entreranno a regime gli effetti della cancellazione dell’ultima tutela degli occupati vedremo verosimilmente il processo opposto, con un relativo aumento di giovani presi con contratti «atipici» (quindi senza alcuna speranza di arrivare alla vecchiaia con pensioni dignitose) e crescita della disoccupazione per le fasce più mature. Figli pagati poco e padri senza più lavoro. Un vero successo dettato da tanto amore per «l’equità».

Si può obiettare che sarebbe ingiusto addebitare al governo in carica tutte le responsabilità per questa situazione. Se – come ha rivelato ieri un’inchiesta giornalistica – circa il 30% degli effettivi nelle «forze dell’ordine» ha un secondo lavoro, non autorizzato in nove casi su dieci, la colpa va equamente distribuita a tutti gli esecutivi che hanno cercato di ridurre la spesa pubblica incidendo sulle «partite correnti» (stipendi, turnover, ecc) pur di non toccare l’universo più che opaco degli appalti, altre voci «straordinarie» o l’evasione fiscale. Fino all’esito assolutamente paradossale di avere una massa di «uomini della legge» che lavora per gente che dovrebbe arrestare in flagranza di reato. Difficile persino immaginare cosa possa avvenire nei territori più abbandonati del Sud, ma abbiamo negli occhi la realtà dei quartieri metropolitani.

L’Eurispes – nel suo rapporto intitolato «Italian Spread, la differenza fra ricchezza, redditi dichiarati e tenore di vita» – quantifica il fatturato dell’economia sommersa in 530 miliardi l’anno. Un terzo del Pil «legale», che per quest’anno diminuirà di oltre il 2%. Un universo fatto per metà di lavoro nero (migranti clandestini e carabinieri fuori servizio nello stesso cantiere edile, magari di proprietà oscura) e per il 30% di evasione fiscale da parte di imprese «legalissime».

La retorica legalitaria non riesce nemmeno a cogliere questa realtà, fatta di confini evanescenti e figure spurie, se non compromesse. Le politiche che insistono per diminuire i redditi e i diritti del lavoratore «in chiaro» sono automaticamente scelte che spingono verso le «integrazioni» di reddito offerte dall’economia sommersa. Sono insomma «incentivi» che generano «complicità» oggettive, a livello sociale, persino tra criminalità e «tutori della legge». Perché la libertà di un uomo è prima di tutto libertà dal bisogno. E quindi, è vero, questo governo non ha tutte le colpe. Soltanto una: quella di accelerare in vista dell’abisso.