Una politica antimonopolista per fermare l’offensiva contro il lavoro

di Erman Dovis, Comitato Centrale PdCI

the-broken-chain1Il recente violento attacco all’articolo 18,che verrà smantellato senza tante storie, non deve coglierci di sorpresa né farci strabuzzare gli occhi fuori dalle orbite, cosi come non dobbiamo mostrare stupore per le parole del sottosegretario all’economia Gianfranco Polillo: pochi giorni fa, egli ha affermato la necessità ,per i lavoratori, di rinunciare ad una settimana di ferie per aumentare la produttività. Un’ipotesi piuttosto concreta, secondo il sottosegretario, e che avrebbe già raccolto la disponibilità a trattare da parte delle confederazioni sindacali. Il succo del discorso starebbe nella necessità di produrre di più in nome dell’interesse “generale”. Bene comune, senso di responsabilità, interesse generale, sviluppo del paese…sono parole piene di retorica con le quali il capitalismo monopolista si infarcisce la bocca, non solo per scardinare diritti sociali acquisiti, ma soprattutto per sospingere nel recinto della restaurazione schiavistica il suo nemico storico, la classe operaia , e successivamente l’intera società.

La violentissima crisi economica, scatenata dalle Corporations e dalla grande finanza contro le masse popolari, aggrava ogni giorno di più la già devastata situazione sociale del paese. Le misure assunte dall’esecutivo Monti, riflettono una drammatica condizione che vede governi e istituzioni completamente asserviti al potere diretto dei Monopoli. Questi, in feroce concorrenza tra loro nella ricerca del massimo profitto rastrellano denaro in ogni modo, imponendo decentramenti produttivi, chiusure di stabilimenti, tagli salariali, precarietà, licenziamenti, povertà, malattie, aggressioni militari. E’ necessario dare un volto ed un nome a costoro, affinché sia chiaro per tutti con chi abbiamo a che fare: uno di questi è il barone Jacob Rothschild, patrimonio personale dichiarato di 476 milioni di sterline. Costui è tra i proprietari , tra le tante cose, della Banca d’Italia, con la sua famiglia possiede la Barclays (tra le maggiori azioniste di Intesa SanPaolo), la JpMorgan (che controlla Monte dei Paschi di Siena), Mediobanca (che controlla Unicredit) , Banca Carige , il Banco Santander Central Hispano (il quale controlla ABN AMRO, un altro pilastro di Unicredit). Il potentissimo pescecane, fresco di alleanza economica col suo sodale Rockefeller, sostiene in una recente intervista di voler lottare contro la disoccupazione( forse finanziando l’ennesima guerra di sterminio) e, sollecitato dalla tenera nipotina Alice, ha deciso di tuffarsi nel business di acqua, cibo e energia. Il suo cinismo spregiudicato non conosce vergogna , ed intanto in Inghilterra cresce esponenzialmente il numero dei bimbi malnutriti. In Italia, lo Statuto dei Lavoratori buttato come un’esca sanguinante tra squali affamati è, se vogliamo, l’immagine dell’essenza della lotta di classe: il massimo profitto contro il lavoro. Questo conflitto inconciliabile è alla base delle crisi economiche mondiali scatenatesi periodicamente dal 1850 in poi, perché la tendenza del capitale a concentrarsi in grandi Cartelli monopolistici, si rafforza ad ogni nuova crisi, ed è il principale ostacolo allo sviluppo delle forze produttive. Non solo: la concentrazione sempre crescente della ricchezza nelle mani di sempre meno capitalisti determina uno svilimento della vita democratica e delle istituzioni, che vengono totalmente sottomesse all’interesse diretto del potere economico, e piegate verso una progressiva svolta autoritaria e plebiscitaria. In molti ancora oggi tendono a camuffare il carattere della crisi, che è di sovrapproduzione relativa : c’è chi si limita a denunciare il potere delle banche, in misura cosi fumosa da lasciar intendere queste come un diavolo dagli oscuri poteri, che magicamente crea denaro, e che attraverso anni di speculazioni ha sprofondato l’umanità in una grave crisi economica. Divertente, se non fosse che questo è un effetto e non la causa del contendere. Alla base di ogni crisi capitalistica vi è sempre la teoria scientifica, dimostrata da Marx , del plusvalore. quella parte di valore cioè, che è creata dalla produzione del lavoratore e non viene pagata dal capitalista. La ricerca del massimo profitto da una parte ed il generale impoverimento delle masse popolari, con il conseguente e drastico ridimensionamento dei consumi, è il vero succo della questione, il momento clou della festa. Ogni crisi economica porta con sé un immane devastazione sociale, una distruzione di forze produttive e umane, le produzioni industriali crollano e vengono sospinte indietro anche di dieci anni. Durante la grande depressione del 1929-33, la produzione mondiale si abbassò del 45% in tutto il mondo capitalistico: negli Stati Uniti la produzione di acciaio scese ai livelli di 31 anni prima, mentre in Inghilterra quella del ferro tornò indietro di 75 anni. Sempre in America, a causa della crisi vennero demoliti 92 altoforni, distrutti oltre dieci milioni di acri di piantagioni di cotone, vennero ammazzati e buttati nel fiume Mississippi oltre 6.000.000 di maiali. In Brasile, 22.000.000 di sacchi di caffè furono buttati in mare. In questi periodi, una fascia sempre più vasta della popolazione vive condizioni drammatiche di povertà: tagli ai salari, disoccupazione, sfibrante intensificazione dello sfruttamento. Gli operai americani impiegati nell’industria, durante la crisi sopra citata, scesero nella percentuale del 40%, mentre i salari crollarono del 58%. La riduzione drastica del salario ovviamente peggiora la vita dei lavoratori ancora occupati perché oltretutto si innalza l’intensità del lavoro e della giornata lavorativa. Infatti, se è vero che durante i periodi di crisi la produzione si riduce, ed in molti casi si lavora non a pieno ritmo settimanale, questo non comporta assolutamente una diminuzione dello sfruttamento: la tendenza è quella di intensificare la produzione, anche arrivando a prolungare la giornata lavorativa ( e qui ritorniamo alla proposta di Polillo, descritta in apertura di articolo): insomma, tanto meno affari si fanno, tanto maggiore deve essere il margine di guadagno. meno giorni si lavora, maggiore è la quantità di tempo di lavoro da consegnare al plusvalore! Nel 1969,anno da tenere bene a mente, fallirono quindicimila piccole e medie imprese negli Stati Uniti, che vennero assorbite dalle multinazionali: è lo stadio iniziale della nuova crisi di sovrapproduzione che andrà inasprendosi nel corso degli anni a venire, biforcandosi e diramandosi fino all’oggi. In Italia, “l’autunno caldo” deve essere ricordato per un aspetto molto importante: per la prima volta la classe operaia rivolgeva le sue richieste non più solo al padronato ma anche al governo. Oltre alle rivendicazioni di carattere salariale e normativo, i lavoratori esprimevano ed indicavano richieste di natura politica e sociale. Il reddito spettante ai lavoratori, inteso come salario, raggiunse il 70% della ricchezza prodotta ,vennero abolite le gabbie salariali, fu conquistato il diritto al pagamento dei primi tre giorni di malattia, fu approvato Lo Statuto dei diritti dei Lavoratori proprio sulla scia di questa forte presa di coscienza di classe. Al padronato fu chiaro che la repressione, i licenziamenti, le provocazioni fasciste non fermavano l’avanzata operaia. Occorreva passare alla controffensiva, innanzitutto intensificando misure di ristrutturazione aziendale a largo raggio, e poi intervenendo all’interno delle organizzazioni operaie e sindacali, mediante la sistematica corruzione di un consistente gruppo di esse: aumenti salariali ai singoli lavoratori, concessioni di incarichi statali ben retribuiti ai dirigenti “compromessi”, finanziamenti statali a organizzazioni riformiste. In un’intervista concessa all’Espresso nel 1970, l’avvocato Agnelli dichiara che la ripresa delle lotte operaie del 1969-70 aveva insegnato alla Fiat che il tempo delle grandi concentrazioni operaie era finito. Il fenomeno del decentramento produttivo, tendente a trasferire all’esterno della fabbrica tutta una serie di lavorazioni, vivrà in quegli anni una fase di ulteriore incremento. Creando un pulviscolo di piccole e medie imprese, direttamente e indirettamente legate alle decisioni della grande casa madre, il padronato ottiene vantaggi non indifferenti: innanzitutto si divide la classe operaia, frammentandola ed incidendo in tal senso sulla sua combattività, impedendole anche l’oggettiva possibilità di organizzarsi .in quest’ottica, anche la regolamentazione contrattuale odierna è estremamente funzionale . i contratti a tempo determinato, di collaborazione esterna, l’esternalizzazione selvaggia di ogni attività impedisce un’organizzazione efficace dei lavoratori. Dall’altro lato, il decentramento produttivo permette al capitalismo monopolista di abbassare fortemente i costi del lavoro, di aggirare le norme sulla previdenza sociale, consente uno sfruttamento incontrollato della forza lavoro(quante ore si lavora nelle piccole botteghe?),gli straordinari non vengono pagati ,i contratti nazionali non hanno valore ed il sindacato è pressoché assente. Ma cosa ancora più importante, il decentramento produttivo, il contoterzismo, il subappalto sono pratiche che subordinano totalmente la piccola e media impresa agli interessi ed al volere del grande capitale. Intanto larghi settori della sinistra , già nei primi anni settanta, negano il carattere strutturale della crisi in atto, attribuendo le ragioni di esse ad errori dei dirigenti della DC in materia di politica economica. Rinnovando il modello di sviluppo si afferma di poter uscire da tale fase in maniera indolore. Si inizia a parlare diffusamente di senso di responsabilità da parte della classe operaia, di politiche a favore del credito di impresa, di sacrifici e di austerità. Per avanzare sul piano democratico , per risolvere i problemi, secondo il Partito comunista, è necessaria una politica di una mutua comprensione generale tra cittadini e partiti democratici in un clima di nuova solidarietà nazionale. Un’analisi che non prevede dunque una riflessione profonda riguardo il ruolo diretto e determinante dei monopoli nell’assetto economico e politico del paese. Nel 1975, mentre si ottiene l’accordo sul punto unico di contingenza, Agnelli dichiara, in un’intervista rilasciata a Paese Sera, che “…è necessario pervenire ad una tregua salariale, per il bene del paese, perché problemi economici che non risparmiano nessun paese ci pongono di fronte interrogativi angosciosi di cui non si intravedono che soluzioni gravi. ..bisogna avere il coraggio di dimenticare preconcetti dottrinali, di superare l’ostilità istituzionale , di rivedere in una nuova ottica schieramenti e collocazioni economiche e partitiche.” Il padronato chiede un piano di riconversione industriale con un sovvenzionamento di circa 1400 miliardi alla grande industria, e le organizzazioni antagoniste sembrano non capire il peso della posta in palio. In un’intervista concessa al quotidiano di Torino La Stampa nel gennaio del 1976, Luciano Lama si lamenta dei giovani senza esperienza che non hanno la capacità di resistere ai sacrifici…e si chiede preoccupato dove andrà il paese, mancando questo spirito di sopportazione. propone almeno un lavoro, anche fuori contratto, che dia loro tre, quattro o cinquemila lire al giorno, e a chi voglia seguire corsi di qualificazione, li segua senza compenso. La parola d’ordine sacrificio diviene una costante da accostare alla classe operaia. Persino il grande dirigente partigiano Amendola sostiene la necessità , da parte dei lavoratori, di assumere la responsabilità di affrontare duri sacrifici per sostenere gli investimenti del rilancio industriale. Il 12 agosto del 1977 è approvata la Legge 675 sui Provvedimenti per il coordinamento della politica industriale, la ristrutturazione, la riconversione e lo sviluppo del settore. Proprio nel momento in cui il Pci ottiene uno straordinario risultato elettorale, attestandosi al 34%, il concetto della centralità dell’impresa prevale sul valore del lavoro, diventa legge e getta le basi a lungo termine per la definitiva restaurazione monopolista. Il peso enorme di questa contraddizione, tra consenso elettoralistico e arretramento sociale-democratico, diverrà sempre più insostenibile nel corso degli anni per il Pci. Il massimo profitto rompe gli argini e diviene dunque pietra angolare nei rapporti sociali in materia di relazioni industriali, aprendo foschi scenari futuri ed annunciando drammatiche tragedie sociali all’orizzonte. Uno degli effetti immediati è l’offensiva lanciata contro il salario, per la sua riduzione: nel gennaio del 1977 un accordo interconfederale, poi trasformato in legge dello Stato, elimina dal calcolo per l’indennità di liquidazione la contingenza maturata dal mese successivo. Da Marzo di quell’anno, non si terrà più conto degli aumenti delle tariffe ferroviarie e dei quotidiani nel calcolare l’aumento del costo della vita. Tre anni dopo, la contingenza non verrà più calcolata, per gli impiegati, sugli scatti di anzianità. Gli anni ottanta si aprirono caratterizzandosi da una forte carica di valori tipici delle classi borghesi e reazionarie, inquadrabili nelle politiche condotte da Reagan e dalla Thatcher, che affermavano con forza la logica del profitto. La grande borghesia italiana, dopo aver conquistato pochi anni prima il diritto alla ristrutturazione delle proprie aziende, apri’ la lunga fase della riorganizzazione sulla sconfitta della classe operaia della Fiat a Mirafiori nel 1980. Sfruttando la legge 675 si introducono nuove tecnologie nei processi produttivi e negli uffici a spese dei lavoratori. Per esperienza personale, ricordo la vicenda Indesit di quegli anni, ma tutte le grandi aziende del paese attingono ai fondi pubblici, impongono leggi statali , espellono in massa la classe operaia dal processo produttivo attraverso il ricorso indiscriminato alla Cassa Integrazione Guadagni. Giungono ad accordi sindacali se necessario, il tutto in funzione della centralità dell’impresa, che sopprimendo il valore umano e sociale del lavoro, inocula nel tessuto della società una falsa coscienza che considera il lavoratore come uno strumento, una semplice variabile nei processi di innovazione e rinnovamento industriali. Una volta per tutte è dimostrato quanto siano false ed illusorie le teorie di chi sostiene che l’occupazione cresce in misura proporzionale con l’innovazione e gli investimenti. In realtà a crescere sono i profitti, la disoccupazione e la crescente povertà delle masse popolari, mentre la crisi si acutizza sempre di più. Il 1983 vede l’approvazione del famigerato decreto Scotti, dopo pesanti attacchi alla scala mobile accusata di generare inflazione. Si riducono ulteriormente le voci necessarie al calcolo del costo della vita, si riduce del 10% il valore del punto di contingenza, facendo scendere la copertura della scala mobile dal 73% al 63%. Tuttavia quest’accordo verrà disdetto pochi mesi dopo da Confindustria, per aprire un nuovo confronto che porterà all’accordo del 14 febbraio 1984, che prevede un rallentamento generale sostanziale del meccanismo della scala mobile e di ogni forma di adeguamento salariale al costo della vita. La Cgil promuoverà un referendum abrogativo che purtroppo non raggiungerà l’obbiettivo sperato. Nel 1985 la copertura della scala mobile scende ulteriormente al 50%, mentre una legge dello stato riduce le fasce di retribuzione sottoposte a tutela, e nel 1986 un accordo interconfederale stabilisce l’impegno alla contrattazione salariale in relazione alla stabilità ed alla produzione, impone vincoli legati alla flessibilità, riduce nuovamente dalla scala mobile le voci di calcolo del costo della vita ed introduce aperture per quanto riguarda l’intenzione padronale di ricorrere in forma ulteriore e più ampia a forme di lavoro precario come contratti a termine e contratti di formazione. Infine negli anni novanta, a seguito della disdetta della scala mobile da parte di Confindustria, questa verrà definitivamente eliminata con l’accordo del luglio 1992. La scomparsa del Pci, pur con le sue contraddizioni, la fine dell’Urss e della sua politica di coesistenza pacifica, spalancano definitivamente i cancelli all’attacco violento ed a tutto campo di un centinaio di multinazionali, di proprietà di un esiguo numero di magnati ed oligarchi, sprofondando l’umanità tutta in un ulteriore aggravamento della fase di crisi economica. La debolezza del nostro capitalismo, da ricercare della logica della ricerca del massimo profitto, ha infatti imposto la continua richiesta di periodiche svalutazioni della lira da parte dei capitalisti nostrani. Oggi non può essere più cosi e per contrastare la feroce concorrenza dei paesi emergenti, si fanno sempre più pressanti le richieste ai governi per imporre riduzioni dei salari, delle pensioni, per legalizzare il lavoro sottopagato, per incrementare la giungla retributiva con contratti specifici di area, con nuove gabbie salariali, con speciali deroghe ai contratti nazionali. Il tutto demonizzando il sindacato. In questa epoca inoltre, grossa parte degli investimenti del grande capitale si orientano nel terziario e nella finanza a discapito della produzione manifatturiera e di conseguenza vi è la necessità di espellere senza troppe storie un forte esubero di forza-lavoro, da qui comprendiamo il perché dell’attacco all’articolo 18,che prelude a scenari ancora più tragici di quelli attuali. Le guerre militari di conquista sono una drammatica conseguenza della crisi scatenata dai colossi economici, uno sbocco del resto teorizzato dall’analisi keynesiana in soccorso del capitalismo. Il rafforzamento dei monopoli, anche in chiave finanziaria, porta a drammatici scenari di miseria, l’Europa è investita in pieno in questo tentativo di restaurazione Medievale.. In definitiva, viene maturando oggettivamente uno scontro duale, seppur disorganico: da una parte la restaurazione oligarchica, dall’altra la classe operaia e con lei la società tutta. In mezzo, la confusione, il plebiscitarismo grillino, che va pericolosamente oltre la figura del patetico comico genovese , e le istituzioni piegate e schiacciate dall’offensiva di Elkann, Rockefeller, Rothschild, e soci. Il malessere di Squinzi e di Confindustria non nasce a caso, deve essere inquadrato in questa valutazione d’insieme: la corsa al massimo profitto dei Cartelli annienta chiunque si frapponga, anche involontariamente , nel cammino di questi sciacalli. Le masse popolari come abbiamo visto sono le prime ad essere investite dalla furia monopolista, ma via via il vortice risucchia dentro tutti: piccole e medie imprese e le fasce benestanti, mentre il ceto medio è scomparso da tempo. Eppure la resistenza di classe affiora e si manifesta in Europa: in Grecia i compagni operai delle Acciaierie Greche sono in sciopero dal Novembre scorso contro i piani di riorganizzazione aziendale. In Spagna un recente sciopero generale contro le misure di austerity volute dalla Bce, di proprietà di questi predoni miliardari(non dimentichiamolo mai)ha praticamente paralizzato l’industria e il settore pubblico della nazione. In Italia gli operai della Magneti Marelli di Crevalcore e quelli della Curved Plywoods di San Matteo della Decima hanno impedito che i padroni delocalizzassero le ditte alla chetichella, con la scusa del terremoto. La questione è di classe ed avrà una soluzione di classe: o il grande Capitale sconfigge definitivamente l’umanità e ci riporta indietro di almeno cent’anni e per altri cent’anni, oppure sara’ la classe operaia a prendere in mano il potere economico. Nel mezzo intanto, occorre fare tutto il possibile per fermare quest’offensiva di guerra e miseria. La raccolta firme contro l’articolo 18 sarà certamente un’occasione, per la classe operaia, di sensibilizzare la società su quanto devastante sia la portata dello scontro in atto. Unendo a ciò una denuncia concreta che sappia dare un volto al nemico di classe che abbiamo di fronte, che non è un’entità astratta come il mercato anonimo e cattivo, ma ha nomi , cognomi miliardi di euro e paradisi fiscali. Margini per politiche riformiste ormai non ve ne sono più, e possiamo affrontare temi concreti che prevedono la tassazione dei miliardari e delle speculazioni finanziarie .e proposte per il controllo pubblico del settore bancario. Questo è il compito che deve assumersi l’avanguardia cosciente della classe operaia, in alleanza con tutte le forze democratiche e progressiste. Se si verifica questo scatto dei lavoratori, organizzati in funzione dirigente nel nostro Partito nei luoghi di lavoro di produzione e di ricerca, se la classe operaia dirigerà la battaglia antimonopolista, allora il valore umano del lavoro riprenderà la sua forza e scardinerà lo sciacallaggio ignobile di questo pugno di miliardari infami e senza morale. Perché noi operai non saremo mai i loro schiavi moderni a 500 euro al mese, o senza un lavoro.