Una piazza a metà strada tra drammi e concerto

di Francesco Piccioni | da il Manifesto
 

cgil roma 201012Un palinsesto che alterna rock e racconti disperati dalle fabbriche in crisi, dove si fa fatica a parlare gli uni con gli altri. E sotto il palco cresce il «mugugno» per una scadenza che – fatta in questo modo – appare davvero poco incisiva.

Una piazza storica, una splendida giornata di sole, belle facce di gente seria che vive di lavoro ed è abituata a battersi da sempre. Perché diritti e salario non sono regali del Signore o di S. Giovanni, ma il risultato concreto di anni di lotta. Eppure… La formula scelta è «innovativa», certo. Una manifestazione nazionale, senza sciopero generale e senza corteo per le vie della capitale; un mega-presidio che porta a Roma rappresentanze più o meno nutrite delle centinaia di situazioni di crisi sparse nella penisola e crea un «evento» a metà strada tra il concerto del Primo maggio e la manifestazione sindacale vera e propria. Un palco immenso, grande mezza piazza, più le file di gazebo delle regioni, delle categorie, dei referendum su art. 18 e per l’abolizione dell’art. 8 del «decreto d’agosto» 2011. Ma c’è spazio, ci si può sedere sul prato.

Eppure… Non c’è la calca dei momenti più intensi. I gruppi musicali si alternano al microfono, intervallati da una testimonianza diretta dalle tante fabbriche chiuse o in crisi (Irisbus, Alcoa, Vynils, e chi più ne ha, ne può mettere). Rock militante o patriottico (Eugenio Finardi svaria dai canti di lotta all’inno di Mameli), sax tutto ritmo e allegria, poi improvvisamente una tragedia in pochi minuti, sparata in faccia a gente che ne vive altrettante nella propria condizione quotidiana. Poi di nuovo musica. Potente, assordante, un ostacolo quasi invalicabile per la comunicazione fra le persone. Per parlare con i delegati, territoriali e di fabbrica, dobbiamo allontanarci insieme per decine di metri. E ci si intende a fatica lo stesso. Le varie delegazioni si guardano, si salutano, qualcuno si abbraccia. E fanno cenno «ci parliamo dopo»…

Le diverse anime, o i diversi ruoli nel sindacato, si evidenziano abbastanza presto. I dirigenti territoriali sono più cauti, «politici» in senso lato. Parlano delle situazioni di crisi, dei pericoli della «divisione sindacale», della necessità di una «politica industriale»; della volontà di premere sul governo perché la smetta di pensare soltanto al «rigore di bilancio», occupandosi «dello sviluppo dell’economia reale».

La Sardegna è al centro dell’affetto generale e il «delegato a parlare» dai suoi compagni snocciola cifre da paura. Su una «forza lavoro effettiva di 700.000 unità, prima della crisi» ci sono «110.000 persone che sopravvivono solo grazie agli ammortizzatori sociali»; il «tasso di disoccupazione sta al 14%», che per i giovani sale al 46. «Siamo un’isola e ci aspetteremmo una politica di perequazione che attenui una condizione logisticamente e storicamente difficile». Invece niente, nemmeno sul prezzo dell’energia (per questo, ufficialmente, Alcoa va via e un nuovo investitore non arriva). E «poi è arrivato anche l’aumento delle tariffe dei traghetti, che rischia di mettere in ginocchio persino il turismo».

La Liguria non è un’isola, ma i problemi sono quasi gli stessi, su scala per fortuna minore. «Qui c’è la questione dell’Ilva, che a Genova fa una lavorazione di secondo livello sull’acciaio che viene da Taranto; se si blocca lì…». Ma la crisi colpisce «anche la cantieristica, la grande distribuzione, perché stanno diminuendo i consumi». Le politiche del governo «non aiutano affatto»; «col passare del tempo ha evidenziato una chiara impostazione ideologica di stampo liberista», che «peggiora la situazione». Anche la «discussione sulla produttività (il tavolo ancora aperto a palazzo Chigi, ndr) è strana», perché «se le imprese straniere non investono in Italia dipende dalle infrastrutture, dalla burocrazia, da problemi di legalità che riguardano ormai anche la Lombardia, non solo certe aeree del Mezzogiorno».

Sulla formula della giornata, però, facce perplesse, ma nessun commento. Bisogna scendere nella scala gerarchica, tra i delegati di fabbrica, per avere il polso reale dell’umore. Un inossidabile delegato lombardo non la manda a dire: «non mi convince affatto, questo modo di stare in piazza, non è all’altezza della sfida che governo e imprese ci stanno imponendo». Negli altri paesi dove stanno applicando le identiche misure «si sono fatti scioperi generali e manifestazioni imponenti». Non si sono raggiunti risultati, ancora, ma il «fronte dei lavoratori» si è rafforzato; la disperazione individuale si è trasformata in azione collettiva. Che riesce perciò ad andare avanti.

C’è la proposta di «sciopero europeo» per il 14 novembre, avanzata dai sindacati greci e fatta propria dalla Ces (confederazione europea). Dal palco il segretario generale, Susanna Camusso, promette «quel giorno saremo in piazza». Ma di sciopero generale – Cisl e Uil non lo faranno mai, lo ripetono tutti i giorni – non riesce proprio a parlare.

Eppure «stanno smantellando tutto il sistema delle relazioni industriali del dopoguerra», ricorda una tuta blu di lunga durata. Un autentico cambiamento «epocale». «Dovremmo opporgli qualcosa di molto più serio di questa sagra paesana»; intanto «noi metalmeccanici facciamo sciopero generale di categoria il 16, poi vediamo».

I ragazzi di Pomigliano si rendono perfettamente conto che la strada è lunga e tutta in salita; ma per oggi non riescono a cancellare quel sorriso largo che gli si è stampato dal momento della sentenza della Corte d’appello che «ordina» alla Fiat di assumerli – in 145 – alla newco «Fip». «Sappiamo che Marchionne farà di tutto, in fabbrica e fuori»; già qualche «capo» batte sulla grancassa della paura («se quelli della Fiom rientrano ne cacciamo altrettanti di voi»). Vita quotidiana, per chi sta in fabbrica. Dura come l’acciaio dei telai. «Ma ti sembra sufficiente una manifestazione così?», proviamo a chiedere a uno dei tanti. «Beh, non possiamo certo dire ai lavoratori che per risolvere i problemi che abbiamo ce vedimme pe’ l’happy hour».