Rispondendo a Scalfari su articolo 18, crisi e precarietà

di Mattia Gambilonghi | da www.fgci.it

 

scalfari repubblica-w300L’articolo pubblicato martedì da Repubblica, con cui Scalfari replica al segretario generale della CGIL intervenuto il giorno prima sull’opportunità o meno di salvaguardare l’articolo 18, fa decisamente acqua da più parti. L’intera filippica di Scalfari si caratterizza infatti per la superficialità con cui getta qua e là affermazioni che non possiamo che definire luoghi comuni; luoghi comuni rubati per di più a quella scuola economica e di pensiero che proprio nel corso di questi anni ha visto smentiti (se non distrutti) dai fatti le pietre angolari della propria narrazione politica: la scuola monetarista friedmaniana e tutte le sue ramificazioni. A rendere ancora più fastidioso l’intervento in questione è il tono paternalistico con cui l’ex-direttore di Repubblica sembra apostrofare tutti coloro che osano discostarsi dall’ortodossia della ricetta mainstream offertaci dai vertici europei per uscire dalla crisi (imposta per di più senza il vaglio di alcuna consultazione elettorale, ma della “libertà”, sbandierata alla fine dell’articolo come punto essenziale del discorso di Repubblica con l’opinione pubblica, si può in questo caso fare a meno). Poco importa a Scalfari che la ricetta a cui sembra attribuire tutti i crismi della verità di fede faccia propri principi e misure che qualsiasi osservatore dotato di un minimo di onestà intellettuale riconoscerebbe essere alla fonte della crisi attuale (oltre a presentare più di un’assonanza con le misure che hanno portato la Grecia alle difficoltà in cui si dibatte attualmente).

Nel bollare inizialmente queste affermazioni e luoghi comuni come “di destra”, c’è chi mi ha fatto notare come queste formulazioni non possono essere considerate tout-court “di destra”, in quanto appartenenti ad una sinistra semplicemente differente dalla mia, dotata per di più di un cospicuo radicamento sociale. Verissimo, ma è anche vero che nell’interrogarci circa le cause della situazione attuale e dell’unanimismo che sembra attorniare le principali misure governative promosse nell’area europea, non si può non tenere in considerazione la subalternità culturale di questa “sinistra” al pensiero della destra della deregulation. Subalternità che, a mio parere, rende questa “Sinistra” tale solo entro un discorso riguardante il posizionamento nell’emiciclo parlamentare, visto che anni luce passano tra le concezioni espresse nell’articolo di Scalfari e le posizioni (e le politiche conseguenti) assunte nel corso del ‘900 dalla Sinistra socialdemocratica e laburista europea (di cui, nonostante ciò, l’area politica gravitante attorno a Repubblica si presenta come erede e prosecutrice ideale), la quale mise sì in cantina ogni ambizione di trasformazione del sistema economico sin dal secondo dopoguerra, per abbracciare, piuttosto, un progetto di compromesso tra capitale e lavoro di stampo keynesiano e dar così vita ad un capitalismo regolato e “dal volto umano”, ma è vero al contempo che quest’operazione fu condotta senza mai mettere in dubbio la rappresentanza degli interessi del mondo del lavoro subordinato che all’interno di questo compromesso andava realizzata. E non è un caso che le “rigidità” di cui Scalfari denuncia i tentativi di conservazione, siano proprio le norme conquistate ed attuate in tutta Europa o da governi socialdemocratici, o da movimenti di lotta che avevano anche questi ultimi, insieme alle forze comuniste, tra i promotori. Questo non per voler insistentemente tenere la testa rivolta all’indietro e ragionare con categorie novecentiste, ma perché credo che all’infuori di certi paletti e punti di riferimento, i termini “sinistra” e “destra” conservino ben poco significato.

Per quanto riguarda le falle che rendono inconsistente e disancorato dalla realtà il discorso di Scalfari, la prima ha a che fare con la convinzione secondo cui una maggiore flessibilità (che Scalfari, non si capisce bene sulla base di cosa, tiene a precisare essere cosa differente dalla precarietà: o libertà di licenziare senza giusta causa oppure no, tertium non datur) “sia un bene in un’economia aperta e globalizzata”, la quale lascia sottintendere il luogo comune (vero e proprio cavallo di battaglia della destra neoliberista nostrana, a cui anche a “sinistra” sono diversi a fare l’occhiolino, vedi i vari Ichino, Morando, Bianco e Veltroni…) in base al quale ad una maggiore facilità di licenziamento corrispondano una produttività oraria e livelli occupazionali più alti. Peccato che quest’affermazione venga totalmente smentita dalle ricerche empiriche: andando a confrontare congiuntamente i tassi di disoccupazione dei diversi paesi dell’area OCSE ed i livelli assegnati da questi stessi paesi dall’indice EPL (Employement legislation protection, un indice che calcola il livello di protezione del lavoro che ciascun paese riesce ad assicurare in base alla propria legislazione), noteremo tranquillamente come non esista pressoché alcuna correlazione tra bassi indici di protezione del lavoro (e dunque ampia libertà di licenziamento) ed alti livelli occupazionali1. Troveremo infatti sia paesi in cui gli alti livelli occupazionali si accompagnano ad un’alta libertà di licenziamento, sia paesi in cui la presenza di un robusto sistema normativo a difesa del lavoratore va tranquillamente a braccetto con livelli di disoccupazione piuttosto bassi. Se poi diamo invece un’occhiata ai dati relativi alla produttività oraria, anche qui l’affermazione di Scalfari si trova a cadere, visto che paesi come Germania e Francia, pur in presenza di un valore EPL più alto (2,12 la prima, 3,05 la seconda, a fronte di un 1,98 per l’Italia2), presentano comunque indici di produttività decisamente più alti (107,8 per la Francia, 108 per la Germania, 98,3 per l’Italia). E questo semplicemente perché ben altri sono gli elementi e le variabili in grado di influire sui tassi occupazionali e sullo stato di salute di un’economia (come ad esempio la dimensione delle imprese, la concentrazione e centralizzazione dei capitali, la quota di investimenti in nuove tecnologie, il grado di infrastrutturazione del territorio, ecc) e non l’alta facilità di licenziamento. L’unico suo effetto parrebbe essere solo quello di incidere negativamente sulla quota di prodotto sociale attribuita a salari e stipendi, vista la correlazione diretta (questa certa e dimostrata) esistente tra livelli di protezione del lavoro e quote di PIL attribuite ai redditi da lavoro dipendente (i dati del database AMECO della Commissione europea mostrano come dalla fine degli anni ’70 la quota salari sul PIL sia diminuita notevolmente, con una forbice tra il 7 e l’11% in base ai paesi, parallelamente al crollo degli indici di protezione del lavoro). Senza, per di più, che la più alta quota di prodotto sociale attribuita al capitale si trasformi in maggiori investimenti e quindi in livelli occupazionali dal volume più elevato, vista la tendenza delle imprese, in continua crescita dall’inizio degli anni ’80, a destinare quote sempre più larghe di capitale non tanto ad impieghi connessi all’economia reale, e dunque produttivi ed utili socialmente, ma ad attività finanziarie e speculative, molto più redditizie ed in un tempo decisamente più breve, ma decisamente inutili per la collettività: un aspetto, questo, tutt’altro che irrilevante ai fini di un rilancio, nell’ambito della Sinistra comunista e di alternativa, di un discorso riguardante lotte e progetti di riforme strutturali – quelle vere – volte ad instaurare forme di democrazia aziendale in grado di far incidere la volontà dei lavoratori sui piani di investimento. Ciò che al contrario è sicuro, all’interno di una logica di sempre maggiore flessibilizzazione della posizione lavorativa, sono due effetti: da un lato la disincentivazione delle innovazioni produttive (perché del resto, se tanto riesco a competere grazie ad un costo del fattore lavoro decisamente più basso, per quale motivo dovrei dedicare parte dei miei capitali ad investimenti in sviluppo e ricerca?), con ovvia e conseguente ricaduta negativa sulla crescita economica generale; dall’altro, una minore propensione al consumo (con tutto ciò che ne consegue in termini depressivi per il PIL, vista l’indubbia incidenza sul livello della produzione prima, e dell’occupazione poi), in quanto, non solo salari e stipendi di lavoratori precari saranno sempre più bassi rispetto alla media per via della minore forza contrattuale detenuta da quest’ultimi di fronte ai propri datori di lavoro, ma anche perché l’incertezza strutturalmente connessa ai contratti precari rispetto alle condizioni future di vita (un reddito che oggi ci può essere, ma che domani può benissimo non esserci più) non può che trasformarsi in una tendenza sempre maggiore al risparmio, con buona pace per la domanda interna.

Il secondo punto debole (se non debolissimo) del ragionamento di Scalfari è l’affermazione secondo cui causa della crisi sarebbe non tanto la precarietà diffusa (la quale, secondo lui, costituisce tutt’al più un effetto di quest’ultima), ma “l’esplosione del debito, la finanziarizzazione dell’economia”. Tralasciando l’estrema confusione che il grande vecchio di Repubblica fa nel virgolettato che ho messo in evidenza, mescolando crisi globale e crisi dei debiti sovrani dei PIIGS, innanzitutto Scalfari commette una svista (a mio parere banalissima e vergognosa, visto che stiamo parlando del padre nobile del secondo quotidiano del paese) di carattere cronologico, visto che l’esplosione della questione del debito, perlomeno nei termini in cui lo spread ce l’ha posto, non precede affatto la crisi globale, essendo lo scoppio di quest’ultima databile al settembre 2008.

In secondo luogo, ed è questo l’errore analitico più grave (non so se cosciente o meno), Scalfari, nell’ambito della sua ricostruzione della crisi, sembra tenere in considerazione esclusivamente l’aspetto finanziario, senza preoccuparsi minimamente dei collegamenti e dei nessi che esso può avere con l’economia reale. Una ricostruzione di comodo, la quale non mette in dubbio insomma la tenuta ed il funzionamento complessivo del sistema, ma che attribuisce tutta la colpa alla “finanza malata” e all’avidità di banchieri e broker. Una ricostruzione di comodo, appunto, in quanto grazie ad essa è possibile sviluppare una critica che non metta in discussione le linee di sviluppo capitalismo del capitalismo delineatosi a partire dalla fine degli anni ’70, ma solo una singola “sezione”, quella appunto malata del “capitalismo finanziario”. Peccato però che questo modo di ragionare, in base al quale viene contrapposta un’economia reale “sana” ad un’economia finanziaria “malata”, non permette in alcun modo di dare risposta ad una questione fondamentale, ovvero il perché di questo abnorme sviluppo delle attività finanziarie nel corso dell’ultimo trentennio. In poche parole: viene sì detto, in base a questa ricostruzione, che l’atto scatenante della crisi sta nel crollo di quel gigantesco castello di carte costituito dal credito facile e dei mutui sub-prime, ma non si spiega perché i cittadini americani abbiano sentito il bisogno o siano stati costretti ad indebitarsi in un tal modo. Dare la risposta a questa questione significa tirare in ballo necessariamente l’economia reale e il suo funzionamento. Insomma, tirare in ballo per intero il capitalismo e le tendenze di sviluppo che quest’ultimo ha conosciuto negli ultimi trent’anni. Solo così si potrà arrivare a comprendere come il “credito facile” ed il conseguente indebitamento privato delle famiglie americane, altro non abbiano rappresentato che lo stratagemma attraverso cui permettere una valorizzazione continua del capitale investito, a fronte di una capacità d’acquisto di ceti medi e lavoratori dipendenti praticamente in caduta libera. Gli Stati Uniti, così come i paesi europei, hanno infatti conosciuto nel corso degli ultimi trent’anni un violento processo di redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto (si calcola che i redditi delle famiglie americane più povere siano cresciuti tra il 1979 e il 2005 dell’1,3 annuo%, quelli del ceto medio di meno dell’1%, a fronte di un aumento del 200% annuo dei redditi dell’1% della popolazione americana3), un riallargamento della forbice sociale prodotto dalle politiche deflazionistiche di abbattimento del costo del lavoro (salario diretto) e di demolizione del Welfare (salario indiretto) messe in atto dalla presidenza Reagan in poi. E’ ovvio che un simile processo, pena un crollo verticale dei consumi e della domanda aggregata con conseguente crisi da sovrapproduzione, non poteva che essere tamponato se non attraverso uno sviluppo del credito al consumo e degli strumenti finanziari ad esso connessi. Vi è poi un secondo aspetto del problema, ovvero la tendenza più generale del sovrasviluppo delle attività e delle operazioni finanziarie. Quest’ultima può essere considerata come la risposta data da imprese ed operatori economici alla caduta del saggio di profitto che l’economia capitalistica conosce dalla fine degli anni ’60 e che è alla base della crisi da stagflazione degli anni ’70. Di fronte cioè a profitti tendenzialmente decrescenti, e dunque ad una situazione in cui il capitale investito stenta a valorizzarsi, l’investimento di quote sempre maggiori di capitale in attività finanziarie (sia azionarie che obbligazionarie), sembrò divenire l’unico modo sicuro per realizzare profitti a breve termine.

 

Diventa chiaro come il processo di finanziarizzazione conosciuto dall’economia mondiale nell’ultimo quarto di secolo non può che essere considerato come il frutto di un sistema economico che, accentuando le disuguaglianze al proprio interno (per il tramite di un abbattimento dei salari e del costo del lavoro, la precarizzazione delle tipologie contrattuali e la riduzione che progressivamente si attua per ciò che concerne tutele e servizi erogati dai sistemi di Welfare State), tenta di combattere il ribasso della domanda aggregata (conseguenza inevitabile di qualsiasi riduzione dei livelli medi di salari e stipendi) e di spostare sempre più in là nel tempo il punto di rottura connesso ad una caduta della capacità d’acquisto.

La precarietà, quindi, contrariamente a quanto sostenuto da Scalfari, è chiaramente alla base della crisi odierna, essendo infatti la finanziarizzazione non tanto la causa della crisi, ma, per utilizzare le parole di Vladimiro Giacchè, la droga che ha permesso che la crisi si manifestasse il più tardi possibile. La “sussunzione formale del lavoro alla finanza” (Bellofiore) ha permesso in sostanza di autonomizzare il consumo di ogni singolo individuo dal reddito realmente percepito, sostenendo artificialmente virtualmente un livello di consumi altrimenti irrealizzabile.

Riguardo, infine, all’accusa di particularismo (a cui farebbe da contraltare invece la capacità di saper scorgere e di mirare all’interesse generale propria dell’esecutivo Monti – e lo si è visto, aggiungerei, con l’ultima manovra, che tira fuori fondi e risorse per l’80% da lavoratori dipendenti e pensionati, ma che misteriosamente lascia cadere tutte le promesse circa patrimoniale e tobin tax) che Scalfari lancia alla CGIL della Camusso (una CGIL in pericolosa via di FIOMmizazzione, per giunta!), le perplessità che mi sorgono in testa sono due. La prima ha che a fare con l’azzardato paragone tra l’approccio adottato da Lama alla fine degli anni ’70 e la linea portata avanti dalla CGIL in queste settimane. Paragone doppiamente azzardato: sia perché, come ha già ricordato Michele Prospero sull’Unità di qualche giorno fa, l’organizzazione guidata da Lama alla fine degli anni ’70 proveniva da un decennio di straordinarie conquiste, tanto sul piano salariale che su quelli normativo e contrattuale (chiedendo per di più cospicue contropartite in termini di salario indiretto, cioè di Welfare, e di partecipazione alla programmazione dell’economia nazionale), sia perché, e non me ne voglia qui nessuno, il dubbio che alla base di quel trentennio di sconfitte e di arretramento per il movimento sindacale e dei lavoratori seguito al periodo ricordato da Scalfari, ci sia la svolta ultracompatibilista (che ha come corollario la nota affermazione secondo cui il salario non può essere considerato una variabile indipendente, a fronte di un profitto, aggiungerei io, che nella fase storica che ancora stiamo vivendo è divenuto più che indipendente) impressa al movimento dei lavoratori europeo, tanto nella sua variante sindacale che in quella politica, anche da personaggi come Lama.

La seconda perplessità ha invece a che fare con l’arbitrarietà con cui Scalfari definisce “particulari”, e non generali, gli interessi del mondo del lavoro dipendente, di cui la CGIL aspira a farsi difensore. L’inconsistenza di tale tesi si mostra da sola: non solo per la consistenza numerica del soggetto in questione, ma anche per l’insieme variegato ed articolato che si nasconde sotto l’etichetta di “lavoro dipendente”, un insieme che spazia e copre la quasi totalità delle categorie produttive del paese, e che proprio in ragion di ciò non può essere trattato alla stregua di una lobby dai tratti corporativi, come può essere quella dei farmacisti o dei notai. Lasciando perdere la facile affermazione secondo cui “i lavoratori hanno già pagato” (con una riduzione, ricordiamolo una seconda volta, di circa 8 punti percentuali della quota salari sull’insieme del PIL), mi sentirei di ricordare a Scalfari che ciò che rende “classe generale” il mondo del lavoro dipendente, è il fatto che, storicamente, qualsiasi avanzamento del movimento sindacale e delle condizioni materiali di vita dei lavoratori subordinati – un avanzamento che metteva in dubbio e contrastava le prerogative del “capitale” al fine di rendere sempre meno “di mercato” la società in cui tutti viviamo – ha portato con sé conquiste, in termini di cittadinanza e di diritti sociali, di carattere universalistico, conquiste che cioè travalicavano i semplici confini di classe per rendere partecipi e fruitori di esse anche quella pluralità di ceti intermedi che subordinati non erano affatto. E questo perché le lotte sindacali, ovvero quel conflitto sociale volto a mettere in dubbio e contrastare le prerogative e gli interessi del “capitale” all’interno della realtà di fabbrica, hanno finito per mettere in dubbio le sue prerogative anche nel resto della società, rendendo quest’ultima sempre meno “di mercato”. E’ stata proprio la sottrazione di cospicui settori ed aspetti dell’organizzazione sociale alle logiche di mercato e del profitto (istruzione, sanità, pensioni, assicurazioni contro gli infortuni), il mutare della loro natura da merce a diritto sociale istituzionalmente garantito, a promuovere e a permettere quella mobilità sociale e generazionale in grado di dare realmente un senso al termine “meritocrazia”, rendendo insomma le nostre società (in termini di disuguaglianze socio-economiche) sempre meno piramidali e sempre più “romboidali”. Un processo, questo, non a caso andato incontro ad un brusco arretramento una volta messe in discussione le principali strutture del “compromesso keynesiano” del trentennio 1945-1973 (una messa in discussione, va detto, a cui non è estraneo il venir meno di quel contraltare rappresentato dal blocco socialista). Ai nostri giorni, inoltre, a rendere il mondo del lavoro dipendente “classe generale, che liberando sé stessa libera l’intera società”, è la banale osservazione che solo attraverso un rilancio della domanda aggregata (che non passa di certo attraverso il “contratto flessibile unico”, come vorrebbe la ministra Fornero, ma attraverso energiche politiche redistributive che abbiano come terminale proprio questo mondo del lavoro dipendente) che potremmo evitare il collasso della struttura europea e del sistema della moneta unica a cui sembra inevitabilmente condurci la spirale recessiva prodotta dalle misure di austerity del duo Merkozy.