Ripartire dal lavoro

di Stefano Barbieri* per Marx21.it

operaio muletto*direzione nazionale PdCI

Di quelli che sono gli effetti reali di questa Riforma del Lavoro, unita a quella precedente e pesantissima delle pensioni, abbiamo già parlato in altri articoli.

Certo è che, con la sua approvazione, si è compiuta la parabola discendente che ha abbracciato più di trent’anni all’insegna della garanzia della dignità del lavoro.

Nel merito di questa riforma rimando alla lettura di un pregevolissimo articolo precedentemente anche qui pubblicato di Piergiovanni Alleva (LINK), che centra perfettamente il cuore del problema.

Su questa partita, molti sono i soggetti che non hanno fatto la loro parte e non hanno esercitato il ruolo che imponeva la loro storia e la loro cultura, unita alla speranza dei milioni di ceti deboli che chiedevano e si aspettavano una risposta per fermare questo scempio, vista la situazione.

Non lo hanno fatto i grandi sindacati, CGIL in testa, che avrebbero potuto e dovuto, come in altre occasioni, bloccare questa micidiale controriforma con una estesa e convinta mobilitazione e con un forte sciopero generale.

Non lo ha fatto il PD, il maggior partito progressista, che avrebbe potuto, anche dopo i risultati delle elezioni amministrative, fermare in Parlamento questo sbilanciato provvedimento. Invece ha preferito diventare la nuova spalla su cui poggia il fucile della diseguaglianza e del ricatto occupazionale.

La verità, il pensiero reale di questo governo sull’argomento lavoro e sul modello di società che ha in mente, è racchiuso in quella raccapricciante dichiarazione del Ministro Fornero pronunciata a ridosso dell’approvazione della sua stessa legge: «Il lavoro non è un diritto, va guadagnato, anche con il sacrificio!».

Una staffilata sulla carne viva degli italiani che sempre più stanno perdendo dignità e diritti che solo il lavoro garantisce nel duplice valore di emancipazione dal bisogno e di realizzazione umana. 

Quel lavoro che come la Costituzione esige è un diritto fondamentale proprio per uscire dalla dimensione di sudditanza e servaggio. Perché non ci siano servi e padroni, sfruttati e sfruttatori.

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, è l’incipit della nostra Costituzione ed è la straordinaria proclamazione di democrazia, dove il lavoro “per diritto e non per piacere” spezza clan familisti e cricche di potere, proprio nella misura in cui garantisce ad ognuno promozione individuale e sociale: indipendente economicamente e libero di estrinsecarsi e svilupparsi nella creatività del suo lavoro. 

Ecco perché il lavoro è un diritto fondativo del nostro patto costituzionale, e impegna lo Stato democratico a creare le condizioni che lo rendano effettivo nell’attenzione alle possibilità e scelte individuali. Sembra strano, ma di questa considerazione per la scelta del tipo di lavoro più congeniale a ciascuno parla l’art. 4 della nostra Costituzione, sottolineando così come il lavoro rappresenti un investimento innanzitutto umano.

Come Engels sosteneva, «Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza. Lo è, accanto alla natura, che offre al lavoro la materia greggia che esso trasforma in ricchezza. Ma il lavoro è ancora infinitamente più di ciò. È la prima, fondamentale condizione di tutta la vita umana; e lo è invero a tal punto, che noi possiamo dire in un certo senso: il lavoro ha creato lo stesso uomo». 

Ma il lavoro non è solo umanizzante, è produttore di democrazia; se è nel lavoro che l’individuo riconosce, accresce e sollecita la sua prerogativa tutta umana di “ingegnosità” e “progettualità” nella commisurazione tra idee e risultati raggiunti, tuttavia, questo suo “saper fare” resterebbe privo di senso al di fuori dell’intersoggettività che la condizione di lavoro stabilisce e avvalora proprio in quel riconoscimento sociale dei risultati che gratifica e migliora persone e società.

Così, è nella socialità del lavoro che trova forza propulsiva la stessa appartenenza democratica, dove il lavoro non è un sacrificio, ma il diritto che dà “senso” alla estrinsecazione della propria “azione intelligente” che nell’attività finalizzata del lavoro è “costruzione di significati” socialmente riconosciuti.

Il diritto al lavoro si struttura e costruisce necessariamente sul posto di lavoro. È qui che trova il primo riconoscimento sociale. 

E stupisce che un ministro del lavoro, di fronte alle accuse legittime alla sua riforma, risponda che questa ha l’obiettivo della «tutela del lavoratore nel mercato e non quella del singolo posto di lavoro». 

Ma così l’individuo è solo merce nel mercato del lavoro. La merce che produce guadagno, ovvero accumulo di capitale per la casta di privilegiati, come già ci ricordava Marx.

Ecco, questa riforma del lavoro trasforma definitivamente l’uomo e l’intera società in merce per il mercato, assoggettata alla sue regole, a quei rapporti di forza e senza nessuna dignità.

Se il mercato produce questa mancanza di dignità, sacrificare il lavoro vuole dire quindi sacrificare la Democrazia, in nome del mercato. Questo è quello che è avvenuto.

Il 20 maggio 1970 veniva approvato lo statuto dei lavoratori. Allora si disse, usando una frase di Di Vittorio, che la Costituzione varcava finalmente i cancelli dei luoghi di lavoro. Oggi ne esce, esce dalle fabbriche e dai luoghi di produzione, esce dall’idea stessa di una società che vogliamo civile e democratica.

Questo governo deve essere ricordato come tra i peggiori della storia repubblicana, sicuramente peggio di quello berlusconiano che lo ha preceduto.

Certo, bello a vedersi con le lauree in bella mostra, ben accreditato tra coloro che contano in Europa e nel Mondo, ma ideologicamente reazionario e imperialista, oltre che schifosamente falso ed ipocrita per le menzogne che ha sin qui propugnato.

Ha mentito il governo quando ha spiegato che avrebbe agito con equità (al massacro di lavoratori e pensionati, alla mancanza di prospettive di futuro per i giovani consegnati alla precarietà costante non è corrisposta nessuna cancellazione dei grandi privilegi di questo Paese), che non rappresentava i cosiddetti poteri forti (smentito dallo stesso Monti che si è lamentato di aver perso, in parte, il loro appoggio), ha mentito sul numero dei famosi esodati (al massimo 50 mila a fronte di cifre reali di oltre 350 mila), ha mentito sulla spending review a cui sta lavorando, che ha ben poco a che vedere con un’operazione finalizzata solo a ridurre gli sprechi, mettendo invece in campo un potente meccanismo di (ulteriore) destrutturazione del welfare legittimando l’assunto (assai discutibile) che tutto ciò che è pubblico è fonte di inefficienza.

Ha mentito sempre e in più ha investito ulteriormente in potenti armamenti (ricordate gli acquisti degli aerei da guerra F35 ?) e poi vai a scoprire che i 200 milioni tagliati agli atenei pubblici sono stati dirottati pari pari a quelli retti dalla Santa Chiesa Cattolica Romana .

E’ tempo che la politica ritrovi un briciolo di dignità e riprenda il ruolo che il sistema capitalista e l’imperialismo mondiale, attraverso il ruolo dell’Europa, della BCE, del FMI e della Nato, con la sapiente dirigenza d’orchestra del Presidente della Repubblica Napolitano, le hanno tolto

Può la CGIL avere un sussulto di dignità e costruire una piattaforma sociale ed economica che inchiodi il Governo alle sue responsabilità e contemporaneamente identifichi un modello di sviluppo per questo Paese che rimetta il lavoro al centro del sistema, avviando una grande mobilitazione di massa e indicendo uno sciopero generale che, che con la riappropriazione della propria autonomia di analisi e di azione, la aiuterebbe ad uscire dall’angolo in cui si è cacciata per compiacere (diciamo le cose come stanno) quel PD ormai lontano anche dalle peggiori socialdemocrazie europee, al confronto del quale ciò che fa e dice un socialista riformista e liberal democratico come Hollande in Francia sembra una rivoluzione tra le più avanzate?

Si, può e deve farlo se vuole mantenere ancora un ruolo nel Paese e non essere cancellata dalla rappresentanza sociale e dal suo stesso popolo.

Possono il PD e la sua gente continuare ad accettare questa macelleria sociale distribuita a piene mani in nome del rigore dei conti e delle regole della finanziarizzazione del mercato, senza interrogarsi su quale sarà il suo destino a rimorchio di questo Governo?

Auguriamoci di no, che questo non accada. Ma non è scontato che non finisca così.

Tocca anche a noi, ai comunisti fare la propria parte perché tutto ciò avvenga o non avvenga.

Ripartire dalla piattaforma programmatica che la FIOM ha avanzato in quell’assemblea generale convocata con tutte le forze politiche della sinistra, è doveroso, giusto e necessario.

Costruire, attorno ad essa, il più ampio confronto e la più alta unità con tutte le forze politiche e sociali democratiche e di sinistra,per renderla il nuovo terreno di accordo per una grande campagna di mobilitazione che apra un conflitto penetrante anche nelle contraddizioni del Pd e della CGIL, che li possa ricondurre alla ragione e all’ascolto delle nostre ragioni.

Avviare una stagione politica che coniughi coerenza e fermezza, unità e duttilità tattica affinché questo Paese ritorni a “vedere e sentire” la presenza dei Comunisti nella quotidianità della politica, per battere le destre e riaprire i giochi sulle prospettive dell’Italia, in Europa e nel Mondo.

Non possiamo e non dobbiamo mollare. Non da soli, non per noi soltanto o per il nostro destino politico, ma per il presente ed il futuro dei lavoratori e delle lavoratrici e degli uomini e donne giusti, onesti e di buona volontà.