di Stefano Barbieri (direzione nazionale PdCI – Federazione della sinistra)
Nel pieno di quella che si avvia a diventare la più grave crisi economica del capitalismo europeo e mondiale, per la quale nel nostro Paese viene chiamato a governare il meglio della nomenclatura borghese e capitalista guidata dal Prof. Monti, c’è chi mette al primo posto delle cose da fare una nuova riforma pensionistica in Italia. A detta di molti, anche a sinistra, sembrerebbe che se non si facesse questo intervento, l’Italia non reggerebbe al giudizio dei mercati, il suo bilancio pubblico andrebbe in default e, per effetto domino, crollerebbe l’euro, l’Unione europea e l’economia mondiale.
Un disastro insomma. In effetti la situazione dei conti pubblici italiani è drammatica, ma, per risanarla, rimane inspiegabile l’attenzione spasmodica verso il nostro sistema pensionistico che non più tardi di qualche mese fa veniva presentato come il nostro fiore all’occhiello rispetto ai ritardi e alle difficoltà di riforma incontrati da altri paesi, a cominciare dalla Francia.
Occorre fare un po’ di chiarezza.
La situazione del nostro sistema previdenziale, per ammissione comune, è strutturalmente in equilibrio attuariale. Tuttavia, alcuni sostengono che la fase di transizione al suo funzionamento a regime sarebbe molto lunga, il che – si lascia intendere – determinerebbe un vulnus finanziario nel sistema e, conseguentemente, per il complessivo bilancio pubblico. I dati mostrano che non solo non è così, ma accade il contrario: il saldo tra le entrate contributive e le prestazioni pensionistiche previdenziali al netto delle ritenute fiscali (cioè quanto esce dalle casse pubbliche e entra nelle tasche dei pensionati) è attivo per un ammontare di 27,6 miliardi, pari all’1,8% del Pil (ultimi dati disponibili riferiti al 2009). Questo avanzo si verifica in misura crescente dal 1998, a riprova che le riforme degli anni Novanta (pagate comunque a caro prezzo dai lavoratori) erano state efficaci rispetto all’obiettivo di riportare il sistema pubblico in condizioni di sostenibilità finanziaria.
Ma si è andati anche oltre: sono state eliminate iniquità di trattamento e prestazioni giustificate da logiche clientelari e di consenso elettorale, ma le previsioni segnalano anche una forte generalizzata riduzione del grado di copertura pensionistica e la corrispondente maturazione di un grosso problema sociale: prima delle riforme del mercato del lavoro e pensionistiche avviate negli anni Novanta, un lavoratore dipendente poteva normalmente accumulare 40 anni di contributi e ritirarsi anche prima dei 60 anni con una pensione pari a circa l’80% dell’ultima retribuzione; nel 2035, un lavoratore parasubordinato che con difficoltà sarà riuscito ad accumulare 35 annualità contributive, ritirandosi a 65 anni, maturerà un tasso di sostituzione pari a circa la metà.
Se si omogeneizzano i dati della nostra spesa pensionistica – relativamente gonfiata nelle statistiche Eurostat dall’indebita inclusione dei trattamenti di fine rapporto (che sono salario differito, semmai ammortizzatori sociali, non pensioni) e dalla valutazione al lordo delle ritenute fiscali (da noi mediamente più elevate) – la sua incidenza sul Pil è inferiore o in linea rispetto a quelle di Francia e Germania.
Altro punto di critica scarsamente fondato al nostro sistema pensionistico è la bassa età di pensionamento. Allo stato attuale, l’età di vecchiaia degli uomini e delle donne del settore pubblico (a partire dal prossimo gennaio) è ufficialmente di 65 anni, ma con il ritardo di 12 mesi della «finestra» (18 per gli autonomi) è di fatto 66 – cioè superiore a quello tedesco (65) e francese (62) – e dal 2013 aumenterà automaticamente in connessione all’aumento della vita media attesa, raggiungendo i 67 anni nel 2021 e i 70 nel 2047; per le donne del settore privato è già previsto un rapido aumento dai 61 anni effettivi attuali ai 65 nel 2021 e poi si uniformeranno ai maschi.
Non contenti di ciò, i fautori della riforma pensionistica aggiungono che la nostra anomalia sarebbero le pensioni d’anzianità. Ebbene, l’età effettiva di pensionamento degli uomini in Italia è di 61,1 anni, cioè poco meno che in Germania (61,8) e più che in Francia (59,1); per le donne il nostro dato (58,7) è inferiore sia a quello tedesco (60,5) che a quello francese (59,7), ma ciò rispecchia la congenita minore partecipazione al mercato del lavoro delle donne italiane e il loro ruolo di supplenza alle carenze assistenziali del nostro sistema di welfare. Comunque, la parificazione della loro età di pensionamento a quella maschile da poco decisa eliminerà rapidamente il divario e probabilmente lo invertirà.
Va aggiunto inoltre che, nel merito delle pensioni di anzianità, è letteralmente vergognoso che si vada ad intervenire su tutti quelli che hanno alle spalle 41 anni di lavoro, su quelli che sono entrati in fabbrica a 14 anni e su quelli che svolgono attività usuranti, faticose e di delicata responsabilità. Cancellare queste anzianità sarebbe una grave ingiustizia.
A fini comparativi si deve anche tener presente che dal 1992 le nostre prestazioni pensionistiche non sono più agganciate agli incrementi salariali e sono indicizzate ai prezzi solo in misura parziale. Ce ne siamo accorti poco perché nel frattempo i salari italiani non sono cresciuti e l’inflazione è bassa, ma in Germania – dove secondo alcuni autorevoli commentatori nostrani i pensionati invidierebbero quelli italiani – le prestazioni pensionistiche non hanno mai smesso di essere indicizzate sia agli incrementi reali dei salari che all’inflazione.
La crisi globale non è puramente finanziaria, ma ha radici strutturali connesse alla crescente difficoltà alimentata dal modello neoliberista di equilibrare una capacità produttiva in forte espansione con una pari dinamica della domanda alimentata da redditi da lavoro adeguati e stabili e da una spesa pubblica capace di favorire contemporaneamente le condizioni produttive e quelle sociali. Nel bel mezzo di un’imponente crisi recessiva – che sconta gli effetti cumulati del forte peggioramento distributivo e dell’accentuata instabilità determinata dall’autonomizzazione dei mercati, dalla finanziarizzazione dell’economia e dal contenimento delle politiche sociali – pensare di rilanciare la crescita mettendo al centro degli interventi una nuova riforma pensionistica è paradossale e per molti aspetti drammatico e considerando che l’età di pensionamento è già stata «indicizzata» attuarialmente agli aumenti della vita media attesa, imporre un ulteriore slittamento al ritiro dal lavoro (come molti auspicano), proprio in questa fase caratterizzata da una disoccupazione giovanile di oltre il 30%, protrarrebbe ulteriormente l’entrata dei giovani nel mondo del lavoro, determinando un ulteriore invecchiamento degli occupati e del loro costo medio per le imprese; inoltre ridurrebbe la domanda complessiva delle famiglie e accentuerebbe i motivi della nostra demografia asfittica, ostacolando ulteriormente i processi di innovazione produttiva e di rinnovamento sociale indispensabili a frenare e invertire il declino specifico lungo il quale ci siamo avviati nell’ultimo ventennio.
Ma allora perché, anche in ambiti progressisti incontra favore l’idea di nuovi interventi sulle pensioni? Il punto è che i maggiori ostacoli a superare questa crisi epocale risiedono non solo nelle difficoltà frapposte dagli interessi economici, politici e culturali collegati al modello produttivo affermatosi nel passato trentennio e adesso entrato in crisi; le ragioni vanno individuate anche nei limiti delle forze progressiste e di sinistra nel saper rinnovare il modello economico-sociale, la mentalità prevalente nell’opinione pubblica e gli equilibri politici.
Si fa finta di non capire che la riforma delle pensioni è in realtà voluta solo per fare cassa e per far pagare i costi del disastro economico come sempre ai lavoratori, alle lavoratrici e alle fasce più deboli della società.
Gli oneri della crisi devono essere accollati a coloro che l’hanno provocata con i comportamenti e con il sostegno a modelli socio-produttivi che hanno determinato la loro ricchezza personale e di ceto a discapito delle condizioni economiche, sociali e civili della grande maggioranza della collettività. Non è un caso che ciò sia avvenuto indebolendo le istituzioni pubbliche regolate da relazioni più democratiche e favorendo il potere dei «mercati», le cui scelte sono prese da pochissime persone e sospinte dalla logica dell’individualismo.
Per mettere mano ai privilegi presenti all’interno del nostro sistema previdenziale, messi in evidenza anche da Monti, che si vada ad eliminare quelli che riguardano i ceti politici, i manager, i dirigenti e tutti quelli che hanno un’elevata retribuzione da lavoro e da pensione destinando le risorse recuperate per esempio ad un Fondo nazionale per l’occupazione giovanile.
Occorre, inoltre, intervenire sulle vergognose anomalie che riguardano i Fondi, con quello dei lavoratori dipendenti in attivo e quello dei manager e dei dirigenti clamorosamente in passivo.
E che dire poi della necessità, in discussione da almeno 25 anni, di separare l’assistenza dalla previdenza…..
Ecco l’unica riforma pensionistica che si può concedere.
Non è più rinviabile, inoltre, un intervento che tuteli concretamente il potere di acquisto delle pensioni medio-basse, che è sceso di oltre il 30% negli ultimi quindici anni.
L’esigenza di recuperare risorse deve essere colmata con altri interventi, che non tocchino chi è più debole e più povero ma che colpiscano finalmente chi è ricco e chi non ha ancora mai pagato.
E’ per questo che sosteniamo l’esigenza dell’introduzione di una patrimoniale e di una lotta senza quartiere all’evasione fiscale e ad ogni forma di illegalità.
E’ questo ciò di cui abbiamo bisogno per lasciarci indietro una stagione penosa in cui il privilegio e il beneficio di pochi ha sempre prevalso sull’interesse e sulle stringenti necessità della collettività.
Per questi motivi, i comunisti non possono che dire No alla riforma delle pensioni.