di Stefano Barbieri, direzione nazionale PdCI
Siamo arrivati al dunque. Lo avevamo previsto ed è puntualmente accaduto.
Prima il Governo Monti ha attuato una controriforma delle pensioni pesantissima, promettendo agli italiani che avrebbe agito con equità, che avrebbe eliminato i privilegi, che non avrebbe fatto cassa con le pensioni, che avrebbe cercato soluzioni in favore delle donne e dei giovani. Niente di tutto questo è accaduto. La riforma previdenziale Monti-Fornero è disastrosamente iniqua, manca di qualsiasi gradualità, è stata fatta solo per fare cassa e colpisce pesantemente i diritti delle donne, dei giovani, dei lavoratori e dei pensionati. Solo così si può definire una riforma che ha aumentato di colpo l’età pensionabile delle lavoratrici di 5, 6, ed anche 7 anni, ha peggiorato notevolmente i requisiti per il diritto alla pensione per coloro che stanno nel sistema contributivo costringendo di fatto i giovani, i lavoratori precari e le donne a lavorare fino a 70 anni e più, ha abolito il sistema delle quote per la pensione di anzianità, ha aumentato il requisito dei 40 anni di contribuzione per il diritto alla pensione, indipendentemente dall’età anagrafica, non ha previsto alcuna tutela per coloro che sono stati licenziati e che sono attualmente disoccupati, ha di fatto vanificato la normativa sui lavori usuranti.
Che dire poi della ricaduta di questo sulla famosa vicenda dei cosiddetti “esodati”. Sono circa 350 mila i lavoratori che sono rimasti o rischiano di rimanere senza stipendio e senza pensione in un limbo che rischia di durare anni se non verranno modificate le norme in discussione in Parlamento e il problema degli “esodati” potrebbe diventare ancora più grave perché, visto che le risorse stanziate sono troppo poche, la platea di quelli che “stanno fuori” potrebbe allargarsi.
Un esercito quindi di persone che si troveranno senza lavoro, senza stipendio e senza pensione.
Ma questo scempio non bastava a soddisfare le esigenze dell’Europa, della BCE e del Fondo Monetario. Ed ecco servita allora la nuova riforma del mercato del lavoro, contenente la cancellazione di fatto di quella norma di civiltà racchiusa all’interno dell’ormai famoso Art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Se non ci fosse la carta intestata, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, la “riforma” del lavoro dell’attuale Governo potrebbe essere attribuita tranquillamente a Confindustria e alle organizzazioni padronali. Tanto essa sembrerebbe funzionale al compimento del rito sacrificale al dio mercato del contratto a tempo indeterminato. Già minato da 20 anni nel riduzionismo mercatista dei lavoratori assimilati a polli da batteria, avrà il colpo di grazia con l’affossamento dell’art. 18.
Cassato infatti il baluardo del giustificato motivo per licenziare, e senza il deterrente del reintegro stabilito dal giudice quando questo mancasse, nel tritacarne del riassetto organizzativo aziendale potranno finire tutti i lavoratori stabili, ovvero quelli con contratto a tempo indeterminato, che finalmente entreranno nella grande famiglia della strutturale precarietà.
Del resto tutta la “riforma” dei professori Fornero e Monti è l’elogio della flessibilità. Al massimo pensa a «rendere premiante l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili». Dove quel “più” fa la differenza tra ciò che è stabile e basta, e ciò che rende meno precaria la condizione di instabilità. Avanti tutta, quindi, con i contratti a termine con supporto premio di una governativa “paccata” di sgravi-spese. Insomma, lode alle aziende che rendono stabile la precarietà nella sua continuità! Eppure il contratto a tempo indeterminato è l’unico che garantisce la serenità di un progetto di vita, perché la stabilità del lavoro – costituzionalmente garantita – rende liberi dal bisogno e dal ricatto della precarietà.
Ma questa concezione del lavoro bene comune, deve recedere di fronte agli interessi padronali, che vogliono mano libera sui licenziamenti.
Il senso del furioso inflessibile attacco all’articolo 18 in nome della sistemica flessibilità dei lavoratori è allora una resa di conti per eliminare la garanzi a della stabilità del lavoro, anche nel passaggio a mansioni e lavori diversi, entro le tutele del contratto a tempo indeterminato.
E’ il colpo definitivo alle ultime conquiste dei lavoratori: i diritti e il salario.
Il principio lavorista, sancito dall’art. 1 della Costituzione (l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro) costituisce il principale fondamento che regge l’edificio delle Costituzione.
Il lavoro è posto a fondamento della Repubblica. Non si tratta di una espressione lieve o banale. Basti pensare quanto essa appare polemica, oggi, rispetto ad un modello economico-sociale in cui tutti gli indici di riferimento sono fondati sul mercato e sulla proprietà privata. Né si tratta di una scelta di classe a favore dei lavoratori dipendenti, quale avrebbe potuto essere adombrata nell’espressione “Repubblica democratica di lavoratori” proposta dai partiti di sinistra nell’Assemblea costituente. In realtà la dignità del lavoro è strettamente collegata ai diritti della persona. Di qui l’affermazione del diritto-dovere al lavoro, riconosciuto a tutti i cittadini, e del dovere della Repubblica di renderne effettivo l’esercizio (art. 4). Di qui il principio, contenuto nell’art. 35, secondo cui “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme.”
Un “bene comune” quindi che richiede che le persone siano occupate in modo qualitativamente accettabile e coerente con il pieno rispetto dei diritti costituzionali. Il lavoro così concepito comporta la tutela di esso sia nei confronti del capitale privato (proprietà), sia nei confronti del sistema politico (governo) che del capitale privato sempre più frequentemente è succube.
Non v’è dubbio che da lungo tempo il lavoro è sottoposto ad un attacco durissimo da una politica assoggettata ai diktat del potere privato che vuole smantellare i presidi che la legge ha posto a tutela della dignità del lavoro. L’ aggressione al bene della dignità del lavoro è avvenuta attraverso la precarizzazione crescente dei rapporti di lavoro e la demolizione delle garanzie e delle tutele giurisdizionali, fino ad arrivare all’art.8 del decreto legge della manovra dell’agosto 2011 con il quale la tutela della dignità del lavoro e dei lavoratori è stata sottratta all’impero della legge e consegnata alla dinamica dei rapporti di forza, consentendo a soggetti privati la facoltà di dettare regole, in deroga a quelle leggi dello Stato, attraverso le quali si è incarnato il principio lavorista.
Adesso con la riforma Monti-Fornero l’aggressione al bene della dignità del lavoro fa un ulteriore passo avanti e raggiunge quegli obiettivi che il Governo Berlusconi aveva perseguito invano, trovando uno sbarramento insuperabile nello sciopero generale indetto dalla CGIL il 23 marzo 2002. La sostanziale abrogazione dell’art. 18, annunziata nel piano del governo sul lavoro, al di là delle chiacchiere sulla tutela dei lavoratori da comportamenti discriminatori, si risolve nello smantellamento, puro e semplice della tutela pubblica contro il licenziamento illegittimo, in violazione della costituzione e della stessa Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, che esige (art. 30) la tutela dei lavoratori contro ogni licenziamento ingiustificato.
Dal momento che è ormai scontato che il licenziamento potrà essere motivato da ragioni “economiche o organizzative”, nessun imprenditore sarà così sprovveduto da attuare licenziamenti discriminatori o persino disciplinari: un problema organizzativo – con la necessità di ristrutturazione che hanno tutte le aziende in questa fase – si trova molto facilmente. E allora, con i licenziamenti praticamente liberi, succederà una di queste due cose, o meglio tutt’e due. In parte verrà posta la scelta tra riduzioni di salario o un certo numero di licenziamenti; in parte ci si libererà di una parte di lavoratori più anziani per sostituirli, a minor costo, con giovani che nel migliore dei casi entreranno con il contratto di apprendistato, tre anni – estendibili a cinque – a salario ridotto e con la possibilità di esser mandati via. Ci saranno un po’ di ammortizzatori sociali, ma con una durata inferiore agli attuali e con meno gente che avrà la possibilità di passare – alla loro scadenza – alla pensione, visto che l’età è stata aumentata.
Quindi, diciamolo con chiarezza: il problema è che cambia la natura del rapporto di lavoro.
L’art. 18 è una norma di chiusura, rappresenta la sanzione che tiene in piedi l’intero edificio dei diritti dei lavoratori. Se si toglie la sanzione, l’edificio crolla e lo Statuto dei lavoratori che definisce i diritti dei lavoratori ed i limiti del potere privato diviene un pezzo di carta. Quando fu varato lo Statuto dei lavoratori, il commento unanime fu che finalmente la Costituzione entrava in fabbrica. Che finalmente anche i lavoratori acquistavano la libertà di esprimere le proprie opinioni, di iscriversi al sindacato da loro scelto, di non essere sottoposti alle vessazioni di polizie private, di non essere controllati nelle loro opinioni politiche, etc.
Tutto questo è destinato a sparire, la dignità del lavoratore ed il rispetto dei suoi diritti costituzionali, diventeranno merce di scambio da inserire nella contabilità dei costi e ricavi. La cancellazione dell’art. 18 (cioè della sanzione contro i comportamenti illegittimi del potere privato) espelle la Costituzione dai territori che sono dominio del potere privato e trasforma il lavoratore in un non-cittadino, realizzando la profezia nera di Marchionne, che aveva annunziato l’avvento di una nuova era.
Il tutto con la benedizione di colui che della Costituzione Italiana dovrebbe essere attento custode e strenuo difensore, il Presidente della Repubblica.
In compenso nulla è stato fatto né per “bonificare” o, almeno, drasticamente ridurre le tante (troppe) tipologie contrattuali “atipiche” attualmente disponibili, né per favorire il reale allargamento della platea di chi usufruisce degli ammortizzatori sociali.
Insomma, si può ben dire che, aldilà dell’Art. 18, questo accordo non va firmato, anche se la clausola del reintegro venisse reintrodotta, perché è tutto l’impianto ad essere sbagliato.
Perché, come scrive Luciano Gallino, “La correlazione tra la flessibilità del lavoro – che tradotto significa libertà di licenziamento e insieme uso esteso di contratti di breve durata – e la creazione di posti di lavoro non è mai stata provata, se si guarda all’evidenza accumulatasi con i dati disponibili. L’Ocse non è mai riuscita a provare l’esistenza di una correlazione tra flessibilità e maggiori posti di lavoro, e in alcune sue pubblicazioni arriva perfino ad ammetterlo. E anzi, c’è un aspetto paradossale: usando gli stessi indici dell’Ocse, si scopre che ad aumentare dovrebbe essere la rigidità, semmai. Perché dopo la riforma del 2003, che ha aumentato la cosiddetta flessibilità in Italia e che la rende superiore ad altri paesi come Francia, Germania e Inghilterra, i nostri indici occupazionali sono peggiorati”.
Ed è invece questa falsa correlazione che regge tutto l’architrave della riforma Monti-Fornero.
Questo Governo sta trasformando in peggio questo Paese e costruisce, attorno alla distruzione del lavoro e delle questioni sociali, l’idea di una società culturalmente regressiva, fondata sulla logica del mercato, conservatrice, illiberale, che mercifica i lavoratori e monetarizza i diritti e le conquiste di progresso.
Una nuova lotta di classe appare sempre più nitida, stavolta rovesciata: i ricchi contro i poveri.
La politica e i comunisti sono chiamati ad una risposta chiara: è necessario costruire, a partire dal contrasto a questa controriforma, una piattaforma unitaria con le forze che, a sinistra del PD, si oppongono ad essa ed agiscano sulle contraddizioni interne a quel Partito Democratico che ha ormai introiettato quelle dottrine neoliberiste servite ad assicurare il dominio delle politiche economiche neoliberali, e anche la legittimazione di quelle politiche sul piano culturale e ideale.
Ma tutto questo, dentro al corpo di quel partito, non può passare indenne.
Da qui dunque la necessità di provare a costruire una azione politica unitaria ed un pensiero alternativo che metta la QUESTIONE LAVORO al centro del proprio agire e che possa, in questo momento, raccogliere un grado di consenso da parte del popolo talmente corposo da “spaventare” il PD e costringerlo a ragionare su un’altra prospettiva, frenandone una deriva che, dopo l’ultima farsa del “compromesso” raggiunto con le destre ultra-liberiste su un “reintegro” che Monti si è affrettato a liquidare come “improbabile” e circoscritto a casi “estremi”, sembrerebbe aver registrato una ulteriore accelerazione.