Lettera a Teresa

di Giorgio Langella

Cara Teresa,

tra pochi giorni dovrebbero riprendere le udienze dell’ormai eterno processo Marlane-Marzotto. Saremo, come al solito, alla ricerca di qualche notizia che ci aiuti a sapere come stanno andando le cose. Scaveremo tra le innumerevoli informazioni di ogni tipo, serie o futili, che affollano internet e faremo fatica a trovarle perché, lo sappiamo per esperienza, la “grande” informazione italiana, quella che ha maggiore diffusione, non scriverà né dirà nulla.

In questi giorni ho pensato spesso a chi, come te, ha sofferto (e continua a soffrire) per la perdita di un proprio caro. Ucciso, si da una malattia (lo si chiamava, tempo fa, male incurabile), ma soprattutto dall’incuria, dall’insicurezza nel posto di lavoro, dalla negligenza di chi doveva controllare, dai ricatti occupazionali ai quali ogni giorno, ogni ora sono sottoposti i lavoratori e le loro famiglie.

Uccisi dalla sete di profitto, dalla voracità di un sistema padronale che “concede” il lavoro (che sarebbe, invece, il primo diritto costituzionale) e pretende in cambio la vita di chi deve faticare per vivere. Questo sistema è il vero “male incurabile” che ha ucciso tuo papà e che affligge la nostra debole democrazia. Me ne convinco sempre di più. Eppure sarebbe così facile vivere e lavorare in sicurezza, sorridere quando si sta lavorando, sapere che la fatica non ruba la vita ma permette di ottenere benessere, salute, istruzione, cultura per se stessi e la propria famiglia. E, invece … sempre più morti nei posti di lavoro per incidenti e malattie professionali, sempre più assenza di futuro, sempre più precarietà, sempre più miseria. Sempre meno solidarietà. La nostra società sta tornando indietro e noi stessi, con essa, ci abbandoniamo alla rassegnazione. Siamo stanchi e stiamo diventando egoisti, individualisti e, quindi, sempre più poveri in ogni senso. Ma questo arretramento non è per tutti. È sempre e solo per chi lavora onestamente, per chi suda, per i “miserabili” (o chi lo sta diventando). Gli altri, quei padroni ben vestiti e ben pettinati, quelli che non sorridono ma ridono sguaiatamente, diventano sempre più ricchi pur lamentandosi per mille cose. La società italiana sta progressivamente diventando una società di “diversi”. Pochi che comandano e detengono la maggioranza della ricchezza e troppi che hanno solo le briciole. Una forbice tra ricchezza e povertà che si allarga sempre di più e che “lorsignori”, quelli che hanno potere e governo, chiamano, con volgare arroganza, “modernità”.

In queste settimane estive ho pensato spesso a tuo papà anche se non l’ho conosciuto. Ho pensato all’amore che provi per lui e che traspare da ogni tua parola. Ho pensato al suo amore verso te. Un amore che ti è stato rubato. Ho pensato a queste cose ascoltando la voce di Quirino Traforti del quale ti ho parlato. Il compagno che è stato fucilato dai nazifascisti quando non aveva ancora 16 anni e che è sopravvissuto anche al colpo di grazia. Quirino che organizzava gli scioperi alla Marzotto negli anni ’50 e che è stato licenziato perché era comunista e sindacalista. Quirino che, ai dirigenti della Marzotto che lo stavano corrompendo promettendogli tanti soldi perché non si interessasse più di sindacato e partito, rispose “ditegli al signor conte che si tenga pure i suoi soldi, che io mi tengo le mie idee”. Un gigante che non ha mai voluto nulla in cambio, che poteva guardare chiunque diritto negli occhi perché non si è mai piegato né si sarebbe mai tolto il cappello di fronte al potente di turno. Persone così, come Quirino e come tuo papà, ce ne sono state e, voglio crederlo, ce ne sono ancora. Questa è una speranza che dobbiamo continuare a coltivare e che non possiamo abbandonare, pena la resa incondizionata e la sottomissione a chi vive solo per il profitto e i propri affari. Dobbiamo comunque resistere anche se è difficile farlo. Anche se la stanchezza ci opprime, ci toglie il respiro, ci fa disperare. Non possiamo rassegnarci neppure di fronte a quello che si legge nelle pieghe dei freddi bilanci della Marzotto. Perché è anche di questo che volevo parlarti. Ho letto qualcosa sull’ultimo bilancio (del 2013) della ditta che era proprietaria della Marlane. Qualcosa che mi ha fatto capire come la vita umana, per lorsignori, sia poca cosa specialmente quella di chi lavora per loro. Quello che ho letto si sposa perfettamente con la dichiarazione “noi ci occupavamo solo dei nostri soldi” resa da Gaetano Marzotto al processo in corso a Paola con la quale tentava di escludere qualsiasi responsabilità a carico del Consiglio di Amministrazione della sua azienda. Una frase pronunciata tranquillamente come se fosse una cosa ovvia, normale. Senza provare neppure un minimo di vergogna. Una frase che, purtroppo, è condivisa da tanti e profondamente vera perché, per “lorsignori”, i soldi che accumulano valgono molto di più della vita di chi lavora per produrre questa ricchezza.

Ebbene, a pagina 103 di “Annual Report 2013” di Marzotto group, viene riportato sotto la voce “proventi e oneri non ricorrenti” questo punto: «oneri connessi all’esecuzione della transazione “Praia” sostenuti nell’esercizio per circa 2,7 milioni di Euro». Una frase sintetica. Un computo ragionieristico, somma di quelle poche migliaia di euro che sono date ai parenti delle vittime perché rinunciassero al processo. Spiccioli per chi, come Marzotto, è abituato a “occuparsi solo dei suoi soldi”. Una transazione che ha sfruttato la rassegnazione, la stanchezza e la necessità di chi, ormai da troppi anni, chiedeva solo giustizia. Una transazione che ha permesso, agli imputati e alla Marzotto, di ottenere la rinuncia a qualsiasi rivendicazione, presente o futura, da parte dei parenti delle vittime di quella strage che è avvenuta a Praia a Mare. Soldi che, però, non possono comperare né il perdono né l’innocenza. Soldi che, so, tu hai rifiutato così come fece, tanto tempo fa, l’allora giovane Quirino Traforti.

Adesso bisogna andare avanti. Continuare in quella che è una battaglia difficile soprattutto perché avvolta dal silenzio e dall’indifferenza. Non possiamo fermarci. Dobbiamo continuare con la testarda volontà e la consapevolezza che, forse, non riusciremo a vincere questa che è una lotta per ottenere null’altro che verità e giustizia, ma che, se ci ritirassimo avremmo comunque perso.

Molti si arrendono, ma noi no, non possiamo farlo. Siamo gente antica. Pensiamo ancora che ci sia una speranza di riscatto per ognuno. Non ci interessa se è flebile e, spesso, quasi invisibile. Vogliamo credere che si può ancora costruire un futuro migliore anche se il sistema nel quale viviamo è spaventoso. Ma noi siamo “sognatori” e, per questo e soprattutto oggi, siamo, come diceva Enrico Berlinguer dei rivoluzionari. Sappiamo che non possiamo fare a meno di lottare e provare disgusto per l’ingiustizia che si diffonde nel mondo e che sembra inarrestabile.

Per quello che vediamo e viviamo soffriamo, certo, e spesso ci guardiamo attorno smarriti. Ma continuiamo a lottare. E, quando ci guardiamo allo specchio, vediamo facce pulite, occhi sinceri e non giriamo la testa dall’altra parte.