di Piergiorgio Desantis, Giuslavorista | per Marx21.it
“Le imprese avrebbero voluto la sparizione della parola reintegro, ma con il tempo capiranno che ciò avverrà in presenza di fattispecie molto estreme e improbabili”. Neanche un velo per celare le reali intenzioni del legislatore nelle parole del Presidente del Consiglio Monti. L’esigenza, quindi, è quella di restringere il limite imposto all’esercizio del potere di recesso da parte datoriale: quello esercitato attraverso la reintegrazione nel posto di lavoro. Adesso, invece, si introducono ampi margini di flessibilità in uscita. Vediamo cosa avviene nel dettaglio.
Per quanto riguarda i licenziamenti discriminatori individuali, non vi è alcuna aggiunta o modifica: quando il giudice accerta la nullità dello stesso, scatta automaticamente il reintegro.
Nei licenziamenti individuali per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, per le imprese con più di 15 dipendenti, si introducono tre fattispecie, in presenza della quali si aziona la reintegra: 1) se non si è commesso il fatto; 2) se non sussiste il fatto contestato; 3) se i contratti collettivi applicabili (inclusi anche quelli aziendali o di prossimità) prevedono sanzioni di entità minore rispetto al licenziamento. Per ciò che riguarda le prime due ipotesi, si tratta, quasi esclusivamente, di casi di scuola poiché riguardano episodi limite: ad esempio quando il lavoratore viene licenziato perché non ha commesso il fatto; oppure quando il fatto non è realmente accaduto. Anche la terza ipotesi, a ben vedere, è remota, perché i contratti collettivi non possono disciplinare astrattamente ogni eventuale condotta scorretta del lavoratore e la relativa sanzione. Poiché solo in questi tre casi scatta la reintegrazione del lavoratore, la regola, dunque, diventa l’indennizzo del lavoratore ingiustamente licenziato. Di fatto si preferisce una delega al giudice, il quale deciderà se applicare o meno la reintegra. Con ogni probabilità, a seguito della riforma, si determinerà una crescente disomogeneità giurisprudenziale. Le controversie in ambito lavorativo saranno affidate alla discrezionalità e alla predisposizione soggettiva dei giudici medesimi: presumibilmente, ci saranno giudici che applicheranno maggiormente la reintegra ed altri quasi mai; si pregiudicherà, conseguentemente, l’uniformità del diritto. A ciò si aggiunga che, oltre alla concessione dell’indennizzo in sostituzione della reintegra, l’indennizzo stesso sarà ridotto a una somma massima pari a dodici mensilità. Nella precedente formulazione, contrariamente, l’indennizzo era identico al totale delle somme non riscosse: dalla data del licenziamento fino alla reintegra. Inoltre, era il datore di lavoro che aveva l’onere di fornire prova dei redditi percepiti dal dipendente licenziato e derivanti da altri lavori, svolti nel periodo a seguito del licenziamento. La riforma assegna, invece, al giudice l’obbligo di effettuare questa deduzione, valutando anche quanto lo stesso lavoratore “avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di nuova occupazione”.
I licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo (detti anche economici) subiscono un forte cambiamento: fatta eccezione per quei casi in cui sia ravvisabile una “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, non vi sarà più la reintegra, ma esclusivamente l’indennizzo. Nel primo caso, ossia quello in cui la mancanza della fondatezza delle ragioni che hanno determinato l’allontanamento del lavoratore sia manifesta, il giudice “può” obbligare il datore di lavoro alla reintegrazione. Come riportato dal Wall Street Journal l’8 aprile scorso, Monti spiegava che: “per il motivo economico non è più previsto il reintegro. Solo nel caso in cui il reintegro sia considerato manifestamente insussistente il giudice può, non deve, decidere il reintegro”. Considerando che, difficilmente, si determinano licenziamenti palesemente infondati o nascosti, si deve aggiungere che l’accertamento della manifesta insussistenza, per il giudice, non sarà cosa semplice. Quale calo di fatturato ci vorrà per non cadere nel caso della possibile reintegra? E quale diminuzione di ordini? Per quale periodo si dovranno verificare entrambi le situazioni congiuntamente e/o disgiuntamente? Come considerare, ad esempio, l’esternalizzazioni di rami produttivi e le delocalizzazioni? Il giudice, a questo punto, dovrebbe possedere anche competenze economiche che sono estranee al ruolo naturale a lui assegnato. Nella maggioranza dei casi in cui non risulti la mancanza di fondatezza, il giudice indennizzerà il lavoratore ingiustamente licenziato per motivi economici con una somma che va dalle dodici alle ventiquattro mensilità. Con questa soluzione, inoltre, si supera la costante giurisprudenza, che obbligava il prestatore di lavoro a fornire la prova di non essere nella possibilità di “ripescare” ossia riutilizzare lo stesso lavoratore in altri ruoli.
Il legislatore è intervenuto anche sulla procedura dei licenziamenti individuali: l’attivazione avviene da parte del datore di lavoro, che comunica la volontà di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo alla Direzione territoriale del lavoro e allo stesso lavoratore investito; è sempre il datore di lavoro che illustra in quella sede “i motivi del licenziamento medesimo, nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato”. La Direzione convoca entrambe le parti, entro sette giorni, per una conciliazione; esse potranno essere accompagnate da un sindacalista, da un avvocato o da un consulente del lavoro. L’intera procedura si dovrà svolgere nel tempo massimo di venti giorni, fatta salva l’ipotesi in cui le parti, di comune accordo, “non ritengano di proseguire la discussione finalizzata al raggiungimento di un accordo”. La Commissione di conciliazione ritorna ad essere centrale, dopo l’abolizione dell’obbligatorietà prevista dalla legge n. 183/2010, perché quest’ultima dovrà tentare di giungere a una proposta conciliativa. Inoltre, dal comportamento complessivo delle parti, verificabile dal verbale della Commissione e sulla base della stessa procedura conciliativa, il giudice valuterà la determinazione dell’indennità, a titolo di risarcimento. Al contrario, se fallisce la conciliazione, “il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore”.
Passando, invece, ai licenziamenti individuali per vizi di forma o di procedura, la versione originaria dell’articolo 18 prevedeva che, nel caso del licenziamento nullo o inefficace per vizio di forma, esso era equiparato al licenziamento senza giusta causa. Nella riforma del Governo, all’articolo 14 VI comma, nella medesima situazione, si applica un indennizzo pari alla metà della somma prevista per quello normale, tranne quando il lavoratore, per sua richiesta, chieda al giudice di “entrare nel merito”. Solo a seguito di ciò, il giudice dovrà effettuare un controllo circa le eventuali irregolarità del licenziamento. Anche qui la posizione del lavoratore appare assai ridimensionata perché egli, nel caso di difetto di motivazione nel suo licenziamento, sarà “libero” di scegliere tra un ridotto indennizzo oppure l’inizio di una causa dall’imprevedibile conclusione.
Una grave modifica in negativo investe, oggi, i licenziamenti collettivi. Le difese contro tale genere di licenziamenti si fondavano essenzialmente su violazioni di procedura; quest’ultime, a seguito della riforma, vengono di fatto “condonate”. Infatti, l’accordo sindacale successivo potrà sanare le irregolarità della comunicazione d’apertura della procedura, aggiungendo l’unica sanzione dell’indennizzo, ancora una volta economico. Anche in questo caso, quindi, salta il sistema di ripristino del posto del lavoro, determinandosi la situazione in cui “il datore di lavoro che fa cinque licenziamenti invece di quattro, ossia un licenziamento collettivo al posto di quattro licenziamenti individuali, si sottrarrebbe al rischio della reintegra, perché rientrerebbe nella più lassista disciplina dei licenziamenti collettivi” [1].
Si tratta, pertanto, di una riforma che investe il mercato del lavoro, precarizzandolo ulteriormente. Con ciò si favorisce una dinamica in cui le imprese potranno facilmente aumentare o ridurre, senza particolari vincoli, il proprio organico. Oltre a essere una visione di stretto credo neoliberista, di cui si avvertono, oggi in modo particolare, tutti i limiti e le inefficienze, essa segna una discontinuità nel contesto economico e industriale italiano. Questo sistema permette, pertanto, di smontare e rimontare i vincoli contrattuali lavorativi. Ciò avviene con la facilità di un lego, i cui pezzi corrispondono alle esistenze di ogni lavoratore. Inoltre si parificano, di fatto, le posizioni di differente forza dei contraenti. Qui non si tratta di “un diritto di proprietà al posto di lavoro” [2], ma “semplicemente” della possibilità, per ogni lavoratore, di costruirsi una vita dignitosa, una famiglia e il diritto non essere trattato “come un edificio costruito in violazione del diritto di proprietà è [che] deve essere abbattuto” [3]. La riforma, secondo gli intenti del legislatore, è tesa a superare i limiti nel mercato del lavoro in entrata ed in uscita, per attrarre gli investimenti di aziende estere (anche considerando quel che resta del sistema industriale italiano). Ma quest’idea, oltre ad essere ormai una convinzione sorpassata e valida negli anni ’80 e ’90 in ben altre latitudini, pare non convincere neanche un po’ le imprese e le multinazionali. La flessibilità, in Italia, è ben oltre la necessità e non vi sono particolari rigidità che impediscono la libera iniziativa imprenditoriale. È utile ricordare, a questo punto, le dichiarazioni dell’amministratore delegato di Ikea Italia, Lars Petersson, dopo la loro decisione di sostituire le produzioni asiatiche con quelle italiane: “Per noi di Ikea la flessibilità del lavoro, l’articolo 18, per intenderci, non è un problema, quanto l’incertezza dei tempi della burocrazia e della politica” [4]. Un’affermazione che è superfluo commentare.
1 – Piergiovanni Alleva, Punti critici della riforma del mercato del lavoro in tema di flessibilità in entrata e in uscita. Interventi indispensabili., nel sito http://www.dirittisocialiecittadinanza.org/, 11.04.2012.
2 – Franco De Benedetti, I veri effetti e quelli invisibili, Il Sole 24 ore, 23.03.2012.
3 – Ibidem
4 – Ikea investe sul made in Italy, Il Sole 24 ore, 24.01.2012.