Emergenze del lavoro

elmetti lavorodi Giorgio Langella, Segretario regionale PCdI Veneto

Esiste una vera e propria emergenza nel mondo del lavoro che è di pari, se non di maggiore, gravità rispetto a problematiche più “conosciute e usuali” come quella occupazionale e quella salariale.

È la vita stessa e la salute di chi lavora che vengono messe costantemente in discussione. Un’emergenza provocata dalla mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro e aggravata da un silenzio, mediatico e non solo, che sfiora l’omertà e che nasconde le condizioni reali nelle quali sono costretti a operare i lavoratori nelle fabbriche, nelle campagne o negli uffici. Condizioni che sono costretti a subire per ignoranza, debolezza o a causa di veri e propri ricatti occupazionali. Condizioni sempre più precarie e pericolose dovute a un’esposizione continuata a pericoli per la salute e la vita. Condizioni dovute all’ambiente nel quale si opera, alla mancanza delle più elementari regole di sicurezza, ai tempi di lavoro sempre più pesanti e stressanti, alla frequenza delle operazioni ripetitive che i lavoratori sono costretti ad eseguire.

In questi ultimi mesi ci sono state sentenze ingiuste ma importanti ed emblematiche del periodo storico che stiamo vivendo. Sono sentenze che hanno interessato proprio disastri ambientali e tragedie provocate dalle condizioni lavorative e che spiegano con chiarezza come la linea di confine tra giustizia e sfruttamento sia stata abbondantemente superata nella direzione del sopruso.

Le sentenze, di fatto molto benevole per quanto riguarda gli imputati eccellenti coinvolti, emesse per i processi Eternit, ThyssenKrupp, discarica di Bussi (Montedison), Pirelli, Marlane-Marzotto (sentenze di assoluzione, di prescrizione o di diminuzione di pena rispetto alle precedenti istanze), la vicenda dell’Ilva e del gruppo Riva (con le varie complicità politiche e un sostanziale rinvio di qualsiasi processo), le indagini per i decessi dovuti a mesotelioma avvenuti negli stabilimenti veneti della Marzotto e quelle per gli scandali dell’Expo e del Mose (di fatto bloccate o “in sonno”) sono esempi che fanno pensare a un disegno ben preciso. Non possono essere coincidenze, né le possiamo considerare tali. L’Italia, con queste sentenze-messaggio, diventa un paese molto “interessante” per gli investitori nostrani e soprattutto stranieri. Un terreno di conquista per svariati motivi tra i quali (ed è questo il messaggio che deriva dalle sentenze sopra citate) emergono una crescente assenza di sicurezza, una benevola impunità assicurata a chi uccide i lavoratori per colpa o negligenza (ma, comunque, per ottenere maggiore profitto e ricchezza), la possibilità di inquinare e farla franca. Delitti giudicati senza la severità necessaria e giusta ma con una strana benevolenza che sembra rispondere alle sollecitazioni dei vertici di Confindustria (sono di fine maggio le dichiarazioni di Giorgio Squinzi sulla “manina antimpresa che ogni tanto si esercita” in Italia e sui reati ambientali “tanto assurdi che si fatica a raccontarli all’estero”).

Si stanno creando le condizioni per riportare i rapporti di lavoro a forme ottocentesche. Condizioni confermate da leggi e decreti (Jobs act, abolizione dell’articolo 18, conferma dell’articolo 8 che permette qualsiasi deroga alle norme e leggi in materia di lavoro, attacco ai diritti dei lavoratori e al conratto nazionale di lavoro …) votati da un parlamento ridotto a un insieme di nominati pronti ad approvare qualsiasi fiducia su qualunque provvedimento governativo. Siamo di fronte a una situazione aggravata dalla timidezza delle maggiori organizzazioni sindacali che hanno assunto (per costrizione o volontà) un ruolo sempre più marginale limitato all’erogazione di servizi ai propri iscritti o a una contrattazione condotta sempre in difesa e da una politica ridotta ormai a competenze di amministrazione di strategie decise in altri luoghi e da altri poteri più o meno oscuri. 

È dolorosamente evidente come i grandi sindacati non siano più, e da tempo, organizzazioni di classe ma che abbiano adottato e rese abituali pratiche poco o per nulla democratiche che li hanno portati a trasformarsi in vere e proprie aziende, con tanto di stipendi faraonici e privilegi per i dirigenti, sfruttamento di lavoratori, connivenze varie con un sistema di cooperative poco trasparenti, discriminazioni di vario genere verso funzionari non allineati. La recente questione degli stipendi ai dirigenti della CISL è emblematica di una prassi ormai consolidata che ha allontanato l’azione sindacale da quella che doveva essere una azione anche politica per gli interessi di chi vive del proprio lavoro. Questa trasformazione, purtroppo, investe anche larghi settori della CGIL e, su questo, bisognerà aprire un confronto e un dibattito serio. Parallelamente a queste abitudini, si è avuta anche una grande “timidezza” su come sono stati affrontati e contrastati i decreti e le leggi emanate dai governi Monti, Letta e, soprattutto, Renzi. Mobilitazioni e azioni incisive a livello nazionale assolutamente assenti, qualche dichiarazione apparsa più che altro di facciata (una specie di salvaguardia della propria coscienza), risultati praticamente nulli, hanno portato a una progressiva emarginazione dei sindacati da parte sia del governo (che, evidentemente, ritiene di avere ed ha la forza per isolarli), sia di tanti lavoratori che non si sentono più né tutelati né rappresentati (e hanno,  sostanzialmente, ragione).

La politica, da tempo (per ignavia o, quel che è peggio, per scelta fin da quando le dirigenze decisero la trasformazione dei partiti di massa in strutture “liquide” formate da cordate elettorali che, ormai, sono controllate da veri e propri comitati d’affari), è stata espulsa dai luoghi di lavoro. Questo fatto ha indubbiamente isolato anche le organizzazioni politiche che non vogliono rinunciare a lottare per gli interessi dei lavoratori e, contestualmente, ha aggravato le situazioni che si vivono nelle fabbriche, nelle campagne, negli uffici. È un isolamento reciproco che ha azzerato coscienza e solidarietà di classe e ha trasformato i luoghi di lavoro in “zone franche” dove non valgono le normali regole legislative. In pratica le leggi fondamentali dello Stato e la Costituzione stessa, sono state lasciate fuori dai cancelli delle fabbriche, dai recinti dei campi e dalle porte degli uffici. Progressivamente si è consolidata la convinzione che i rapporti di lavoro possano e debbano essere gestiti e risolti tra padroni (che mantengono una propria struttura organizzativa molto efficiente e una loro forte “coscienza di classe”) da una parte e lavoratori disorganizzati e, proprio per questo, deboli e ricattabili dall’altra.

Il risultato è una progressiva e inarrestabile perdita di diritti a qualsiasi livello, anche e soprattutto per quanto riguarda la questione delle condizioni di lavoro sempre più precarie e insicure. I rapporti di forza sono tutti dalla parte dei padroni che controllano la grande informazione e, quindi, riescono a veicolare nell’opinione pubblica concetti e convinzioni che rafforzano il loro potere.

La politica deve rientrare nei posti di lavoro affrontando i problemi di tutti i giorni e inquadrandoli in un progetto generale di trasformazione della società e del sistema dove le priorità siano i diritti di chi vive del proprio lavoro (sicurezza, orario e organizzazione democratica del lavoro, salario …) e la prospettiva sia la proprietà dei mezzi di produzione (e non il “pareggio di bilancio”).

Dobbiamo ripartire da concetti e azioni fondamentali (che un tempo erano normali e, forse, banali, ma oggi risultano “rivoluzionari”). È necessario creare organizzazione politica tra i lavoratori (che può essere anche allargata riunendo i comunisti che lavorano in luoghi produttivi diversi in una sorta di sezione comune a più aziende), partecipare attivamente – da comunisti e senza ambiguità o travestimenti – ai movimenti organizzati e spesso spontanei che stanno lottando per la salvaguardia dell’occupazione, per la sicurezza nei luoghi di lavoro, per ottenere giustizia degli innumerevoli delitti commessi dal capitalismo. Infine è fondamentale promuovere informazione (oggi nascosta e negata) facendo conoscere cosa sta realmente succedendo nei luoghi di lavoro.

È indubbio che, con le nostre poche forze spesso residuali, questo sia un compito difficile e di medio-lungo termine, ma abbiamo il dovere di iniziare ad affrontarlo. È forse, tra gli obiettivi prioritari che ci dobbiamo dare, quello indispensabile e più utile. Dobbiamo prendere contatto con le RSU, con i lavoratori organizzati o meno, sindacalizzati o meno, militanti nella CGIL o in sindacati considerati “minori” come USB e COBAS. Facciamo proselitismo, rientriamo, come comunisti, con le nostre ragioni e le nostre proposte là dove si lavora e dove lo sfruttamento sta crescendo. Individuiamo i luoghi dove questo è plausibilmente fattibile grazie a condizioni a noi favorevoli e cominciamo a percorrere questa strada. Solo così, il fare politica con e per i lavoratori, quello che non abbiamo mai rinunciato a dire e tentare di fare, può diventare un obiettivo concreto che nasce dalla conoscenza, passa attraverso l’analisi e l’interpretazione della realtà e arriva al progetto dell’affermazione di un sistema di sviluppo che elimini qualsiasi forma di sfruttamento e alla costruzione di una società radicalmente diversa a quella nella quale, oggi, siamo costretti a vivere.