E se l’ILVA fosse nazionalizzata?

di Antonio Siniscalschi | da www.oltremedianews.com

ilva reticolatoIl caso Ilva ripropone uno schema ottocentesco da scardinare: chi inquina non può godere dei profitti salvo poi scaricare i costi degli agenti inquinanti sulla salute e sull’economia del territorio e dei suoi abitanti. La proposta prende spunto dalle esperienze francesi e da una norma del nostro diritto penale: e se l’Ilva fosse nazionalizzata?

L’Italia del boom degli anni 60, l’Italia del benessere e dello sviluppo economico, sorse dall’acciaio. Nel dopoguerra il piano statale di ricostruzione dell’industria italiana distrutta dal conflitto partì proprio dal settore siderurgico. La politica economica applicata prevedeva la costruzione di impianti da parte dello stato per poi venderli ai privati, o meglio regalarli. Così fu per l’ILVA, regalata alla famiglia Riva che per decenni ha speculato sul principale polo siderurgico del nostro paese e sui suoi dipendenti. Ancora oggi, nonostante la crisi economica che ha imposto un ridimensionamento produttivo in ogni settore, l’Italia è il secondo produttore europeo di acciaio – dietro solo alla Germania – e il dodicesimo nel mondo.

La siderurgia – come sottolinea Oliviero Diliberto in un’intervista recente – rappresenta un settore strategico nell’economia e nel commercio italiano. Basti pensare che l’acciaio è uno dei pochi campi nel quale l’Italia può dirsi completamente autarchica ed indipendente dal resto del mondo, evitando così di dover andare a comprare l’acciaio dal principale produttore mondiale cioè, anche in questo caso, la Cina. Acciaio vuol dire infrastrutture, trasporti, in altre parole è la base materiale per la ricostruzione economica di un paese. Ma la questione ILVA rischia di far sprofondare nel baratro anche uno dei pochi settori affidabili dell’industria italiana. Lo stabilimento di Taranto, infatti, detiene quasi il 90% della produzione di acciaio nel nostro paese, quindi la sua chiusura comporterebbe un danno economico di proporzioni colossali, in primis per Taranto e la Puglia, ma ugualmente per l’intera nazione. Basti pensare che la produzione di acciaio frutta alle casse del nostro paese 40 miliardi di euro l’anno, di cui, come detto, quasi il 90% dipende dallo stabilimento pugliese. A ciò si aggiunge che il settore siderurgico ha risentito molto meno della crisi economica rispetto ad altri tant’è che all’inizio del 2012 gli introiti dell’acciaio registravano un +10%, un autentico miracolo se si pensa all’attuale situazione economica internazionale.

Il dramma dell’ILVA rischia da un lato di sconvolgere il bilancio statale, ma, ancor più grave porterebbe ad un’autentica tragedia occupazionale se si considera che sono circa 23.000 i dipendenti dello stabilimento senza considerare l’indotto. Ovviamente vicino alla catastrofe umanitaria si colloca la catastrofe ambientale. Ma i due problemi non sono scissi né contrapposti. Il diritto al lavoro dell’operaio vuol dire anche e soprattutto diritto alle condizioni ottimali sul posto lavorativo, diritto alla salute e diritto all’ambiente dato che la zona di Taranto e provincia, colpita dall’inquinamento dell’acciaieria, è anche il luogo dove vivono la maggioranza dei lavoratori ILVA, è il loro ambiente. Ma se è facile concordare su ciò, difficile è concordare sulle cause che hanno portato a ciò. Infatti il gruppo Riva, in autentico Berlusconi style, va a riesumare un leit motiv del Cavaliere: “la colpa è della magistratura”. Cioè se ora l’ILVA è a rischio chiusura il problema non è generato da anni di politiche economiche speculative del gruppo Riva – appoggiato negli ultimi anni dal gruppo Marcegaglia quindi dalla Confindustria – che hanno pensato solo agli introiti senza spendere un euro per la riconversione degli stabilimenti per renderli meno inquinanti. No! La colpa è dei magistrati che han voluto a tutti i costi far emergere questa questione del diritto all’ambiente e alla salute! Ai deliri del gruppo Riva risponde, con buon senso, Landini precisando che la colpa non è dei magistrati e che anzi essi sono intervenuti “laddove c’era una debolezza politica ed imprenditoriale”. “La FIOM – ha poi aggiunto il numero uno del sindacato – non appoggerà mai scioperi contro la magistratura. Gli scioperi si fanno contro il gruppo Riva”. E ciò non a torto. Quella dei Riva è una delle famiglie fortunate italiane (secondi solo agli Agnelli) che si son visti consegnare una fortuna – l’ILVA – per una cifra irrisoria. Ricordiamo infatti che gli stabilimenti ILVA furono costruiti e messi in moto con soldi pubblici, quelli dell’IRI, soldi che – cosa più che normale nell’anomalia storica italiana – non sono mai rientrati allo stato.

Probabilmente è ora che lo Stato, i cittadini, si riapproprino di ciò che è loro per diritto e per spesa. La nazionalizzazione dell’ILVA è ad oggi l’unica strada percorribile. Su ciò sono concordi vari esponenti politici – Diliberto – sindacali – Landini – ed imprenditoriali – De Benedetti – pur con modalità diverse. De Benedetti propone una nazionalizzazione di passaggio, che vuol dire: “comprare l’ILVA, fare un investimento di 8 miliardi per migliorare gli impianti e poi rivenderla al migliore offerente”. Quello di De Benedetti è un primo passo, ma ancor meglio sarebbe ricorrere ad una forma di esproprio da parte dello Stato, che così riprenderebbe ciò che gli appartiene, e poi mantenere la gestione pubblica di un settore e di un’impresa, che potrebbero portare, in termini economici, introiti per 40 miliardi di euro l’anno. Una manna dal cielo, cioè, per le finanze pubbliche e per la crisi italiana, che sarebbe conseguito mantenendo tutti i posti di lavoro (ricordiamo che il settore è in crescita) e migliorando l’impatto ambientale. Dopo tutto non ci si sta inventando niente, la governance sarebbe impostata su un regime di controllo produttivo e lavorativa gestito dai sindacati, come già avviene nella Francia di Hollande nella gestione di imprese in crisi come la Renault.

A riguardo uno spunto viene addirittura dal nostro ordinamento penale. Il nostro sistema normativo sui reati contro l’ambiente punisce con pene salatissime il reato di “omessa bonifica”. Si tratta di una fattispecie ricorrente nei casi in cui un soggetto che svolge attività economica, pur avendo causato un inquinamento tale da superare le soglie limite stabilite dalla legge, non adempie all’obbligo di provvedere al ripristino dell’equilibrio ambientale che ne deriva. A conseguenza di questa condotta, l’ordinamento prevede sanzioni pecuniarie molto pesanti, ma soprattutto il risarcimento del danno per le esternalità ed il rimborso all’amministrazione competente dei costi dalla stessa sostenuti per aver effettuato la bonifica. A ciò si accompagnerebbe l’obbligo per l’azienda di adottare tutte le misure finalizzate alla conversione dell’impianto industriale nel segno della sostenibilità ambientale. Rimedi che sono stati applicati anche nel caso Ilva, e che dinanzi alle inadempienze della proprietà hanno condotto al sequestro degli impianti. Ora, prendendo spunto dal diritto penale, si possono fare delle proposte di tipo politico: ebbene pensare ad un esproprio da giustificare come un risarcimento del danno a seguito delle condotte criminali perpetuate da Riva e soci, è molto più di una provocazione. Può diventare bensì una proposta per un rimedio utile a scardinare quella logica per cui oggi si possono far profitti miliardari pur scaricando costi non quantificabili sulle popolazioni, e soprattutto per restituire quella fabbrica a coloro che vi lavorano e che la vivono, spesso rimettendoci la salute, col sacrificio di tutti i giorni.

Ovviamente in questo governo la cui caratteristica è l’immobilità nella crescita economica ed i tagli nei settori che già la crisi l’hanno pagata più del dovuto, tale ipotesi non è realizzabile. Compito del prossimo governo è anche intraprendere questa strada che esca fuori dalle derive dell’economia neoliberista di questi anni, totalmente fallimentare ed in crisi perenne, verso un modello economico di controllo e di partecipazione.