di Emiliano Brancaccio e Luigi Cavallaro | da il Manifesto
La riforma del mercato del lavoro è solo «il primo tempo» di una partita che non sarà chiusa senza l’estensione delle nuove norme anche al pubblico impiego.
Ha detto così il ministro per la Pubblica Amministrazione, Filippo Patroni Griffi, in un’intervista pubblicata lo scorso 19 aprile sul quotidiano Avvenire.
L’obiettivo del governo è infatti quello di riorganizzare le pubbliche amministrazioni secondo le esigenze della spending review sulla spesa pubblica e dunque di definire in tempi brevi «il quadro delle eccedenze del personale in servizio»: «Se un’amministrazione non ha bisogno di 500 dipendenti, ma può andare avanti bene con 400», ha spiegato infatti Patroni Griffi, «deve poter essere messa nella condizioni di operare con quei 400». Quanto agli esuberi, si proverà a riqualificarli per riutilizzarli in altri settori, e se questa possibilità non dovesse sussistere «l’unica strada rimarrà quella del licenziamento».
Al di là delle rituali smentite dopo i primi malumori sindacali, è quanto mai significativo che il ministro abbia individuato nei licenziamenti per motivi economici l’unico terreno su cui si avvierà il confronto per l’armonizzazione tra la disciplina dell’impiego privato e quella dell’impiego pubblico. Ciò significa infatti che, nell’opinione del governo, la nuova versione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori contenuta nel disegno di legge in discussione al Senato è destinata a operare per forza propria nell’ambito del pubblico impiego, senza alcun bisogno di una specifica «iniziativa normativa» futura.
Può sembrare una forzatura, visto che nell’art. 2 del disegno di legge sta scritto espressamente che l’armonizzazione della disciplina dei pubblici impiegati ai principi e criteri fissati dalla riforma governativa avverrà in seguito e previo confronto con i sindacati del settore.
Ma la forzatura è solo apparente, perché l’art. 14 del disegno di legge, modificando i primi sei commi dell’art. 18 dello Statuto, incide su una norma che è già applicabile alle pubbliche amministrazioni in virtù della disposizione generale contenuta nell’art. 51 del Testo unico sul pubblico impiego (“La legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”). E se così è, bisogna concludere che l’art. 14 rappresenta una di quelle previsioni che statuiscono «espressamente» sul rapporto di lavoro dei pubblici impiegati e che proprio per ciò – come si legge nello stesso art. 2 – non necessitano di alcuna ulteriore iniziativa normativa per trovarvi attuazione.
Basti pensare che, se così non fosse, l’effetto paradossale del disegno di legge governativo sarebbe quello di creare due articoli 18, uno (quello modificato) valevole per l’impiego privato e l’altro (quello… non modificato, che però non esiste più) per il pubblico impiego.
Comprendiamo bene che l’intentio lectoris del sindacato possa coincidere con un simile paradosso, ma se abbiamo ragione a suggerire che l’intentio operis che traspare dal disegno di legge è un’altra si potrebbe dedurre che sia un’altra anche l’intentio auctoris, cioè la volontà del governo. Il nuovo rialzo dello spread tra i Bund e i nostri Btp e le parole del ministro Patroni Griffi confermano che non avevamo visto male a supporre che il ribasso delle scorse settimane fosse dovuto all’inondazione di liquidità decisa dalla Bce, piuttosto che ad un’intrinseca «credibilità» del governo in carica, e ad individuare nel taglio degli organici del pubblico impiego una delle possibili contromisure governative («I dipendenti pubblici rischiano eccome», 24 marzo). Retrospettivamente, ne verrebbe spiegata anche la determinazione con cui il governo ha voluto confinare il reintegro nei licenziamenti per motivi economici al solo caso di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo»: cosa c’è di meglio, quando si annunciano le pulizie di primavera?