di Tiziano Rinaldini | da il Manifesto
Non occorrono grandi competenze per riconoscere che con la «riforma» ciò che prima era impossibile viene reso direttamente possibile con l’esplicita copertura di legge. Il titolo dell’art.14 del testo della «riforma» recita: «tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo», sostituendo il titolo dell’art.18 «Reintegrazione nel posto di lavoro».
Il magistrato può riconoscere illegittimo il licenziamento individuale e sanzionarlo con l’indennizzo. Non solo: si obbligano le parti a un tentativo preventivo di composizione ufficializzando sul piano legislativo che il diritto può essere materia di scambio negoziale, tentando così di evitare l’imbarazzo per il magistrato e forzando per una composizione monetizzante. Il cuore dell’art.18 richiama il ruolo della magistratura con un’unica modalità: «l’inefficacia e l’annullamento del licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo», «ordina all’imprenditore di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro».
Passa di qui lo spartiacque da una situazione a un’altra. Altro che manutenzione; non c’è spazio per considerazioni su aspetti dell’attuale testo che sarebbero meno negativi o di «pasticciata praticabilità» rispetto al testo iniziale. D’altra parte mi pare che i vari commenti dei giuslavoristi confermino nel merito questa considerazione di fondo, al di là delle diverse valutazioni di opportunità politica. Lo stesso chiamare in causa la forza d’urto delle mobilitazioni, scioperi e manifestazioni (nell’accompagnare un giudizio positivo del testo di Monti) rischia di apparire beffardo, essendo noto quali siano le risorse di lotta effettivamente spese e che ciò è avvenuto sulla base della parola d’ordine: «l’art.18 non si tocca, al massimo discutiamo su una sua manutenzione». Ciò avviene sul più significativo punto rimasto nelle leggi del nostro Paese in cui si afferma un diritto del lavoratore dentro il suo rapporto e la sua condizione di lavoro (e non «sul mercato di lavoro»); un vincolo per l’impresa contro la pretesa di considerarlo merce, riducibile ad un prezzo.
Nello stesso Statuto dei lavoratori, l’art.18 riconosce un diritto individuale a partire dal quale il lavoratore guarda alle sue rappresentanze e nel contempo le rappresentanze sono spinte a esercitare il proprio ruolo in modo democratico e realmente rappresentativo. Se si guarda al futuro, ciò che viene colpito è il cuore dello Statuto, ovvero quel versante che – garantendo l’affermazione dei diritti da cittadino dentro e intorno al lavoro – ci indica l’unico futuro possibile nella reazione alla mercificazione totale e la possibilità di ricostruire su queste basi le risposte alla crisi di democrazia e rappresentanza. Lo stesso futuro dell’unità sindacale non dipende da richiami retorici, strumentali e inefficaci, ma dalla possibilità che essa sia rilanciata come diritto dei lavoratori di esercitare un potere decisionale, soprattutto quando vi siano posizioni diverse su scelte che li riguardano concretamente.
Resta quindi poco comprensibile come ci si possa relazionare con la difesa dell’art.18 come se si trattasse di una trattativa su un aumento salariale, o una riduzione d’orario, e sul prezzo da pagare rispetto all’obiettivo iniziale. È purtroppo ciò che in parte sta accadendo; e che è stato favorito da una colpevole conduzione della vicenda anche a sinistra. Era davvero il caso di accettare lo «spacchettamento» (ragioni discriminatorie, disciplinari, economiche) che ha preparato l’esito finale? Era coerente con l’intento di una seria opposizione isolare l’art.18 e forzare giudizi positivi su una parte degli interventi sul mercato del lavoro che, nel loro insieme, rispondono alla stessa logica (una più compiuta mercificazione della persona di fronte al lavoro)?
Prevale ancora una volta l’argomento del «meno peggio» e delle conseguenze di un rapporto di forze sfavorevole. Dovrebbe però essere evidente dall’esperienza di questi ultimi anni che, nell’attuale situazione, la logica porta gradino dopo gradino al peggio; colpisce ed indebolisce una consapevole opposizione sociale e lo stesso rapporto di forze.
Sta in particolare alla Cgil uscire da una logica che la colpisce e la schiaccia sulle dinamiche politico-partitiche più moderate, invece di favorire con la propria autonomia sviluppi diversi e alternativi. E’ sempre più evidente il rischio di apparire come pura articolazione interna e subalterna, mentre avanza una crisi che vanifica le risposte alle scelte contro i lavoratori e riduce pesantemente la democrazia, anche nei rapporti interni alle organizzazioni e tra queste e i lavoratori.
E’ opportuno infine richiamare l’attenzione su tutti coloro che avvertono la drammaticità e l’urgenza di ricostruire una soggettività politica capace di mettere in campo la forza necessaria a contrastare la deriva e favorire un’alternativa. Dev’essere evidente che democrazia, diritti e cittadinanza – nella società e nel modo di essere delle rappresentanze – sono la condizione di partenza, non sufficiente ma necessaria, per la ricostruzione e che lo stesso tema sul piano del lavoro ne è parte fondamentale. In questo senso, mi auguro possa svilupparsi chiaramente e serenamente lo stesso dibattito aperto in queste settimane in rete e sulle pagine de il manifesto.