A proposito di Art.18

di Massimo di Vincenzo | da http://www.comunisti-italiani.it

fornero montiA metà dicembre una dichiarazione del ministro Fornero, la signora che piange manco fosse una madonna, ha innescato una discussione che ancora oggi tiene banco sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Il presente articolo stabilisce che nelle aziende con più di 15 dipendenti, chi venga licenziato senza “giusta causa” abbia diritto al reintegro e non solo a un’indennità economica. La dichiarazione in oggetto è: “Non voglio dire che ci sia una ricetta unica precostituita, ma anche che non ci sono totem, nemmeno sull’articolo 18, e quindi invito i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste e aperte”. 

Premesso che per noi comunisti tale articolo dovrebbe essere applicato a tutte le aziende indipendentemente dal numero di dipendenti, il grande argomento portato dal governo è il seguente: l’art. 18 esiste solo in Italia, i nostri lavoratori sono troppo tutelati e questo danneggia la competitività delle nostre imprese. Eh già !! è colpa dei lavoratori e del loro Statuto se le imprese italiane non sono competitive. Per favorire una discussione franca e schietta e per non essere tacciati di ideologismo, si riportano di seguito le varie forme di tutela attive negli altri paesi europei, in maniera che ciascun lettore possa farsi un’idea sull’argomento.

In Germania c’è il Kündigungsschutzgesetz(KSchG): per le imprese con più di 10 dipendenti, il licenziamento va giustificato. Il consiglio di fabbrica ha il potere di sospendere o annullare il licenziamento (la legge impone al datore di lavoro di consultare il consiglio prima di intimare qualsiasi licenziamento). Il lavoratore ha diritto di mantenere il posto di lavoro sino alla fine della controversia giudiziaria. La sanzione primaria nei confronti dei licenziamento privo di giustificato motivo è rappresentata dalla reintegrazione nel posto di lavoro che il datore può rifiutare optando per una maggiore indennità.

In Spagna, almeno fino all’approvazione della riforma in discussione in questi giorni, il licenziamento viene annullato quando il motivo del licenziamento consiste in una delle cause di discriminazione proibite dalla Costituzione o dalla legge, oppure sia derivato dalla violazione dei diritti fondamentali e delle libertà del lavoratore. Ne segue il reintegro immediato del lavoratore nel posto di lavoro e un indennizzo pari ai salari non percepiti causa il licenziamento. Il licenziamento senza giusta causa (despido improcedente) si ha quando non siano verificate le cause o i motivi che si adducono per il licenziamento (cause oggettive), o quando non si siano rispettate le procedure formali stabilite (previste nel contratto). Le conseguenze sono dettate dal tribunale che tramite sentenza, deciderà, la riammissione del lavoratore nel suo posto di lavoro o l’indennizzo qualora il datore di lavoro non voglia reintegrarlo. Qualora il lavoratore licenziato fosse un rappresentante legale dei lavoratori o un delegato sindacale, l’opzione di reintegrazione è l’unica ammessa.

In Gran Bretagna è in vigore dal 1978 l’Employment Protection Consolidation Act, cioè la legge che sancisce il principio della reintegrazione nel posto di lavoro di fronte al licenziamento considerato illegittimo (Unfair dismissal). È automaticamente considerato sleale per un datore di lavoro licenziare un dipendente, a prescindere dalla durata del servizio e per un motivo legato alla discriminazione (protetti dalla legge sull’uguaglianza 2010). In caso contrario, un dipendente deve aver lavorato per un anno per aver diritto a ricorrere contro il licenziamento ingiusto. Il motivo di licenziamento raramente è per una rivendicazione di giusta causa: in tal caso l’Employment Tribunal giudicherà la ragionevolezza della decisione del datore di lavoro di licenziare ”band of reasonable responses”. La sentenza porterà un ordine di reintegrazione oppure la condannare per il datore di lavoro di riassumere il lavoratore ingiustamente licenziato.

In Francia lo scioglimento del rapporto è sottoposto a un pesante controllo amministrativo e giudiziario: le imprese devono dimostrare la colpa del lavoratore nel caso di licenziamento individuale e l’esistenza di valide ragioni economiche nel caso di licenziamenti collettivi. Secondo il codice del lavoro (code du travail), ci sono due categorie di licenziamento: il licenziamento per motivi personali, inerenti alla persona del lavoratore che comprende in particolare l’inidoneità fisica del lavoratore, per incompetenza o incapacità del dipende e per motivi disciplinari; il licenziamento per motivi economici, non inerenti alla persona del lavoratore, bensì legato a gravi difficoltà economiche che sono state superate con altri mezzi, nel cambiamento tecnologico con necessità di una riorganizzazione o cessazione delle attività. In tutti i casi, il motivo del licenziamento deve essere reale e grave e deve essere specificamente identificato nella lettera di licenziamento. In caso di controversia su questo, il tribunale del lavoro (conseil de prud’hommes) controlla la natura reale e grave. Il licenziamento può essere considerato pienamente valido o non valido (licenziamento senza giusta causa reale e grave definito ingiusto o sleale). Il giudice potrà proporre la reintegrazione, con prosecuzione delle prestazioni erogate. Se il datore di lavoro rifiuta reintegrazione, il giudice deve condannarlo al risarcimento di stipendio di almeno sei mesi.

Dal nostro punto di vista possiamo osservare che la protezione dal licenziamento ingiustificato, anche e soprattutto attraverso il reintegro sul posto del lavoro, è tutt’altro che una bizzarria italiana.

E sempre attenendoci ai numeri quella del mercato del lavoro italiano più rigido di altri è una scemenza bella e buona.

L’indice Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo) della «rigidità in uscita» colloca l’Italia (punteggio 1.77) ben al di sotto della media europea: appena sopra alla Danimarca (1.63), comunemente raffigurata come il modello ideale di flessibilità, e dotata di ammortizzatori sociali ben più sviluppati che in Italia. Nella classifica troviamo la Germania in testa: 3.00, ma anche i lavoratori di molti paesi dell’est come Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia, nei quali molte imprese italiane minacciano di delocalizzare, sono più tutelati di noi, rispettivamente a 1.92, 3.05 e 2.06. A tutto questo si aggiunge poi il fatto che l’Italia è tra ultime nazioni d’Europa a non aver ancora istituito un reddito minimo di cittadinanza, pur avendo una rete di ammortizzatori sociali iniqua e tassi di disoccupazione tra i più alti.

Forse dovrebbero essere il ministro Fornero e il primo ministro Monti a “fare discussioni intellettualmente oneste e aperte”, soprattutto oneste!!