Fabbriche del sapere: Angelo D’Orsi su “gli Atenei in Italia”

di Angelo D’Orsi | su il Manifesto

 

OmbreLaureati-w350C’è un filo rosso che lega il cosiddetto 3+2 di Luigi Berlinguer alla recente riforma dell’Università firmata Maria Stella Gelmini e Giulio Tremonti. È la convinzione che il sistema educativo debba rispondere a criteri mercantili, senza tuttavia intaccare il potere clientelare dei «baroni», spesso legati ai centri del potere economico. Un’anticipazione dall’ultimo numero di MicroMega

Il testo che segue di Angelo D’Orsi appare nella sua forma integrale nell’ultimo numero di «MicroMega», dedicato all’«AltraItalia». È sull’università e la ricerca, cioè i settori che hanno visto forti e diffusi movimenti sociali contestare le proposte di riforma dell’università varate da governi di centrosinistra e di centrodestra. Il punto forte dell’analisi proposta dallo storico piemontese è la critica a una formazione basata su logiche mercantili che hanno caratterizzato le politiche statuali negli ultimi tre decenni per far tornare l’università e la ricerca luoghi in cui il sapere deve essere trasmesso per sviluppare attitudini critiche.

Poco o nulla tuttavia viene detto sul fatto che l’università è diventata il luogo in cui si addestra alla precarietà e dove il sapere è già adesso commisurato, cioè impoverito per aderire alla domanda di forza lavoro a «bassa intensità di conoscenza». E poco dice del fatto che l’università e la ricerca hanno nella precarietà uno dei pilastri che consentono il loro funzionamento. È però un testo che ha il pregio di presentare proposte che possono incontrare l’interesse proprio di quei movimenti sociali che hanno caratterizzato l’università e la ricerca. È quindi un’occasione per riprendere il filo rosso della discussione sul presente e un auspicabile futuro.

Le diverse riforme succedutesi negli ultimi anni, culminate nell’obbrobrio firmato dalla signora Gelmini (ma il vero autore è il contabile Tremonti), hanno prodotto un progressivo peggioramento, sotto ogni aspetto, della scuola, dell’università e della ricerca in Italia. Che questi tre comparti, che sono decisivi in qualsiasi comunità organizzata statualmente, siano ancora funzionanti, pur malamente, malgrado i formidabili colpi ricevuti, dimostra che non di improvvide «riforme» più o meno «complessive» essi avevano bisogno, ma di finanziamenti adeguati, di impegno del personale (e per scuola e università, anche del corpo studentesco), e, a monte, di serietà del ceto politico: il che significa disposizione a recepire le istanze provenienti da coloro – docenti, ricercatori, discenti, personale tecnico e amministrativo – che in quelle strutture vivono. O meglio, difficoltosamente sopravvivono.

Sepolti dal 3+2

La premessa implica dunque un azzeramento degli ultimi quindici vent’anni, con il conseguente tentativo di riparare un terreno calpestato e devastato da politici incolti, sovente rozzi, assecondati da gruppi o singoli docenti intesi a costruirsi o conservare nicchie di potere personale o di gruppo, sulla base di collusioni con centri di potere economico e finanziario che stanno cercando di allungare i loro tentacoli su un mondo che dovrebbe produrre innanzitutto sapere, sapere critico e «disinteressato», ossia non funzionale a ciò che il mercato richiede, che è sempre subordinato a logiche di mero profitto, a intenti predatori, animato da una «filosofia» pronta a confondere, non casualmente, ricerca e utilities.

 

E vengo all’Università, non senza aver precisato che sarebbe auspicabile modificare la denominazione del ministero, reintroducendo l’aggettivo «pubblica», prima dei tre sostantivi che lo definiscono (ora Miur, ministero dell’Istruzione Università e Ricerca), poiché in politica i simboli contano e contano i messaggi indiretti. Con la reintroduzione di tale aggettivo sarebbe manifesto che un governo di vera alternativa intende occuparsi di formazione pubblica, ossia gestita dallo Stato o da enti pubblici, nell’interesse dalla maggioranza della popolazione che vive in questo paese. E se il privato, come sponsor, entrerà nei gangli del sistema scolastico, universitario e della ricerca, dovrà farlo alle condizioni che il pubblico stabilisce. In breve, un serio programma consiste nella totale cancellazione delle «riforme» devastanti, su ogni piano, che si sono succedute nel corso degli ultimi tre lustri circa, a partire dalla madre di tutte le sciagure universitarie, e scolastiche: la cosiddetta riforma Berlinguer (…).

La cancellazione del sistema 3+2 (che, come ha impietosamente mostrato un caustico pamphlet di Gian Luigi Beccaria, è «uguale a zero») costituisce il punto essenziale di un programma che davvero vuole rilanciare l’università, il quale non può non configurarsi come un vero e proprio ritorno, ma non all’indietro, bensì al futuro, in quanto se non si correggono gli errori – gravissimi – del passato, non è possibile costruire un futuro e si andrà verso l’estinzione del sistema educativo e dell’intero comparto ricerca nel nostro paese. (…) La riforma Berlinguer è stata in vero ampiamente ripresa e continuata, nei suoi elementi più deteriori, dalla signora Letizia Moratti – fortunatamente infine scacciata dal regno milanese che il cavaliere di Arcore le aveva donato – e in parte anche dai successori di costei, in una strabiliante continuità nella differenza, che ha finito per accumulare macerie su macerie: sotto quelle tonnellate di cemento, tubi di gomma, pietre, catrame, cavi di acciaio spezzati, giace la grande scuola italiana (…).

La logica che dovrà guidare le nuove politiche per l’università e la ricerca dovrà essere del tutto estranea a quella attuale, mercantilistica e aziendalistica, fondata su un malinteso concetto di efficienza, sull’esiziale combinato disposto tra lassismo e didattocrazia (come l’ha chiamata Giorgio Bertone), tra la mitizzata «autonomia» (fasulla e insieme pericolosa) e il persistente burocratismo centralistico. La nuova università dovrà altresì rifiutare l’idea di un sistema, opportunamente aziendalizzato, che gerarchizza gli atenei, in modo che ogni classe, ogni individuo, ogni ambiente sociale abbia la «sua» università (…).

La necessaria disciplina

L’esame di maturità deve riguadagnare il suo significato di porta d’accesso all’età adulta e di verifica di un impianto culturale complessivo nel senso gramsciano (…): ossia «organizzazione, disciplina del proprio io interiore, presa di possesso della propria personalità, conquista di coscienza superiore, per la quale si comprende il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri» (così scriveva Gramsci nel gennaio 1916). Non certo un ritorno all’«incubo maturità», ma un netto voltare pagina rispetto alla scandalosa faciloneria attuale (….). Da quella porta larga oggi escono studenti che per la gran parte «prova» l’iscrizione a una facoltà universitaria, spesso in modo casuale, senza una base sufficiente per affrontare alcun corso di studio, ponendosi così le basi per quel catastrofico tasso di abbandono per ovviare al quale (tale la giustificazione fornita a suo tempo) si giunse al famigerato 3+2: che viene chiamato laurea breve. Denominazione significativa, che sanciva il carattere classista (…) di un’università che avrebbe dovuto liquidare con una pseudolaurea i figli dei ceti subalterni, ove fossero riusciti a varcare le colonne d’Ercole delle accademie. (…)

L’assimilazione della scuola – dalle elementari alle università – all’azienda ha prodotto guasti epocali. Allora, sarà opportuno ribadire e precisare un punto fermissimo: la scuola, di ogni ordine e grado, deve formare, non deve produrre profitto. (…). Così come la ricerca non deve esser funzionale al mercato, ma piuttosto deve andare incontro ai bisogni della collettività: si fa ricerca scientifica per produrre conoscenza, che non sempre è direttamente e immediatamente «utile» a qualcuno, o fruibile dal mercato; la conoscenza, d’altronde, è utile in sé. (…) Dopo quel livello, dunque opportunamente riqualificato, gettando a mare ogni forma di «nuovismo» e di cialtroneria pseudolibertaria (ancora ci sovviene Antonio Gramsci, che irrideva alla «libertà di rimanere asini»), deve partire la formazione universitaria: formazione non obbligatoria, ma volontaria, che va incentivata, sicuramente, e facilitata potenziando soprattutto le strutture, rafforzando o creando ex novo istituzioni di sostegno allo studio, favorendo l’edilizia universitaria, e intervenendo sul mercato degli affitti nelle città e nelle zone universitarie del paese, attraverso tutti gli strumenti consentiti dalla legge.

La babele dei corsi di studio

I corsi di studio o di laurea dovranno essere drasticamente ridotti, risalendo quella china esiziale che si è percorsa a precipizio negli anni scorsi, parcellizzando il campo del sapere, seguendo la dannosa utopia della specializzazione precoce, sulla base, sempre, dell’idolatria del mercato: ossia formare i discenti non sulla base di un progetto culturale, ma cercando di intercettare di volta in volta le «esigenze» del mondo produttivo. Se questo è stato il presupposto della «nuova università» italiana, rovesciandolo potremo procedere a un recupero non della «vecchia» ma di una università che abbia in sé la propria dignità e la propria ragion d’essere. Il percorso universitario dovrà riacquistare la sua forma a imbuto, cominciando, sia pure nelle scelte di area, dal generale per concludersi nello specifico. In tal senso, i corsi di studio dovranno essere unificati sulla base di un primo biennio comune, e con una successiva, progressiva, ma «dolce» specializzazione, nel seguente biennio. La durata dei corsi dovrà essere riportata al quadriennio, con le eccezioni per alcune facoltà particolarmente «pesanti», come giurisprudenza, scienze, medicina, ingegneria. Occorre tornare alla laurea unica, riqualificata in termini di programmi di studio, e di serietà degli accertamenti e delle verifiche. (…).

Reclutamento dei docenti

Qui si affaccia il problema dei problemi, per quanto concerne l’università: il reclutamento. Mi sono convinto, nella mia carriera di docente, che la cooptazione, fatti salvi certi princìpi generali, sia un buon sistema, anzi sia il sistema più ovvio e sensato nell’università. La storia accademica infatti ci insegna che solo attraverso la cooptazione si creano le «scuole», e che solo gruppi di allievi che fanno comunità con i loro maestri, diventando a loro volta maestri, sono in grado di gareggiare virtuosamente tra loro. Se docenti mediocri reclutano allievi mediocrissimi, ne pagheranno il fio; anche in termini di perdita di capacità di attrarre discenti e dunque risorse. (…). Naturalmente occorrono dei criteri generali, che ciascun «gruppo disciplinare» indicherà in modo rigoroso, sulla base di indicazioni di massima del ministero, che garantiscano un’omogeneità di fondo, che non mortifichi tuttavia le specificità. Il peso delle esperienze formative diverse, i soggiorni in altre sedi e all’estero, l’attività di ricerca e quella didattica, le pubblicazioni (con una tipologia definita), e quant’altro. Cooptazione non si identifica con premiazione dei «candidati interni» ad ogni costo. Se sono capre, restino a brucare. (…) I ricercatori dovranno diventare una fascia docente a tutti gli effetti, con compiti ben individuati, doveri e diritti definiti, che lascino loro un congruo spazio per la ricerca, dunque con obblighi didattici ridotti rispetto alle altre due fasce. Nel concorso per professore associato, si terrà la lezione (col vecchio sistema del sorteggio e della scelta) e la discussione dei titoli; in quello per ordinario, rimarrà il solo esame delle pubblicazioni e dei titoli. Tre liste di idoneità, dunque, create da commissioni di concorso elette dagli aventi diritto, reintroducendo il principio che per ciascuna delle due fasce inferiori occorre la presenza di un esponente di quella fascia (…).

Si collega al reclutamento, la questione importante della mobilità. Sono propenso a stabilire come obbligatorio un periodo di soggiorno in sedi universitarie, italiane o straniere, diverse da quella in cui ci si è formati. Anzi, il ministero si dovrà impegnare a favorire con incentivi sostanziosi i docenti e con sostegni le facoltà per facilitare la mobilità interna. Rinunciando ad ogni tentazione di nomina dei rettori, vuoi dal centro (ministero), vuoi dalla periferia (consigli di amministrazione) è opportuno stabilire l’elettività di tali cariche. All’elezione dei rettori debbono concorrere, con il massimo di democrazia, tutte le componenti di ateneo. E gli statuti di ateneo devono essere stesi (o riveduti) con il concorso di tutti, compresi i «precari della ricerca», cui deve essere fornita al più presto una possibilità di stabilizzazione in base alle esperienze didattiche e di ricerca – ivi compresi i loro risultati, ossia le pubblicazioni – attraverso i nuovi sistemi di reclutamento. Si deve inoltre investire nei dottorati di ricerca, ampliandone decisamente il numero e riequilibrando il rapporto tra facoltà umanistiche e scientifiche, cancellando l’obbrobrio del «dottorato senza borsa», favorendo anche l’ingresso di sponsor privati, ma senza concedere loro alcun titolo di indirizzo o scelta sul piano della ricerca, che deve essere pensata in modo indipendente dal mercato. I privati potranno entrare come erogatori di borse e contributi di ricerca, che dovranno essere previsti per sostenere i giovani nel passaggio dal dottorato all’inserimento nel ruolo dei ricercatori. (…)

Una democrazia sostanziale

L’elezione del rettore, e di tutte le cariche gestionali e direttive degli atenei, dovrà essere il banco di prova della democrazia interna, ma anche del loro buon funzionamento. Occorre stabilire come obbligatorio il giudizio degli studenti sulla qualità della didattica, con un sistema di premi e sanzioni per i docenti migliori e peggiori, che incida anche sugli avanzamenti di carriera. Ma è necessario altresì aumentare il peso della rappresentanza studentesca nei consigli di facoltà, nel consiglio di amministrazione, nel Senato accademico, che deve rimanere il solo organo di comando degli atenei: nel suo seno il rettore sarà un primus inter pares. La regola dei due mandati, consecutivi o meno, deve essere non derogabile, per i rettori come per tutte le altre cariche (presidi, direttori di dipartimento e di istituti eccetera). Si dovranno, infine, stabilire forme di valutazione interna, e di controllo, del lavoro dei docenti e del personale amministrativo e tecnico: non si può tollerare impunemente che un docente salti le lezioni o gli esami o si autoriduca il monte ore o si faccia sostituire da persone non provviste dei requisiti sostanziali e formali.

(Angelo D’Orsi)

 

“il manifesto”, 25-10-2011