di Francesco Galofaro, Università IULM di Milano
Il caso della piccola Kata, la bambina di cinque anni scomparsa a Firenze il 10 giugno, deve spingerci a ripensare il nostro modello di emigrazione. Meglio: al nostro non modello. Infatti, sotto nessun punto di vista è possibile considerare l’Italia come un esempio di accoglienza e integrazione. Vorrei però sostenere un principio opposto a quello diffuso tra i liberali e a sinistra, per i quali esiste un “diritto a emigrare”. In realtà, i sostenitori del diritto a emigrare non si pongono minimamente il problema della sostenibilità sociale dell’accoglienza. Emigrare non è un diritto; come scriveva Joseph Ratzinger, spesso considerato un reazionario, dovremmo piuttosto batterci per il diritto a non emigrare: a non essere costretti ad abbandonare la propria famiglia e la propria casa per via di crisi economiche, guerre e oppressione che si sviluppano nell’indifferenza o con la complicità dei governi occidentali.
1. Lo Stato razzista
Dell’immigrazione si fa di tutt’erba un fascio, riducendola allo stereotipo del disperato che arriva col barcone nel mediterraneo. Al tempo stesso è sempre più di moda la parola expat, che un tempo designava la condizione dell’esiliato; l’evoluzione storica del termine lo ha portato a denotare un genere particolare di lavoratore molto qualificato che l’azienda invia all’estero o assume all’estero (impat). Si è dunque creata un’opposizione tra l’expat e il migrante, il quale sarebbe invece spinto dalla ricerca di migliori condizioni di vita.
Vi sono poi una serie di casi intermedi, nei quali l’immigrato è qualcuno che si muove sovente all’estero (flexpat), o si sposta in un paese diverso per via di una relazione sentimentale (sexpat). Si tratta evidentemente di etichette stereotipiche che riducono a una sola dimensione la complessità della vita: si può infatti emigrare per motivi sentimentali e rimanere in un Paese esercitando un lavoro rispettabile dopo la fine della relazione o, viceversa, muoversi in un Paese senza l’intenzione di stabilirvisi permanentemente e poi restarci, grazie alle relazioni sociali che si sono create nel frattempo. Vi sono anche persone che si stabiliscono in Italia per motivi di studio o di aggiornamento professionale, e molti altri casi.
L’emigrazione è insomma un fenomeno molto articolato; gli immigrati si distinguono tra loro, oltre che per appartenenza etnica, lingua, religione, anche per classe sociale, livello culturale, ceto, status. Tutta questa ricchezza contribuisce alla vita della cultura del Paese: la cultura italiana, infatti, non è un fossile da preservare da “influenze esterne” rinchiudendola in un museo: vive nella misura in cui si modifica. È un’emigrazione funzionale alla cultura. Per fare un esempio, un traduttore madrelingua è una figura indispensabile e insostituibile nella stesura e traduzione di documenti economici, giuridici, scientifici. Lo stesso si può dire per molte categorie di insegnanti, le cui carriere in Italia sono spesso ostacolate da una burocrazia cieca e senza senso. Sarebbe ora di relativizzare lo stereotipo del laureato in fisica che va a raccogliere pomodori, evocato ogni volta che si deve esemplificare uno spreco di risorse cognitive. In realtà, non è affatto raro il caso del ricercatore che si reca all’estero per fare proprio il ricercatore, specie in aziende private. Se una certa figura professionale in Italia manca e non la si può formare in tempi brevi, si ricorre al mercato estero, dove sovente tali figure costano di più.
L’immigrato non è insomma per forza un problema per l’assistenza sociale; crea ricchezza e paga le tasse; in cambio, è oggetto di razzismo istituzionale. Ad esempio, se è in Italia con una borsa di dottorato, in alcune Regioni, come l’Emilia Romagna, può vedersi negata l’assistenza sanitaria perché la borsa è esente da addizionale IRPEF. In Piemonte, se è assunto con un contratto a termine, la tessera sanitaria scade con il contratto. Se non lavora ma è spostato con un cittadino italiano, in Emilia Romagna dovrà rinnovare la tessera ogni anno, nella presunzione che il matrimonio possa finire; in Piemonte invece il cittadino italiano dovrà dimostrare di poter mantenere il coniuge, condizione problematica per i lavoratori a termine. Ricordo bene il caso di una cittadina rumena costretta a tornare in patria per partorire, poiché in un ospedale pubblico di Bologna avrebbe dovuto pagare diverse migliaia di euro. Inoltre, nella mia esperienza di docente universitario, mi sono imbattuto in casi in cui agli studenti stranieri veniva negato il permesso di soggiorno in maniera arbitraria da funzionari del tutto impreparati, ad esempio perché gli studenti in questione avevano terminato gli esami e rimaneva loro la discussione della tesi. È l’università a dover intervenire a tutela dello studente il quale – è bene esplicitarlo – paga una retta piuttosto alta per il privilegio di studiare in Italia. Infine, si pone il problema delle attenzioni speciali di cui sono fatti oggetto gli immigrati con figli da parte dei servizi sociali fin dal principio della gravidanza e della possibilità che si possa portar via loro la prole in seguito alla
Come si vede, si tratta di un insieme di regole che nei fatti discriminano i lavoratori che non hanno la cittadinanza, anche ove essi vivano in Italia da anni, avendo generato figli da relazioni stabili con cittadini italiani, i quali si trovano a venire discriminati anch’essi come se avessero perpetrato un crimine contro la razza. Alle anime belle dei liberali, sostenitori del diritto di emigrare, vorrei muovere dunque questo primo appunto: la loro posizione è astratta. Prende a modello uno stereotipo di immigrato. Non vede il corpus di norme amministrative che discriminano nei fatti gli immigrati perché si concentrano sul permesso di soggiorno e sulla legge Bossi-Fini. Sono vittime della figura retorica dell’exemplum, e si ritengono assolti dal dovere di approfondire la realtà complessa dell’immigrazione. In tal modo, la situazione reale degli immigrati nel Paese non migliora.
2. Diritto a emigrare e ideologia
Non voglio limitarmi a una rappresentazione oleografica dell’immigrazione. È chiaro che esiste un’immigrazione povera e un genere di migrante che è il paradigma dello sfruttato. La storia della piccola Kata di Firenze, che – prima di sparire nel nulla – viveva in un hotel occupato, col padre in galera, la madre vittima del racket degli alloggi, nella più completa indifferenza dello Stato e della così detta “società civile” è emblematica. Più in genere, gli immigrati sono tra i lavoratori più sfruttati in settori come l’edilizia, l’agricoltura, o l’assistenza familiare. Ma anche questi sono a mio parere vittime di un non-modello: quello per cui si difende un “diritto a emigrare” quando discute di aprire le frontiere, disinteressandosi del tutto di dove questi lavoratori vadano a dormire, di quale lavoro facciano, dell’ambiente in cui crescono i loro figli. Dietro il presunto “diritto a emigrare” vi è in realtà l’interesse materiale del capitale a mantenere alto l’esercito di riserva dei disoccupati e basso il costo del lavoro. Dunque, il “diritto a emigrare” è ideologico.
Non mi riferisco agli squallidi capimafia che approfittano della clandestinità per ridurre in schiavitù i lavoratori immigrati nelle piantagioni di pomidori. Parlo di aziende in regola che assumono i propri dipendenti. L’ideologia liberale chiede e ha in parte ottenuto l’abolizione di frontiere per merci, capitali e forza lavoro in modo da mantenere basso il costo del lavoro e alti i profitti. Anche il “ceto medio” trae dall’immigrazione un modesto vantaggio: la colf e la badante costeranno meno; poco importa dove dormano e cosa ne sia dei loro figli. Tra gli occupanti dell’hotel di Firenze, infatti, si trovano molte assistenti familiari.
L’auspicio di politiche dell’accoglienza più inclusive, che combattano l’emarginazione sociale, ha un lato ideologico: se l’assistenza a persone che, pur lavorando, rimangono in stato di indigenza è posta a carico della fiscalità generale, vi sarà un indubbio risparmio dei loro datori di lavoro, che non saranno costretti ad alzare i salari per assicurare loro una vita dignitosa. D’altronde, due persone che lavorano a tempo pieno, hanno figli e genitori anziani, necessitano ovviamente di assistenza familiare e devono fare gli straordinari per pagarla; al tempo stesso, altre famiglie sono così povere che dopo il lavoro prestano assistenza alle prime. Dunque, il modello sociale di assoggettamento delle famiglie alle esigenze del Capitale comporta il fatto che queste sfruttino il lavoro di altre famiglie, per supplire alle carenze dello Stato e all’assenza di servizi sociali decenti a supporto della maternità e degli anziani.
3. L’esercito di riserva
In realtà i liberali lottano per la libera circolazione della forza lavoro; non delle persone. Ricordo che per Marx la forza lavoro è “l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d’un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere”. Questo è ciò che compra l’azienda. La persona interessa solo nella misura in cui è in grado di riprodurre e vendere forza lavoro. In questa prospettiva, alimentare la crescita dell’esercito industriale di riserva contribuisce a mantenere il costo del lavoro al livello della sussistenza.
Secondo il rapporto Censis relativo al 2022, in Italia l’11% dei cittadini vive in condizioni di povertà relativa, in aumento di un punto rispetto al 2020. 5,6 milioni di persone vivono in condizioni di povertà assoluta, specie al sud. Tra gli stranieri residenti (regolari, dunque, non clandestini) la povertà arriva al 32,4%, in netto aumento rispetto al 2020. È molto chiaro che, in questa situazione, una fascia della popolazione italiana si trova in concorrenza con l’esercito industriale di riserva alimentato dall’immigrazione. Per questo vota forze politiche che gli promettono di “difendere la comunità dallo straniero”. Il non-modello italiano si basa, oltre che su povertà ed emarginazione, anche sul conflitto: non quello tra le classi, ma quello interno alla classe lavoratrice.
L’espressione marxiana “esercito di riserva”è insomma di grande attualità e spiega i conflitti etnici che caratterizzano la società occidentale – gli USA, la Francia e, in misura crescente, l’Italia. Tuttavia, una parte della sinistra radicale ha messo in discussione la validità dell’analisi marxiana con tre argomenti:
• Quello dei lavoratori di riserva non è un esercito. I profili professionali di cui il mercato ha necessità sono altamente specialistici. La specializzazione mantiene alti i salari perché le figure di cui c’è carenza non sono sostituibili.
• Le aziende dispongono di altri mezzi per tenere basso il costo del lavoro. Se, ad esempio, chiudessimo le frontiere, ricorrerebbero alla tecnologia per sostituire i lavoratori.
• Esistono casi in cui la presenza di un esercito di riserva o dell’immigrazione si accompagna a una crescita dei salari.
Dunque, conclude questa sinistra, la chiusura delle frontiere perseguita dalla destra non è una soluzione per migliorare le condizioni dei lavoratori. Si tratta indubbiamente di una conclusione corretta. Ma il fatto che la conclusione sia vera non prova la verità delle tre premesse. In particolare, la sostituzione di lavoratori con macchine è un processo che caratterizza l’intera storia del capitalismo. Secondo Marx, genera la caduta tendenziale del tasso di profitto, e quindi è vero che causa crisi, stagnazione, eccedenza di capitali, e quindi mantiene bassi i salari. Tuttavia, essa non è immediata. Richiede ricerca, finanziamenti, decisioni rischiose quali il passaggio ad economie di scala, genera conflitto sindacale. Spesso – come nel caso di Industria 4.0 – il trasferimento tecnologico tra aziende richiede un impulso pubblico. Non è dunque una misura in grado di contrastare l’aumento del costo del lavoro nel breve periodo. Si suppone invece che l’effetto dell’immigrazione sia costante.
In secondo luogo, occorre discutere la richiesta di profili professionali specialistici. Essa è un effetto dei processi di modernizzazione tecnologica. Non riguarda molti settori in cui – in effetti – troviamo gli emigrati di cui ho parlato nella prima parte dell’articolo: personale qualificato, quadri intermedi come l’assistenza familiare; la vendita al dettaglio; in altri settori, quali l’industria tessile o l’agricoltura, l’immigrazione è precisamente l’alternativa alla modernizzazione e al passaggio ad economie di scala, e caratterizza il modello economico italiano “a conduzione familiare”. Infine, Se pensiamo che gli immigrati siano tutti incompetenti, cadiamo in uno stereotipo grottesco. Al contrario, come ho mostrato nella prima parte dell’articolo, molti immigrati svolgono lavori professionali qualificati, vengono richiamati dall’estero dalle stesse aziende, conducono una vita dignitosa senza pesare sull’assistenza familiare e sono tuttavia oggetto di discriminazione istituzionale. Poiché non sono un peso sociale, i loro problemi sono ignorati dai media e dai politici, nonostante siano già molto integrati nella società.
Infine, gli esempi di crescita dei salari in presenza di immigrazione sono legati a condizioni di boom economico: occorrerebbe dimostrare che quei salari non sarebbero cresciuti di più in assenza di immigrazione, e in ogni caso non sembrano pertinenti alla stagnazione persistente che affligge le economie europee a partire dagli anni ’90, in particolare quella italiana.
Infine: immaginiamo di parlare con qualcuno che si abbuffa di pasticcini e bignè. Lo mettiamo in guardia, dicendo che fanno ingrassare e causano problemi alla salute. Ma lui ci risponde che, se anche evitassimo di mangiare i dolci, ingrasserebbe ugualmente per via di altri alimenti – il burro, le salsicce, i formaggi. Certamente non considereremmo molto sensata questa risposta. Eppure, il ragionamento che abbiamo presentato è molto simile: il fatto che “se anche non ricorressimo all’immigrazione, i salari resterebbero bassi per altre cause” non è certo un buon motivo per trascurare l’effetto dell’immigrazione sul mercato del lavoro, specialmente quando essa genera competizione tra poveri e poverissimi, ovvero conflitto non tra classi, ma entro la medesima classe cui si appella la sinistra.
4. Egemonia liberale
In coscienza, penso che la sinistra radicale che dà del rossobruno o del gialloverde a chi ragiona con categorie marxiane sia vittima dell’egemonia del pensiero liberale. Pur animata dalle migliori intenzioni, finisce per favorire quel capitalismo che vorrebbe combattere. Ad esempio, organizzando corsi di italiano gratuiti insegnando a leggere sull’Anti-Dühring solleva l’azienda da questo costo. Predicando ai lavoratori italiani la necessità di sacrifici materiali nel nome della solidarietà di classe li spinge a votare a destra. Nella misura in cui tali convinzioni si traducono in proposte politiche, esse si prestano bene a illustrare la nozione sociologica di effetto perverso: un comportamento individuale giustificato dalle migliori intenzioni può ottenere, a livello sistemico, effetti opposti a quelli desiderati. Ci troviamo di fronte allo stesso non-modello: quello che va sotto l’etichetta di diritto ad emigrare.
Credo che si possa comprendere meglio questa contraddizione come una incarnazione contemporanea della coscienza infelice che affligge la parte più consapevole e progressista della piccola borghesia. Gli elementi più coscienti dei limiti culturali invalicabili della propria classe sociale finiscono per alienare le proprie qualità morali (peraltro innegabili) e per attribuirle a un altro-da-sé: l’immigrato, inteso come la reincarnazione contemporanea del buon selvaggio. E infatti lo si educa, insegnandogli l’italiano e il post-marxismo, e si tenta di ibridarsi, di divenire parte di lui o di incorporarlo in noi. Si tratta a mio parere di uno stereotipo inaccettabile, perfino vagamente razzista nella sua ingenuità.
5. Aiutiamoli a casa loro?
Il lettore che mi ha seguito con pazienza fin qui comprenderà che lo slogan della Lega è una semplificazione per molte ragioni. Riduce l’immigrazione alla figura del migrante economico povero o poverissimo, per non dire clandestino. È il giovane per il quale ci si chiede se vale la pena emigrare per fare il lavavetri, l’ambulante o per chiedere l’elemosina davanti ai supermercati. È il ladro, lo stupratore, il femminicida. È la prostituta sfruttata dai propri connazionali, la badante che si fa sposare dall’anziano per derubare gli eredi. La differenza tra destra e sinistra è che la sinistra propina lo stereotipo del buon selvaggio, mentre la destra propala quello del selvaggio tout court. Sono sempre stereotipi, e non è possibile impostare analisi e soluzioni sugli stereotipi.
“Aiutiamoli a casa loro” è uno slogan consapevolmente ipocrita: l’Italia, impoverita dalla crisi economica, dalla pandemia, dalla guerra, sembra incapace di risolvere il problema della povertà domestica; figuriamoci quello della fame del mondo. In ogni caso, né l’Italia né l’Unione Europea sembrano avere un modello di sviluppo da offrire ad altri Paesi. In concreto, ci limitiamo a finanziare e sostenere i ras locali perché blocchino gli immigrati in transito sul proprio territorio, come fece a suo tempo Marco Minniti, oppure perché si riprendano indietro i clandestini, che vengono così rimpatriati in un “paese terzo”. Così, l’11 giugno scorso il presidente tunisino Kaïs Saïed ha ricevuto la presidente della commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del consiglio dei ministri italiano, Giorgia Meloni, presentando, nel corso di una imbarazzante “conferenza stampa senza giornalisti”, un accordo di rimpatrio. Il quadro di Meloni e von der Leyen è ormai piuttosto definito, e allude a una prossima sostituzione tra il blocco dei socialdemocratici e quello dei conservatori nella UE. Nonostante il progetto, la destra cade vittima delle proprie contraddizioni, dato che Polonia e Ungheria si oppongono a qualsiasi automatismo nella gestione delle politiche migratorie.
6. Il modello cinese
Con queste non soluzioni il problema della migrazione non si risolve; semmai rischia di aggravarsi. Questo perché, in larga misura, il problema africano siamo noi e le nostre politiche neocoloniali. Il modello a cui guardare per quanto riguarda i Paesi in via di sviluppo è quello cinese. Non alla globalizzazione finanziaria, ma al tentativo di interconnettere mercati lontani per creare flussi di merci; non allo sfruttamento coloniale, ma a un approccio win-win; non a i prestiti dell’FMI, finalizzati a liberalizzazioni e pagati con scompensi sociali, ma a investimenti di lungo corso mirati a sviluppare infrastrutture. Ad esempio, negli ultimi trent’anni la Cina ha investito risorse in Africa per dotare quei Paesi di infrastrutture, ottenendo in cambio l’accesso a risorse minerarie ed energetiche oltre all’appoggio politico nelle relazioni internazionali. Sia nel corso dell’epidemia di Ebola sia durante la pandemia del COVID, la Cina ha offerto assistenza medica alle vittime. Il progetto Africa 123 prevede investimenti per 150 miliardi di dollari finalizzati alla pianificazione urbana e alla creazione di posti di lavoro in vista delle stime di crescita della popolazione del continente. È naturale che la Cina si candidi e guidi i Paesi in via di sviluppo: la sua credibilità è dettata dal fatto di non essere mai stata una potenza coloniale e aver sempre mantenuto una politica di non ingerenza nei confronti dei Paesi in cui investe. Sarebbe proprio ironico se i nostri problemi di immigrazione venissero risolti, in un futuro non troppo lontano, da un’estromissione degli interessi europei dall’Africa ad opera della Cina, che in questo modo si batte per il diritto a non emigrare.
7. Ricapitolando
L’immigrazione epocale cui assistiamo da trent’anni in qua è l’effetto delle dinamiche di sviluppo che, parallelamente, hanno trasformato le nostre società. Non si tratta soltanto delle politiche di rapina operate sotto il titolo di “globalizzazione”, che hanno spogliato interi Paesi delle loro ricchezze costringendo i poveri derubati a seguirle in Occidente. Le società sviluppate sono interconnesse tra loro in maniera complessa da strutture economiche, di informazione e di ricerca che travalicano i confini linguistici e giurisdizionali. Tra i codici dell’economia, dell’informazione e della ricerca, da un lato, e quelli della lingua e del diritto, dall’altro, si creano attriti, che generano potenziali crisi. Queste società necessitano dunque di un’immigrazione, per motivi di lavoro e di studio, cui affidare il ruolo di ammortizzare gli attriti tra codici, aumentando lo spazio culturale di intertraducibilità e di comprensione reciproca tra le diverse società interconnesse. Se questo è vero, una seria politica nei riguardi dell’immigrazione non può non garantire eguali diritti a chi lavora in uno Stato estero dal punto di vista dei servizi sociali e dell’assistenza sanitaria. In parte questa direzione è stata intrapresa dall’Unione Europea, in misura del tutto insufficiente dato che le connessioni di cui parliamo non coincidono necessariamente con lo spazio socioculturale dell’Unione. La società italiana, pigra e disinteressata verso l’innovazione e l’estensione dei diritti, si basa su istituzioni razziste come se nulla fosse cambiato dal principio degli anni ’90. Peggio: vi è una tendenza, che non necessariamente si incarna solo nella politica, ad aumentare lo spazio di intraducibilità per valorizzarne i contenuti e per conservare il potere politico, economico, burocratico.
Questo modello di sviluppo non è egualitario, ma crea un’articolazione di differenze. Crea differenze tra metropoli e provincia premiando la prima a scapito della seconda; crea differenze, nella metropoli, tra la città residenziale-commerciale e la Banlieue. La topologia centro/periferia corrisponde a dinamiche di crescita e di stagnazione dei salari. È alla periferia che si crea conflitto: non tra le classi, ormai separate spazialmente, temporalmente e dal punto di vista delle comunicazioni, ma entro la stessa classe, costretta a competere per le risorse scarse creando esclusione sociale. L’esclusione sociale è funzionale all’individuazione del nemico nel prossimo: il nemico distale appare come una forza astratta, occulta, che attua complotti ai danni della tradizione e dello stile di vita consolidato, minacciato dall’impoverimento e dalla proletarizzazione. Senza dinamiche salariali di crescita, l’integrazione sarà sempre impossibile. Per questo, i paladini del diritto ad emigrare, i sostenitori dell’abolizione delle frontiere per la forza lavoro, non fanno altro che rinforzare un sistema il cui scopo è limitare il conflitto tra le classi sostituendolo con il conflitto entro la classe dei lavoratori.
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