di Raffaele D’Agata*
*docente di Storia contemporanea all’Università di Sassari, tra i curatori del sito www.katciu-martel.it. E’ autore tra l’altro di “La restaurazione imperfetta. Un ventennio di precarietà globale (1990-2010)” (manifestolibri 2011)
L’ordine tolemaico e le sue varianti
Politiche che perseguono e producono una forte contrazione della domanda globale (e particolarmente un’ ulteriore contrazione di tassi di occupazione e di livelli di salario reale già in corso di costante diminuzione ormai da più di tre decenni) rappresentano tuttora le sole reazioni alla peggiore crisi che il sistema capitalistico abbia mai conosciuto, se si fa eccezione per quella degli anni trenta del Novecento; e sono anche le sole politiche attualmente prevedibili. Ciò riguarda più o meno direttamente, e in sensi diversi, tanto il centro convenzionale del sistema-mondo quanto quello emergente e ormai quasi effettivo (nonché, certamente, la periferia). Dire questo non significa scoprire una novità. Ma ripetere e ripetersi ciò può essere utile per alimentare la molteplicità di sforzi collettivi che possono e devono capovolgere la situazione. In che senso si deve riconoscere che politiche deflazioniste (più o meno inflessibili oppure affannosamente temperate) sono le sole attualmente prevedibili? Bisogna dire così, perché l’insieme delle élites politiche selezionate dai sistemi elettorali e dagli apparati di comunicazione pubblica soprattutto nei paesi del centro tradizionale (ancora molto influenti in termini di egemonia culturale) mostrano oggi di condividere alcune premesse fondamentali circa presunte leggi ineluttabili che dovrebbero essere rispettate. E lo fanno, molto spesso, anche quando cercano più o meno sinceramente di sfuggire, in qualche modo, alle conseguenze di quelle premesse.
In tali paesi, questo insieme di élites politiche è composto da entrambe le sezioni del ceto politico stabilito. Tali sezioni sono ancora spesso caratterizzate da etichette tradizionali (cioè come partiti o blocchi rispettivamente conservatori o liberal-progressisti), anche se non molto spesso il perché si manifesta chiaro.
Innanzitutto, entrambe le ali del ceto politico stabilito in paesi come il nostro sembrano dare per scontato e indiscutibile che il libero movimento delle merci e dei capitali sia da garantire e da favorire sempre e senza alcuna riserva come più benefico di ogni intervento regolatore che sia effettuato da governi nazionali nell’esercizio della propria sovranità. Per rafforzare tale argomento, si allude anche spesso a rischi inaccettabili di vario genere (incluse guerre di grandi proporzioni) che sarebbero connessi con un eventuale processo di recupero della piena sovranità degli Stati in tale campo.
In secondo luogo, entrambe le ali del ceto politico stabilito in paesi come il nostro danno per scontato che la creazione di denaro, ossia di titoli d’accesso a beni e opportunità di vita (e di credito per la produzione di tali beni e di tali opportunità) debba obbedire a regole e limitazioni oggettive, corrispondenti a vere e proprie leggi naturali. Governi e parlamenti (eletti in modo più o meno fedelmente o efficacemente rappresentativo) non avrebbero quindi facoltà di sfuggire a tali limitazioni; e, infatti, la funzione di mettere denaro in circolazione risulta oggi totalmente trasferita ad agenzie politicamente irresponsabili o (per dire meglio) responsabili soltanto di fronte al “mercato” (cioè, come sappiamo, a un’entità astratta e non sempre ben definita, ma apparentemente autorevole e inappellabile). In stretta connessione con ciò, il denaro stesso è concepito come qualcosa di reale e di indipendente rispetto a ciò cui dovrebbe servire (ossia rispetto al lavoro e alla vita); e i titoli a possedere e a pretendere, definiti secondo il suo metro vigente, sono concepiti come qualcosa di sacro e inviolabile, ossia come qualcosa di incomparabilmente più importante (di fatto) della vita e del lavoro delle persone.
Rispetto a questo compatto e schiacciante complesso di assiomi, l’offerta di rappresentanza e d’iniziativa politica che risulta sostanzialmente accreditata (cioè vagliata e abilitata attraverso i meccanismi di auto-riproduzione e di controllo dei sistemi politici, omogenei alla presente distribuzione dei poteri profondi e di lunga durata a livello di sistema-mondo) non mette in circolazione (né, tanto meno, in azione) idee pienamente autonome e alternative. Il massimo cui finora si arriva a tale livello sono deprecazioni accompagnate dall’intenzione spesso sincera di correggere e contrastare gli effetti coerenti dei processi reali che tali assiomi esprimono e giustificano. Non solo queste deprecazioni sono appena tollerate entro i sistemi di comunicazione pubblica che detengono i mezzi più efficaci e il potere determinante per influenzare il senso comune, ma a loro volta non riescono sempre a celare una certa timidezza nei loro confronti. Ciò che manca è un programma politico che muova da assiomi completamente e coerentemente alternativi, e si proponga credibilmente di capovolgere in tempi medio-brevi (cioè contenuti entro lo spazio di un decennio, e già efficaci nel corso di un mandato elettorale) i parametri fondamentali e inerziali che regolano il presente assetto del sistema-mondo e le sue crisi.
Talvolta si pensa che propositi di questo genere siano velleitari e necessariamente fuori agenda, per principio e sempre. Non è così, di fatto. Idee e volontà così forti e così ambiziose (ma rivolte verso cattivi scopi) si manifestarono ed agirono innanzitutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, e poi si allargarono conquistando una stabile egemonia mondiale, nella seconda metà degli anni settanta. Se non emergerà un complesso di forze consapevoli e determinate, capaci d’imprimere un nuovo cambiamento di orbita al sistema-mondo (ossia proprio di capovolgere gli effetti di quella sciagurata operazione con altrettanta convinzione e con altrettanta spregiudicatezza), non resterà che esecrare impotenti i frutti di barbarie, di miseria e di distruzione, che il genere umano appare destinato a raccogliere lungo l’orbita che fu impressa allora al sistema-mondo, e l’inerzia costringe intanto a seguire.
La costruzione di un siffatto programma politico (e, strettamente connessa ed essenziale, quella di un soggetto politico collettivo capace di egemonia, non subalterno e non minoritario) è difficile, anzi piuttosto improbabile, perché l’ambiente in cui deve svolgersi è proibitivo, pieno di ostacoli spesso appositamente collocati al fine di prevenire lo sviluppo di simili processi: per esempio, in Italia, la serie di sistemi elettorali tendenzialmente e forzatamente bipartitici (e di fatto tanto caotici quanto antidemocratici) che si sono succeduti nell’ultimo ventennio e rischiano di perpetuarsi comunque in forme più o meno decenti. Alcuni di questi ostacoli possono presentarsi sotto l’aspetto di urgenze alternative, talvolta anche fondate.
Eppure, questa operazione improbabile è anche assolutamente necessaria, adesso. Se non si riuscirà ad andare al di là di impegni soltanto verbali in questa direzione, sarà più onesto per tutti dichiarare francamente la resa e aspettare che la storia stessa (incluse la comprensibile ira degli oppressi, e le per ora invincibili insidie e vendette dei potenti) trovi o indichi le sue strade, senza fingere stupore quando tali strade riveleranno il loro aspetto.
Mettere in dubbio i debiti, relativizzare il denaro
Il punto di fuga, e di forza, su cui una tale radicale e necessaria innovazione può essere sviluppata in Italia oggi (naturalmente in continuo dialogo con quanto si muove nella stessa direzione in Europa e nel resto del mondo) è rappresentato dalla famigerata lettera della Bce e dalla assoluta necessità, che essa impone a chiunque voglia proporre oggi un governo al paese, di dichiarare che cosa intenda fare: obbedirvi, o no? Terze possibilità non sembra siano date, salvo tentativi di schivare o moderare le sue prescrizioni; ma difficilmente simili tentativi avrebbero vita lunga, fermi restando gli assiomi fondamentali che ispirano il documento (cioè grossomodo gli stessi che si è tentato di definire qui).
Di questi assiomi, quello più direttamente alla base della lettera della Bce riguarda da una parte la santità del debito (indipendentemente dalle sue origini e dai suoi artefici) e dall’altra (in stretta connessione) la necessaria scarsità e il necessario pregio del denaro come entità oggettiva e indipendente. Almeno implicitamente, le due facce di questo assioma sono spesso presentate, con sorprendente sicurezza, come immutabile sapienza, riconosciuta e rispettata da ciò che solitamente s’intende per mondo civile. La storia, invece, dice altro.
In realtà, cioè, durante l’unica grande crisi economica mondiale che sia paragonabile a quella (ben peggiore) che stiamo vivendo oggi, quasi tutti gli uomini di Stato videro presto la necessità di dimenticare più meno a lungo l’enorme montagna di debiti che aveva indaffarato e affannato la politica e l’economia mondiali durante il decennio precedente (certo, con sentimenti diversi). In particolare, quelli dei maggiori paesi creditori non furono affatto gli ultimi nel rassegnarsi ad ammetterla. Tra questi, innanzitutto, un presidente americano per altro molto conservatore come Herbert Hoover (il cui esempio disastroso continua ad essere generalmente seguito molto più di quello del suo grande e rivoluzionario successore, eccettuato non casualmente proprio questo singolo aspetto di elementare e pratica saggezza). Alla fine, entro pochi anni, quella montagna di debiti fu poi sostanzialmente dimenticata per sempre. I modi e le vie per cui ciò si compì furono determinati dall’interazione delle diverse strategie dei diversi attori del gioco che si sviluppò successivamente. Alcune di queste erano molto maligne, e pertanto comportarono la conseguenza di una terribile guerra mondiale che (altrimenti) non sarebbe stata inevitabile. L’effetto conclusivo, comunque, fu poi che una parte molto significativa e ragionevolmente estensibile dell’umanità poté vivere e lavorare decentemente, per circa un quarto di secolo dopo la seconda guerra mondiale, anche perché quella montagna di pezzi di carta (oggi sarebbero bit) aveva fatto quella giusta fine.
Naturalmente, mettere in dubbio i debiti è un’operazione anche delicata e complessa, che comporta una dose molte elevata di rischio morale. È fin troppo facile che le corrispondenti parole d’ordine diventino ostaggio di cattive forme di demagogia, in cui finti bersagli e semplificazioni d’ogni genere fungano da alibi auto-assolutori per interi e articolati blocchi di personale politico i cui costumi e le cui scelte abbiano ampiamente contribuito a gonfiare la bolla e perciò a causare la drammatica emergenza presente (come spesso è accaduto in forme diverse in diversi paesi). Una cosa è lavarsi le mani indiscriminatamente nei confronti di situazioni e di attese multiformi e diversamente valide. Un’altra cosa è colpire chirurgicamente i patti scellerati che hanno lungamente legato tra loro prestatori istituzionali interessatamente lassisti e debitori irresponsabili e malintenzionati.
Questi ultimi, come è noto, comprendono categorie disparate. Innanzitutto, ne fanno parte governi americani che per qualche decennio hanno sviluppato politiche composte essenzialmente da deregolamentazione, super-sgravi fiscali ai super-ricchi, vertiginosa corsa al riarmo, ed elemosine con interesse truffaldino alle classi medie e lavoratrici. In questo fondamentale caso, coloro che prima di altri potrebbero invocare il rischio morale sono certamente i dirigenti cinesi, che hanno nelle mani enormi quantità di titoli del Tesoro degli Stati Uniti, proprio mentre ascoltano con interesse le richieste di aiuto finanziario che ormai provengono dall’Unione Europea. Tali prevedibili riserve e proteste meritano grande rispetto, alla condizione che siano accompagnate da disponibilità a fare i conti con la propria parte di rischio morale: vale a dire, da disponibilità a rivedere e possibilmente modificare l’interessato lassismo nei confronti di Washington (e del “consenso di Washington”) su cui la Cina ha finora fondato in gran parte il proprio miracoloso sviluppo. Ciò corrisponde del resto all’oggettivo bisogno di dare a tale sviluppo fondamenti e contenuti molto nuovi prima che cominci a trasformarsi in qualche specie di incubo. Tra le altre cose, ciò significa che la Cina è chiamata a rivedere il proprio ruolo di creditore di ultima istanza nel sistema internazionale, dopo questa crisi, all’incirca nello stesso senso in cui gli Stati Uniti modificarono il proprio dopo gli anni trenta del Novecento. Ciò comporta (al di là degli attuali balbettii del “G20”) una vera e profonda riforma multilaterale dell’economia mondiale, simile a quella che ebbe luogo a Bretton Woods, e funzionò in qualche modo malgrado il radicale depotenziamento immediatamente subito a causa della guerra fredda.
Un’altra importante categoria di debitori irresponsabili e malintenzionati è rappresentata naturalmente da sistemi di potere di tipo mediterraneo (greci e italiani, per esempio) e correlativi sprechi in termini di corruzione, malaffare, clientelismo e inefficienza; e così via. In passato, poi, una quota rilevante di questa categoria era rappresentata a loro modo dai regimi tardo-comunisti dell’Europa orientale, a cominciare da quello jugoslavo. Per quanto specificamente riguarda la Jugoslavia, ciò che il resto del mondo ricco innanzitutto ed essenzialmente pretese dalla successiva transizione fu – costasse quel che costasse – che i soldi prestati dalle banche non andassero perduti, fino all’ultimo cent. Le conseguenze sono note.
Si chiami dunque auditing o (per semplicità) beneficio d’inventario, o comunque si voglia, mettere in dubbio la bolla del debito, e operare conseguentemente, significa né più né meno che processare, civilmente e politicamente, più di tre decenni di storia del mondo capitalistico e la continuità delle classi dirigenti che l’hanno influenzata e diretta, quasi sempre in modo “bipartisan”. Qualunque soluzione specifica, o articolazione di misure tecnicamente responsabili e civilmente sostenibili, che abbia senso e dignità, dovrebbe essere coerente con questo principio di fondo.
Passando adesso al dogma che prescrive limiti di necessaria scarsità come garanzia del dovuto pregio e della conseguente utilità del denaro, bisognerebbe domandarsi che cosa ne resti dopo avere osservato come gli Stati Uniti diventarono una grande nazione industriale e una terra anche di speranze non soltanto e non tanto dopo che Lincoln ebbe accettato una terribile guerra intestina onde emanciparli definitivamente dall’Inghilterra di allora (e dal suo sistema di divisione internazionale del lavoro che comportava anche lo schiavismo nel loro Sud), ma ebbe anche inondato il paese di potere d’acquisto cartaceo emesso direttamente dal governo senza chiedere il favore né il permesso ad alcuna banca. E se ancora ci fosse bisogno, basterebbe poi leggere la clausola degli accordi di Bretton Woods che prevedeva interventi correttivi nel caso in cui una particolare moneta nazionale risultasse “scarsa” (tanto più se si osserva che la moneta cui si pensava mentre si scriveva quella norma era proprio il dollaro degli Stati Uniti).
Anche e specialmente per ciò che riguarda l’Italia nel tempestoso autunno del 2011, quanto detto fin qui dovrebbe bastare per fondare la piena legittimità di una politica di resistenza alle imposizioni della Bce anche in termini di precedenti illustri nella storia dei maggiori paesi capitalistici. Ma naturalmente non basta affatto per trovare la maniera di fare altrimenti senza traumi e disordini almeno altrettanto gravi rispetto a quelli che sarebbero comunque provocati, prima o poi, dall’esecuzione di quelle imposizioni.
Non basta consolarsi sapendo che tutti i governi possibili in Italia dopo la definitiva liquidazione dell’incubo berlusconiano sarebbero governi in cui una sinistra ancora debole e divisa (pur ritornando quasi certamente a occupare seggi in Parlamento anche dopo elezioni che si svolgano secondo le precise regole di oggi, o secondo qualcuna delle loro varianti già note) avrebbe immediatamente scarse possibilità d’imporre un’agenda ad alleati di centro che generalmente non si pongono neanche il problema di resistere alla Bce (e anzi ne approvano le idee e le intenzioni). Sebbene infatti il tempo residuo per prevenire una quasi irreversibile deriva nella barbarie non sia molto lungo, la sinistra dovrà essere in grado di utilizzare le nuove possibilità che le si apriranno dopo la caduta di Berlusconi non soltanto per curare le sue persistenti divisioni e vendere caro il suo eventuale appoggio a nuovi governi, ma soprattutto per rendersi credibile: tanto come rappresentante e garante della necessaria disobbedienza sociale alle politiche imposte da Francoforte, quanto come promessa e speranza di una strada diversa, ossia di una nuova e quindi reale prospettiva di crescita civile; e dovrà essere in grado di fare questo in termini di responsabilità verso il paese e verso tutta quell’Europa (la vera) che la Bce non rappresenta.
Ciò significa che la sinistra dovrebbe avere una sua precisa agenda per un governo della crisi che rompa definitivamente con le politiche del lungo trentennio inglorioso, e apra finalmente una fase del tutto nuova. Le condizioni per esercitare un tale ruolo sono da un parte un fedele e coraggioso radicamento nella conflittualità sociale, e dall’altro una cultura di governo non meno credibile e rigorosa che radicalmente alternativa. Si tratta cioè di assicurare credibilità e responsabile realismo alla necessaria e sanamente demagogica parola d’ordine del rifiuto di pagare la crisi e, specificamente, al rifiuto di pagare comunque il debito.
Ciò che la storia insegna
Non pagare incondizionatamente il debito, metterlo in dubbio, ridefinirlo, rifondarlo (e anche ridimensionarlo) è infatti non solo necessario ma anche possibile e ragionevole. Altrettanto possibile e ragionevole è reagire alla crisi fiscale e finanziaria dei bilanci pubblici e dei conti esteri non mediante contrazioni della spesa e del reddito ma, al contrario, mediante politiche di espansione concepite anche nei loro necessari aspetti monetari. L’una e l’altra scelta hanno illustri precedenti nella storia del Novecento, sebbene il ceto politico stabilito si mostri ostinato nel fingere (si spera) di ignorarle.
Per quanto riguarda l’opzione di non pagare il debito, non si tratta infatti (come spesso accade) di riferirsi al solo recente esempio argentino. Limitarsi a ciò significherebbe lasciare argomenti facili ai custodi della sapienza convenzionale, che possono avere buon gioco nel ricordare piccoli dettagli come l’esistenza dell’euro e dunque gli impegni e le responsabilità che ne derivano. Si tratta invece di aprire, con il peso e la forza contrattuale di un grande e indispensabile paese dell’Unione Europea, un nuovo capitolo della sua evoluzione (certo contrastato e difficile, ma promettente): e di fare questo, se sarà davvero necessario, anche affrontando il rischio di relazioni fortemente conflittuali con le sue attuali istituzioni e con altri paesi membri. Precedenti come quello della “sedia vuota” francese degli anni sessanta, o delle ostinazioni di Thatcher a proposito di “giusto ritorno”, possono essere istruttivi quanto alla possibilità che simili atteggiamenti diano risultati: la differenza, in questo caso, sarebbe che si tratterebbe di sospingere in avanti il processo d’integrazione anziché di frenarlo.
Ancora per quanto riguarda il debito, conviene forse partire dalla constatazione che le politiche presentemente in atto a questo proposito sembrano attuare un concetto molto simile a quello che ispirò il Piano Dawes nel 1924: prestare denaro ai debitori affinché questi potessero pagare, secondo uno schema che ebbe ripercussioni a catena molto influenti nel determinare la catastrofe che ebbe luogo cinque anni più tardi. L’alternativa (scartata due anni prima attraverso il fallimento della conferenza economica mondiale di Genova) era naturalmente prendere in attenta considerazione, in termini politici, l’origine molto discutibile di quella enorme massa di debito virtuale, prendere atto dell’inesigibilità effettiva di gran parte di quelle attese e di quelle pretese, e operare significative sostituzioni tra l’aspetto contabile e l’aspetto reale degli obblighi riconoscibili. Un’analoga operazione di auditing internazionale dovrebbe essere all’ordine del giorno oggi, quando è molto più facile menzionare le pur quasi impronunciabili cifre del debito che stabilire con precisione chi debba che cosa a chi e per quale motivo (salvo sospettare fondatamente che l’intera bolla sia andata crescendo nel corso di oltre trent’anni a partire dagli sgravi fiscali ai ricchi, dalla crescente sostituzione delle imposte con il debito anche al fine di alimentare un gigantesco riarmo nella fase finale della guerra fredda, e dall’incentivazione del debito privato come fattore di relativa stabilità sociale in concomitanza con lo smantellamento del welfare).
Anche l’opzione di tenere al petto la carta del pieno recupero della sovranità in campo monetario, e servirsene per trattare, costituisce un atteggiamento non privo di precedenti analoghi nella lunga storia del processo d’integrazione europea, di cui l’attuale stato larvale delle istituzioni di Bruxelles e di Strasburgo non può certamente essere considerato né una meta né una stazione provvisoria troppo lungamente praticabile. Non è facile valutare la differenza tra i costi economici e sociali dell’obbedienza alla lettera della Bce e quelli che dovrebbero essere pagati qualora la carta del recupero della piena sovranità monetaria dovesse infine essere effettivamente giocata. Certo, bisognerebbe fare di tutto (al di qua di una pura e semplice resa) per evitare di doverla giocare. Ma, infine, se mai si dovesse arrivarci, non sembra da escludere che la differenza non starebbe tanto nella pesantezza dei costi assoluti quanto nella loro distribuzione tra le classi.
Le principali conseguenze negative di un eventuale e comunque deprecabile ritorno alla lira sono usualmente indicate nel suo valore esterno relativo inevitabilmente molto più basso anche rispetto a quello del 2001, e nel conseguente aumento dei prezzi di tutti i numerosissimi beni dipendenti dalle importazioni (mal compensato e difficilmente compensabile dal correlativo stimolo ad esportazioni sempre meno ricche di valore aggiunto e di contenuto d’innovazione, e perciò sempre più costrette a competere con produttori emergenti molto più aggressivi). Tanto il tasso di occupazione quanto i redditi da lavoro potrebbero comunque essere sostenuti e promossi da una politica di qualificato rilancio della crescita che realizzi intanto su scala ridotta almeno alcuni aspetti delle politiche analoghe che saranno state intanto sollecitate a livello di Unione Europea.
Una nuova Ricostruzione
Porre l’obiettivo di una qualificata ripresa della crescita significa naturalmente riconoscere che una pura e semplice ripresa della crescita interrotta dalla crisi (e molto frenata già da lungo tempo, prima ancora, nelle aree tradizionalmente centrali e mature del sistema-mondo, cui il nostro paese appartiene) è del tutto impossibile, oltre che umanamente ed ecologicamente insostenibile. Ciò comporta l’assunzione di un programma di riconversione dell’insieme delle strutture produttive, cominciando dal capitale fisso, dalle fonti energetiche, e dalla funzione del territorio e dunque del settore primario. Un tale programma si presenta equivalente, quanto a dimensioni dell’investimento globale richiesto, a un’opera di ricostruzione dopo una lunga e devastante guerra mondiale.
In altre parole, l’orizzonte di riconversione economica globale che oggi s’impone al fine di assicurare un futuro non tragico alla civiltà umana può essere paragonato a quello che attirò e guidò la ricostruzione dell’economia mondiale dopo il 1945. E pertanto comporta lo studio attento delle lezioni e delle esperienze di quel periodo; e anche degli anni immediatamente precedenti, durante i quali (pur pagando i prezzi atroci, inevitabili di fatto ma non per principio, di una guerra mondiale) furono stabilite le basi per il più stabile periodo di crescente prosperità, riguardante finora il massimo numero di paesi e di ceti sociali contemporaneamente, nella storia dell’economia mondiale. Naturalmente, bisogna precisare che tali lezioni riguardano tanto cose da riprendere (se non certo da ripetere in modo puro e semplice), quanto cose da non ripetere, e anzi da evitare e da superare definitivamente.
Un precedente da riprendere è la relatività del metro monetario dei valori, e la flessibilità del suo concetto e delle sue applicazioni in quanto ordinate a fini specifici, che furono costantemente affermate alla base dell’esperienza del New Deal e della sua feconda internazionalizzazione durante il decennio che va dal costruttivo boicottaggio americano degli stanchi rituali della conferenza economica mondiale di Londra nel 1933 agli accordi di Bretton Woods del 1944. Il concetto chiave affermato e quasi attuato (fatto salvo il costante e progressivo svuotamento per effetto della guerra fredda) era che la certezza e la relativa stabilità dello strumento costituito dal denaro dovevano servire le esigenze di ciò che allora si intendeva per sviluppo con decisa priorità rispetto alle attese dei singoli detentori di attivi o comunque di posizioni di controllo sui flussi di capitale nella situazione data; e che tutto ciò doveva accadere attraverso l’esercizio di efficaci funzioni di controllo e di orientamento di tali flussi da parte dei pubblici poteri, tanto all’interno dei singoli paesi quanto nel quadro della cooperazione internazionale. Durante la seconda guerra mondiale, l’amministrazione Roosevelt fece ancora di più sulla strada della relativizzazione della funzione del denaro e del suo ridimensionamento, dal momento che il sistema di finanziamento dello sforzo bellico delle Nazioni Unite mediante la legge Affitti e Prestiti mirava esplicitamente ad aggirare il potere delle banche e a prevenire la rinnovata formazione di enormi escrescenze finanziarie simili a quelle che erano state generate dal precedente conflitto (i colossi bancari privati non ne furono affatto felici, e lo dissero).
Un secondo precedente, che in parte appare riconducibile al primo malgrado le circostanze politiche profondamente cambiate, è costituito dai meccanismi monetari del Piano Marshall, e in particolare da quella parte determinante degli aiuti americani alla ricostruzione dell’Europa occidentale che era costituita dai counterpart funds, ossia dalla facoltà dei paesi assistiti di creare moneta al proprio interno sotto la copertura di fidi in dollari (a loro volta creati) destinati ad essere estinti (come di fatto accadde, e presto) mediante i proventi delle esportazioni che i paesi assistiti sarebbero rapidamente diventati capaci di collocare entro l’area del dollaro grazie al vertiginoso aumento della loro capacità produttiva finanziato mediante tali nuovi mezzi monetari.
Sarebbe facile esercitarsi a contrapporre questi esempi di genialità e innovatività non astrattamente tecnica, ma innanzitutto ispirata da concezioni forti e impegnative della politica e della democrazia, da una parte alle irresponsabili acrobazie matematiche che hanno costruito molti castelli di carta crollati tra il 2007 e il 2008, e dall’altro alla sconcertante timidezza di gran parte del personale politico ai vertici dei maggiori paesi avanzati nel corso di questa tempesta, non solo nei loro comportamenti ma certamente nelle loro parole e forse (si può temere) nei loro pensieri. L’importante è che, come un tempo si diceva, la sinistra raccolga oggi la bandiera di queste esperienze e di queste lezioni, abbandonata oggi nei rigagnoli dai ceti dominanti.
Fonte: www.katciu-martel.it