Si vince da sinistra

di Francesco Francescaglia, Responsabile organizzazione PdCI | da www.comunisti-italiani.it

12maggio roma corteoPartiamo da quello che la stragrande maggioranza dei commentatori non hanno detto sui risultati elettorali. Ci sono stati 450.000 elettori che non hanno più votato per i partiti che avevano sostenuto alle precedenti tornate elettorali: 200.000 han votato Grillo, gli altri 250.000 hanno disperso il voto in una miriade di liste civiche che erano sulle schede elettorali di tutti i comuni.

Queste civiche erano, perlopiù, liste civetta di Pdl, Lega, ma anche del PD. Significa che gli elettori, anche a causa del sistema elettorale, sono voluti restare dentro lo schema bipolare. Solo che non se la sono sentita di votare per i partiti tradizionali e ciò, soprattutto nel centrodestra, ha determinato un vero e proprio terremoto che spesso ha fatto vincere il centrosinistra per assenza dell’avversario.

Il centrosinistra, dunque, conquista un numero schiacciante di comuni rispetto al centrodestra. Non il Pd, il centrosinistra. Il partito più grande della foto di Vasto, infatti, non riesce sempre a vincere imponendo i suoi candidati. Doria a Genova si aggiunge ai casi di Milano, Cagliari e anche di Napoli e Palermo (dove un pezzo del centrosinistra – Idv e Fds in entrambi i casi – sceglie di rompere la coalizione per non sottostare ai diktat del Pd e vince, dando plasticamente il segnale che gli elettori premiano un “centrosinistra” alternativo quando produce un cambiamento reale). 

Vince, dunque, una coalizione diversa da quella immaginata da chi vorrebbe un partito a vocazione maggioritaria che si allea con dei cespugli chini ad ogni volere del Pd. Una coalizione che ottiene il consenso degli elettori quando valorizza come una ricchezza la pluralità e le differenze, anche perché riesce ad aprirsi alle domande di partecipazione dei movimenti sociali e civici che sentono di stare in un progetto aperto ed inclusivo. Una tendenza ormai consolidata, che ci dice che per il Pd è finita la stagione dell’asso piglia tutto. 

Inoltre, in 10 dei 14 comuni capoluogo di provincia conquistati dal centrosinistra, vince la foto di Vasto allargata, ma non al centro, a sinistra. In tutti quei comuni la Federazione della Sinistra completava la foto di Vasto, talvolta in modo determinante. In soli 3 comuni capoluogo, invece, ha vinto Vasto allargata al centro. Un segnale più chiaro di così il Pd non avrebbe potuto riceverlo. 

Dentro il quadro della vittoria della coalizione plurale (non del Pd), composta dalla foto di Vasto allargata alla Fds, c’è il risultato della sinistra. Complessivamente, nei comuni superiori ai 15.000 abitanti, la Fds ottiene il 2,94%, Sel raggiunge il 3,7% e Idv supera il 4% grazie soprattutto al dato di Palermo. Sostanzialmente tutti allo stesso livello. 

La Fds, poi, ottiene risultati migliori quando si presenta in coalizione rispetto a quando sta fuori. Un dato che si conferma costante dalle amministrative del 2009, passando per le regionali del 2010 e le amministrative del 2011. Il risultato di Parma ne è la riprova, con il clamoroso dato del PdCI ad oltre il 5%. 

Quale giudizio dare dei nostri risultati? Abbiamo parlato di tenuta, perché la Federazione conferma i risultati delle precedenti tornate elettorali. Bisogna però considerare che questo risultato matura nelle note difficoltà che subiamo da tempo (scarsissima visibilità mediatica, esclusione dal Parlamento, condizione economica ridotta all’autofinanziamento). E bisogna aggiungere che Sel (che si avvantaggia della straordinaria visibilità mediatica di Vendola) e Idv (che sta in Parlamento, con tutto ciò che ne consegue) si attestano largamente al di sotto dei sondaggi (Di Pietro, addirittura, perde la metà dei voti reali). Nessuna delle due formazioni riesce, dunque, a doppiare la Federazione della Sinistra. Se lo “spread” tra noi, Idv e Sel fosse stato più largo, allora avremmo dovuto interrogarci sulle nostre responsabilità soggettive. Invece, dobbiamo guardare alla situazione oggettiva della sinistra. 

La sinistra in Italia non sfonda come in Grecia, Francia o Spagna. Rimando un’analisi più approfondita ma ciò deve essere spiegato, anzitutto, a partire da quella che nel nostro documento per l’ultimo congresso nazionale abbiamo definito l’anomalia italiana. 

Un paese segnato profondamente dagli effetti nefasti del berlusconismo (ancorché senza più con Berlusconi a capo del Governo) in cui si innestano molteplici e gravissime crisi. In una sorta di ricorso della storia, queste crisi stanno riproducendo la dinamica del biennio ’92-’94. 

Oggi come allora vi era una crisi economica, anzi l’attuale è senza dubbio molto più grave. E le classi dirigenti usarono la crisi per imporre una svolta a destra a tutela dei loro interessi. Lo stanno facendo anche adesso con Monti (come lo fecero con Amato, che riformò le pensioni e fece la prima vera manovra lacrime e sangue) e vorranno farlo anche dopo Monti (come lo fecero allora sostenendo la vittoria di Berlusconi). 

Oggi come allora vi era al centro del dibattito pubblico la questione morale. Questa crisi rischia di essere più profonda e grave di quella di allora. Perché tangentopoli fece scomparire il Psi, la Dc e tutto il pentapartito, ma l’ex-Pci riuscì a non cadere nella trappola del “sono tutti uguali”. La questione morale di oggi, invece, rischia di spazzare via tutti, in un attacco ai partiti e alla politica che colpisce indistintamente, anche noi comunisti. 

All’inizio degli anni ’90 l’incertezza era tale che pensarono bene di usare lo stragismo per rimettere a posto le cose. Siccome vent’anni fa la strategia mafiosa ha funzionato, la tentazione di ripeterla potrebbe essere forte. Purtroppo le bombe stanno scoppiando di nuovo e si torna a parlare di strategia della tensione, speriamo che non avvenga un’escalation drammatica come quella di allora. 

Nel ’93 ci furono le amministrative, che vennero stravinte dal Pds e segnarono una straordinaria avanzata delle sinistre e della Lega. Occhetto pensò di avere la vittoria in tasca anche per le politiche dell’anno successivo. I sogni di gloria della gioiosa macchina da guerra, però, si infransero contro il muro del berlusconismo. Attenzione, dunque, a non ripetere lo stesso errore: dare per morta la destra italiana. 

In questa anomalia, direi eccezionalità, della transizione italiana si produce il governo Monti, che segna il salto di qualità dal neoliberismo berlusconiano, all’iperliberismo tecnocratico. Innestare la tecnocrazia in un paese segnato dal berlusconismo significa lasciare il campo della politica totalmente in mano ai populismi, poiché lo si svuota della sua funzione essenziale, quella del governo, sussunta appunto nella tecnocrazia. Se la politica non è più proprietaria del discorso sul governo, non può che rimanere un dibattito preda della demagogia populista, tanto dura ed estrema nei toni, quanto velleitaria nei contenuti e nelle effettive prospettive di trasformazione della società. Una situazione ideale per favorire la scomposizione del quadro politico in vista di una (possibile?) riappropriazione da parte di una nuova destra del campo del governo consegnato (momentaneamente?) alla tecnocrazia. 

Questo è il terreno che ha consentito a Grillo di uscire come l’unico vero vincitore delle elezioni. Un terreno che non è il nostro campo da gioco e sul quale non possiamo (né vogliamo) essere competitivi. Anche perché l’antipolitica occulta sistematicamente il campo su cui i comunisti agiscono: quello della critica all’economia politica. In Francia e in Grecia il dibattito è centrato sulla crisi economica, condizione essenziale per il successo della sinistra. Nei lunghi anni di Berlusconi il tema economico (e dunque della contraddizione tra capitale e lavoro) è stato eclissato dalla fallimentare ricerca della via giudiziaria all’antiberlusconismo. Il tema della critica dell’economia politica era riemerso dall’oblio sulla spinta della crisi. Oggi Grillo lo rigetta nel dimenticatoio in cui le classi dominanti vogliono che stia. 

Sbaglieremmo ad attaccare Grillo frontalmente cercando di scavare sulle contraddizioni della coerenza del suo discorso politico. Attaccare Grillo perché eterodiretto da Casaleggio è inutile: è il simmetrico della via giudiziaria dell’antiberlusconismo. La contraddizione di Grillo è la sua totale assenza di proposta economica (se la cava con l’uscita dall’euro e cianciando di signoraggio): nulla sul lavoro, sulla crisi, sulla crescita, sulla questione sociale e, soprattuto, sul lavoro. Su questi temi i comunisti devono scavare, riportando la discussione sul terreno marxiano della critica all’economia politica. 

Ciò significa che dobbiamo omettere i temi che solleva l’antipolitica? No, ovvio che no. Anche qui dobbiamo spostare il discorso dall’antipolitica alla critica della politica e al disvelamento della reale profondità della questione morale che segna il nostro paese. Noi non abbiamo caste da attaccare, ma vogliamo eliminare i privilegi, perché stiamo sempre dalla parte dei diritti. Noi non siamo contro le caste, perché siamo contro la classe, quella dei padroni. È lì che origina non solo la questione dello sfruttamento dei lavoratori (di per sé sommamente immorale), ma anche il tema della questione morale essendo il capitalismo ontologicamente predisposto alla ruberia, al malaffare e alla corruzione per crearsi condizioni di vantaggio rispetto alla concorrenza ed accaparrarsi le sterminate risorse elargite dal capitalismo di stato delle concessioni e degli appalti. 

Il nostro compito è di tenere insieme la critica alla politica (nei termini della questione morale contro la classe dei padroni e delle forze politiche che essa esprime) con la critica dell’economia politica. Proprio ciò che abbiamo scritto in occasione del nostro ultimo congresso. 

Facile a dirsi, più difficile a farsi, ma non è cosa impossibile. 

Ci si può riuscire solo se si decide di giocare all’attacco. Con il coraggio che bisogna avere quando si osa la democrazia. 

Giocare all’attacco significa eliminare ogni incrostazione attendista. Siamo già in campagna elettorale, ci giochiamo tutto. Significa uscire dalla strategia difensiva adottando l’unico modo per cui si fa davvero politica: quello della proposta che scava contraddizioni e costringe gli altri a confrontarsi con te. In questo modo si esce dall’irrilevanza. Certo, bisogna tenere conto dei rapporti di forza, ma è così che si prova a forzarli, senza più assumerli come dati ed immodificabili, ma come mutevoli, talvolta anche ribaltabili in un brevissimo tempo (pensate all’exploit greco e a quello francese). Significa essere spregiudicati nella tattica, senza cadere nel tatticismo; saper leggere le dinamiche politiche, senza cadere nel politicismo che non tiene conto delle dinamiche sociali e culturali. 

La manifestazione del 12 maggio si inserisce in questa strategia, perché, per una volta, le altre forze della sinistra sono state costrette a confrontarsi con una nostra proposta e con una nostra iniziativa. Poca cosa, ma assai significativa. 

Dobbiamo proseguire così, trovando dei temi che ci consentano di creare consenso a sinistra e, al tempo stesso, di scavare nelle contraddizioni degli altri al fine di conseguire un risultato. Ad esempio: trovo del tutto sterile la discussione astratta sul rapporto tra Pd e governo Monti. Trovo, invece, assai più interessante e utile politicamente incalzare il Pd e il resto della sinistra sulle questioni concrete. Abbiamo fatto così in occasione della votazione sul pareggio di bilancio in Costituzione. Ci siamo rivolti all’Idv per chiedere di non votare quella riforma al fine di provare a farla passare senza che raggiungesse la maggioranza dei 2/3, sopra la quale non si può chiedere il referendum confermativo. Per tre votazioni l’Idv ha respinto il nostro appello, anche argomentando esplicitamente il rifiuto dai banchi della Camera. La nostra insistenza (e quella di coloro che si sono battuti per non mettere fuori legge le politiche keynesiane) alla fine ha fatto mutare idea all’Idv. La riforma è passata lo stesso, ma abbiamo costretto quella forza politica a ripensare una sua posizione: un fatto che aiuta i processi unitari a sinistra. 

Una sinistra unita sulle cose concrete. Dobbiamo rilanciare una vera e propria offensiva unitaria a sinistra. Faccio un esempio concreto: in Europa c’è uno scontro tra le destre che sostengono l’austerità e producono recessione e le sinistre che propongono la crescita e la fine del massacro sociale. Bersani a Parigi dice di stare con Hollande, ma poi in Italia si appresta a votare il trattato sull’austerità voluto dalla Merkel e da Sarkozy: il fiscal compact. Su questa cosa la sinistra politica e sociale, deve fare una campagna unitaria per chiedere al Pd di non votare il fiscal compact, che è molto peggio del pareggio di bilancio in costituzione. Significa incidere su quella che è una contraddizione vera del Pd, ma possiamo riuscirci solo se produciamo una battaglia unitaria. 

Anche sulla questione dell’articolo 18 abbiamo prodotto iniziativa politica e possiamo dire di essere i protagonisti di questa battaglia tra le forze politiche. 

È questo il modo per affrontare la lunga campagna elettorale che è già iniziata ed anche per uscire dalla discussione astratta sulle alleanze. 

È il tentativo che sta mettendo in campo la Fiom: porre delle proposte concrete al fine di ridare rappresentanza al mondo del lavoro e verificare chi ci sta. La sinistra deve starci, e dovrebbe starci in modo unitario. Se anche Bersani risponderà positivamente e si deciderà a fare l’Hollande italiano e a costruire quella coalizione plurale che ha vinto le amministrative, sarà un successo per tutti. 

Però, anche qui, attendere di vedere quali intendimenti assumerà il Pd significa cadere nell’immobilismo del politicismo tatticista. Il tema è cosa possiamo fare noi per non consegnare il Pd all’irrilevanza del campo dei moderati. Ciò che facciamo noi può cambiare, e di molto, la natura della proposta politica delle forze democratiche e progressiste. Di Pietro e Vendola l’hanno capito e sono partiti, giocando d’attacco. La Fiom avanza la sua proposta. Tanti altri si muovo, anche se non sempre nel migliore dei modi. La situazione è in sommovimento. Anche noi abbiamo il dovere di muoverci, avanzando con grande chiarezza e tempestività la nostra proposta dell’unità a sinistra a partire dai contenuti. 

A Genova, Milano, Napoli, Palermo e Cagliari abbiamo inciso e cambiato il quadro politico, si può fare anche a livello nazionale se sapremo essere uniti e se sapremo uscire dall’astrattezza in cui troppo spesso affrontiamo il dibattito sulle alleanze.