Pubblichiamo come contributo alla discussione
di Thomas Fazi
da https://www.lafionda.org
L’altro giorno, a Piazza del Popolo, Matteo Salvini ha citato per l’ennesima volta uno dei suoi modelli di riferimento, Margaret Thatcher: «Non esiste libertà, se non c’è libertà economica». È uno dei mantra dei neoliberisti. L’idea di fondo è semplice quanto stravagante, ovverossia che i mercati sono fondamentalmente autoregolantesi e dunque che questi, se lasciati a sé, cioè con la minor interferenza possibile da parte dei governi (riassumibile nello slogan “meno tasse, meno burocrazia”), sono in grado di generare automaticamente crescita, stabilità sociale e piena occupazione (purché i lavoratori siano disposti ad accettare qualunque salario venga loro offerto, essendo questo il risultato del “naturale” meccanismo della domanda e dell’offerta).
Peccato che sappiamo almeno dagli Venti-Trenta del secolo scorso che l’economia capitalistica non funziona così: la crisi finanziaria del 1929 e la successiva Grande Depressione dimostrarono non solo che i mercati (in particolare quelli finanziari), se “lasciati a sé” tendono a generare enormi bolle e squilibri che finiscono inevitabilmente per scoppiare, portando giù con sé l’intera economia; ma anche che il mercato, da sé, non è assolutamente in grado di garantire la crescita e la piena occupazione, soprattutto in seguito a una crisi finanziaria, poiché queste sono determinate da quella Keynes chiamò “domanda aggregata”, cioè dalla quantità di beni e servizi complessivamente richiesta dai soggetti economici, che può essere sostenuta solo da un attore “esterno” al mercato – il tanto vituperato governo, ovviamente –, attraverso la politica di bilancio e in particolare la spesa in disavanzo.
Questa consapevolezza fu alla base del cosiddetto “trentennio glorioso”, che dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni Settanta circa garantì in tutto l’Occidente crescita economica sostenuta, piena occupazione (o quasi), salari e profitti crescenti, estensioni di diritti sociali ed economici a un numero di cittadini senza precedenti nella storia e relativa stabilità economico- finanziaria a livello internazionale. Quella stagione straordinaria fu il risultato di quello che viene generalmente considerato il modello “keynesiano” di politica economica, basato su una forte presenza dello Stato nell’economia (per mezzo di politiche industriali, sostegno agli investimenti e alla domanda ecc.), un welfare molto sviluppato, politiche del lavoro tese verso la piena occupazione e la crescita dei salari (più o meno in linea con la crescita della produttività) e l’istituzionalizzazione dei sindacati e della concertazione come strumento di mediazione tra gli interessi dei lavoratori e quelli delle imprese.
Quel modello entrò in crisi intorno alla metà degli anni Settanta, per ragioni che ho ampiamente trattato nel mio libro Sovranità o barbarie, permettendo all’ideologia (neo)liberista (che si pensava essere stata definitivamente sepolta negli anni Trenta-Quaranta, basata sulle virtù della liberalizzazione finanziaria e commerciale, della privatizzazione, della deregolamentazione economica, e più in generale sulla superiorità dei meccanismi di mercato rispetto all’interventismo statale) di imporsi nuovamente come paradigma dominante, con tutti i risultati che conosciamo in termini di aumento delle disuguaglianze, smantellamento dello Stato sociale, riemersione della disoccupazione di massa. Margaret Thatcher, l’idolo di Salvini, è stata, come è noto, una delle principali promotrici di questo “barbaro” modello, le cui contraddizioni sono esplose nella crisi finanziaria del 2007-9 e nella successiva “grande recessione”.
Non a caso la logica salviniana del “mercato che si autoregolamenta” è oggi screditata quasi quanto un secolo fa, soprattutto in seguito allo scoppio della pandemia, che ha reso fin troppo evidente la cruciale importanza dell’intervento statale per tenere a galla l’economia (tanto i lavoratori quanto le imprese) e proteggere la salute pubblica, trasformando infatti in “statalisti” anche i neoliberisti più sfegatati. Ma non Salvini, a quanto pare: un uomo sempre più fuori dalla storia, rimasto aggrappato a un’ideologia marcia e morente in cui non crede (quasi) più nessuno.
Cosa ancor più paradossale per un sedicente “sovranista”, Salvini difende indirettamente quel modello neoliberista che è incardinato nell’Unione europea e nei suoi famigerati trattati, che hanno dato vita a un quadro normativo e giuridico che “costituzionalizza” le logiche di mercato – piena libertà di movimento dei capitali, delle merci e delle persone; divieto di ogni intervento dei governi in materia economica «che possa pregiudicare il commercio tra Stati membri»; divieto degli aiuti di Stato alle industrie nazionali strategiche; impossibilità, de facto, in tempi “normali”, di perseguire politiche di gestione della domanda e di creazione di occupazione attraverso la spesa pubblica ecc. – e le rende così impermeabili al processo democratico, costringendo lo Stato stesso ad operare secondo una logica “conforme al mercato” e nella fattispecie a dipendere dai mercati finanziari per le sue necessità di finanziamento.
Eppure Salvini, con le sue imbarazzanti esternazioni, non si situa solo al di fuori della storia ma anche della nostra stessa Costituzione, che infatti si ispira a un modello di politica economica agli antipodi rispetto a quello liberista decantato dal leader leghista. Come nota Vladimiro Giacché, «la Costituzione italiana rappresenta una delle varianti più avanzate di quel modello di capitalismo regolato che si affermò nell’immediato dopoguerra in molti paesi». La necessità di un forte intervento pubblico nell’economia era condivisa dai tre principali partiti che concorsero alla stesura della nostra Costituzione: la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista Italiano. Nella variante italiana tale peculiare forma di capitalismo «si uni[va] al concetto dinamico di “democrazia progressiva” (già teorizzato dal comunista Eugenio Curiel), per il quale la democrazia ha il compito di promuovere l’eguaglianza e la libertà dei cittadini, visti come termini indissolubili». Come recita il comma secondo dell’art. 3, lo scopo della Repubblica è quello di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».
Un ruolo centrale a questo riguardo è giocato dall’art. 4, comma primo – secondo il quale «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto» –, che di fatto, notano Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro, «impone […] di indirizzare l’attività dei pubblici poteri verso l’attuazione di una politica di piena occupazione, il che logicamente richiede, in primis, l’adozione di piani e programmi di spesa pubblica capaci di mobilitare all’uopo le risorse pubbliche e private». Lo stesso vale per il diritto del lavoratore, previsto dall’art. 36, «a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Fu il socialista Lelio Basso, in sede costituente, a esplicitare il nesso tra realizzazione del diritto al lavoro e attuazione della democrazia costituzionale: «finché [gli articoli sul lavoro] non saranno veri, non sarà vero il resto; finché non sarà garantito a tutti il lavoro, non sarà garantita a tutti la libertà; finché non vi sarà sicurezza sociale, non vi sarà veramente democrazia politica; o noi realizzeremo interamente questa Costituzione, o noi non avremo realizzata la democrazia in Italia».
Tuttavia, le misure previste dalla Costituzione per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale alla realizzazione di una effettiva “democrazia progressiva” vanno ben al di là della semplice garanzia del diritto al lavoro. Secondo l’illuminante interpretazione offerta da Lunghini e Cavallaro, presupposto di tutta la carta costituzionale è la consapevolezza che in una società capitalistica l’esito del conflitto distributivo non dipende solo dalle condizioni tecniche della produzione e dai rapporti di forza tra lavoratori e capitalisti ma anche «da circostanze esterne alla sfera della distribuzione, come le variabili monetarie e finanziarie»:
Proprio per ciò, l’art. 3, secondo comma, della Costituzione si può considerare, da un lato, come presa d’atto che, in una società capitalistica, il “non intervento” dello Stato equivale a intervento a favore della classe dominante, cioè al riconoscimento che chi è più forte economicamente può dettare le condizioni di vita di chi è economicamente più debole, e dall’altro come manifestazione del convincimento che la struttura socioeconomica propria della società capitalistica debba essere superata in favore di un diverso modello di società, in cui i princìpi regolatori del modo di produzione capitalistico vengano temperati e affiancati da altri, in grado di sopperire alla cronica insufficienza di domanda effettiva che, a cagione dell’inemendabile incertezza che connota le decisioni d’investimento, è responsabile sia dell’andamento ciclico della produzione e dell’occupazione sia, più in generale, dell’attestarsi del livello dell’attività a una soglia di gran lunga inferiore al pieno impiego delle risorse disponibili e di una distribuzione iniqua della ricchezza e del reddito.
A tal fine l’art. 41, comma terzo, affida alla legge il compito di determinare «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Fermo restando che «l’iniziativa economica è libera» (art. 41, comma primo), la Costituzione prevede comunque la subordinazione di quest’ultima al raggiungimento di finalità condivise di pubblica utilità, affinché l’attività economica privata non si svolga «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41, comma secondo). Si spiegano così le disposizioni sull’orario di lavoro, le ferie obbligatorie, il riconoscimento dell’inviolabilità dell’attività sindacale e del diritto di sciopero, ecc. Ma anche quelle sulla regolamentazione del credito (art. 47) – che di fatto riconduce il sistema bancario a semplice «strumento per la gestione monetaria degli obiettivi della programmazione pubblica» – e, più in generale, della proprietà privata, non più «sacra, inviolabile, intangibile», come nello Statuto albertino: per l’art. 42, infatti, essa «è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi d’acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». L’art. 44, per esempio, prescrive di porre «obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata» e di fissare «limiti alla sua estensione» in modo da pervenire a un governo pubblico del territorio che consegua non solo «il razionale sfruttamento del suolo» ma anche lo stabilirsi di «equi rapporti sociali»; mentre l’art. 43 prevede che la legge possa «riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, a enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano carattere di preminente interesse generale» Tali disposizioni sono tutte riconducibili alla scelta di funzionalizzare la proprietà privata dei mezzi di produzione al conseguimento dell’utilità sociale.
Rientra infine nel disegno programmatorio complessivo della Costituzione il riconoscimento di tutta una serie di diritti sociali che il sistema capitalistico di per sé non è in grado di garantire, quali quelli previsti dagli artt. 31 (misure economiche e altre provvidenze per i giovani e le famiglie), 32 (che «tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», ponendo le basi per l’assistenza sanitaria pubblica e universale), 33-34 (che impongono che il diritto all’istruzione sia reso effettivo anche per quanti sono privi di mezzi per permetterselo), 38 (che garantisce il diritto «al mantenimento e all’assistenza sociale» a ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere e il diritto a «mezzi adeguati alle loro esigenze di vita» ai lavoratori che abbiano subìto infortuni o invalidata o disoccupazione involontaria o, ancora, abbiano raggiunto la soglia della vecchiaia).
È utile sottolineare come tale visione fosse pienamente condivisa anche dagli esponenti della Democrazia Cristiana. Come dichiarò Aldo Moro in sede di assemblea costituente: «È effettivamente insostenibile la concezione liberale in materia economica, in quanto vi è necessità di un controllo in funzione dell’ordinamento più completo dell’economia mondiale, anche e soprattutto per raggiungere il maggiore benessere possibile. Quando si dice controllo della economia, non si intende però che lo Stato debba essere gestore di tutte le attività economiche, ma ci si riferisce allo Stato nella complessità dei suoi poteri e quindi in gran parte allo Stato che non esclude le iniziative individuali, ma le coordina, le disciplina e le orienta. […] Non è possibile permettere che gli egoismi si affermino, ma è necessario porre la barriera dell’interesse collettivo come un orientamento e un controllo di carattere giuridico. Ed è nell’ambito di questo controllo che lo Stato permetterà delle iniziative individuali, finché rientrino nell’ordinamento generale, di svolgersi liberamente. E queste iniziative individuali sono consacrate con il riconoscimento della proprietà personale».
Che questa impostazione non sia incompatibile con l’esistenza di una libera impresa dinamica e fiorente lo dimostra la storia del nostro paese: è sotto gli occhi di tutti, infatti, come la stagione dei diritti e dell’economia mista, in Italia, sia stata associata a un’espansione economica senza precedenti del settore privato, e come, al contrario, l’abbattimento di quegli stessi diritti, nel corso dell’ultimo ventennio, in buona parte grazie all’impianto dell’Unione europea e dell’euro e all’affermarsi del dogma neoliberista tanto caro a Salvini, sia stato associato a una drammatica contrazione dell’apparato produttivo piccolo e medio, fondato sulla domanda interna, a vantaggio della grande industria multinazionale. Bisogna ripartire dalla consapevolezza per cui il tessuto produttivo di un paese può fiorire solo laddove lo Stato intervenga per creare un circolo economico virtuoso, sia attraverso la promozione della piena e buona occupazione e il sostegno alla domanda interna, sia attraverso partecipazioni dirette al tessuto produttivo.
Ne consegue che solo rigettando con forza la barbara religione neoliberista – e l’architettura europea che la sostiene –, e affidandoci alla “via maestra” indicataci dalla nostra Costituzione, possiamo sperare di tirare l’Italia fuori dal pantano della crisi e ricostruire il paese. Al contrario, il liberal-sovranismo di Salvini è il modo migliore per garantire che tutto cambi perché tutto rimanga come prima.