Riflessioni sul manifesto politico di Barca

di Francesco Valerio della Croce

barca primopianoRiceviamo e pubblichiamo come utile contributo alla discussione

In giorni di estrema complessità politica ed istituzionale, determinata dallo sgretolamento dei poli politici tradizionali che hanno sostenuto nell’ultimo anno il Governo Monti e dall’ ingresso a muso duro nella discussione pubblica del Movimento 5 Stelle, si affaccia un importante dibattito a sinistra: quello sul rimescolamento di quelle che, attualmente, sono le componenti principali del centrosinistra, cioè Partito Democratico e Sinistra Ecologia Libertà. Questo dibattito è stato apertamente inaugurato nelle settimane immediatamente successive al voto con interviste rilasciate da esponenti di SEL e dal suo presidente nazionale, Nichi Vendola, a più organi di stampa di “area” prossima, come “il manifesto” o “l’Unità”. Ma un qualche sentore premonitore dell’apertura di una simile discussione sarebbe potuto essere sicuramente avvertito nelle diverse dichiarazioni con cui Vendola ha inteso proiettare il proprio partito verso l’aggregazione del socialismo europeo, il PSE.

Una strada forse non scontata ma che sicuramente costituisce lo sbocco prevedibile della rottura consumatasi nel congresso del PRC di Chianciano del 2008. Proprio perché tale prospettiva è stata, da più d’un attento osservatore prevista ed oggi si assiste, grosso modo, ad un’accelerazione in tal senso ma non a significativi elementi di novità, non è necessario dilungarsi oltre sulla strada che va tracciandosi il progetto di SEL. 

Ciò che però merita, ad avviso di chi scrive, una più meditata analisi con serio approccio è il manifesto politico, presentato dal Ministro per la Coesione territoriale del Governo Monti, Fabrizio Barca, denominato “Un partito nuovo per il buon governo”.

Esso costituisce un elemento assai significativo allo stato delle dinamiche in atto a sinistra: infatti si evidenziano, da un lato, la delicata posizione del segretario del Pd, Pierluigi Bersani, che lo vede in una situazione equilibristica, dall’altro, la nuova offensiva renziana, rinvigorita dal risultato negativo dal suo ex competitor nelle primarie della coalizione “Italia bene comune”. Il manifesto di Barca può essere infatti collocato in antitesi alla via neoliberistica incarnata dalla rottamazione del sindaco di Firenze e contemporaneamente l’archiviazione della leadership di Bersani. Ciò che il documento di Barca si ripropone è gettare le fondamenta di un “nuovo partito della sinistra”, arrivando ad ammonire gli attuali commentatori sull’errore insito nella definizione del attuale Pd come partito “di centrosinistra”. Più correttamente, seconda Barca, il Pd va definito come partito “di sinistra” ed è naturale secondo Barca, come anche per Vendola, che l’edificazione di questo partito prenda le mosse dall’attuale binomio Pd-SEL.

Ma vi sono degli sviluppi del pensiero di questo manifesto che meritano particolare attenzione e rilievo anche per chi, come i comunisti, è impegnato in una fase di ridiscussione delle modalità organizzative e sui contenuti, nel tentativo di sciogliere i nodi difficili di un rinnovato connubio tra teoria e prassi nel contesto della crisi capitalistica.

In verità, merita sicuramente un elogio il fatto che questa proposta politica venga esposta sotto forma di manifesto, un documento lungo all’incirca 50 pagine, sufficientemente specifico nell’articolazione delle proposte (sebbene stessa cosa non si potrà affermare quanto ad organicità ed analisi). Troppo spesso, soprattutto a sinistra, il dibattito sulle idee, si è limitato ad un pensiero corto, tanto corto che persino la più striminzita pagina di giornale si è poi dimostrata dimora accettabile. L’intitolazione del documento redatto da Barca pone l’accento su due temi ricorrenti nel testo e centrali nella sua proposta: il “partito nuovo” e il “buon governo”.

Sul “partito nuovo”: Barca propone il superamento dell’attuale dicotomia Pd-Sel, nella prospettiva della costruzione di un partito non leggero, ma tantomeno da intendere come “partito scuola”, visto come un retaggio del Novecento, ma di un “partito palestra”, un partito che rivolga le limitatezze delle singole “conoscenze parziali” al confronto reciproco al fine di una crescita e di un avanzamento reciproco. Questa visione del partito, in una qualche misura, si ritroverà anche nella proposta di rapporto tra partito e società, ciò che Barca identifica con lo “sperimentalismo democratico”, ma sarà bene tornare sull’argomento dopo aver tratta più diffusamente dell’organizzazione del “partito nuovo”. Altro punto saliente di questo progetto sta nella dissociazione tra partito e Stato: nel riflettere sulla crisi del modello partitico odierna, il Ministro sostiene che un contributo significativo alla condizione attuale dell’organizzazione politica a sinistra sia stato dato dalla commistione tra partito e Stato, quasi in un rapporto funzionale di “legittimazione dei partiti da parte dello Stato”, che trova la sua esemplificazione nella totale dipendenza dei partiti della sinistra dall’elargizione del finanziamento pubblico. Barca, con una critica sferzante nei confronti dei partiti Stato-centrici, propone una scissione radicale, un’autonomia del soggetto partitico nei confronti dello Stato, del suo apparato e del suo finanziamento, sostenendo una riduzione dello stesso e il “ritorno” ad un sostegno diretto e più sentito da parte dei militanti, anche in termini economici quindi. Un partito che ripropone una netta distinzione tra “funzionari”, “quadri”, “eletti” e “militanti”.

In breve, l’esigenza che muove queste riflessioni sulla forma partito, sono più che sentite anche da noi comunisti: si tratta, invero, di un tema che almeno 8 milioni circa di elettori hanno posto all’ordine del giorno col loro voto al Movimento 5 stelle. L’approccio che lo stesso Barca utilizza sull’argomento può essere una base utile di riflessione: una critica alla democrazia virtual-organizzata e la necessità di organizzazione complessa, articolata e immersa nella società. E’ chiaro, però, che la prospettiva per i comunisti appare differente: è quella del ritorno nei luoghi del conflitto, luoghi di lavoro di studio, della stessa predilezione dei comunisti d’Europa e del mondo per un’organizzazione più vicina all’organizzazione produttiva, sulla scia della lezione lucacksiana che vede il lavoro come “ontologia dell’essere sociale”. Lo stesso “partito palestra” potrebbe incorrere nei tentativi sviluppati, nel periodo post-Bolognina, di “alleggerimento” di una forma di partito “pesante” ed articolata. Ai comunisti dovrebbe oggi interessare una discussione che si basi sul come rimettere al centro del potere decisionale gli iscritti, i militanti che, pur in un momento di flessione e difficoltà, sono prevalentemente quadri direttivi dispiegati sul territorio, privilegiando una strategia di formazione dei compagni negli ambiti salienti su cui si svolge lo scontro politico e l’iniziativa incisiva sia nei luoghi di conflitto che nelle organizzazioni di massa.

Sul “buon governo”, di contro, è possibile sviluppare una discussione più articolata su alcuni contenuti del manifesto: paradossalmente, non può non saltare agli occhi, l’uso di un’espressione propria del lessico berlusconiano per la definizione di una prospettiva di governo, come, tra l’altro, è abbastanza rilevante l’autodefinirsi più volte “amministratore” piuttosto che politico. Premesso questo, indagando in maniera più approfondita, tra i punti programmatici che spiccano vi è la riforma dello Stato arcaico, un apparato vecchio, burocratico e ricco di pastoie. Si noterà, e non è sbagliato definirlo un tratto interessante, come molta parte contenutistica del manifesto risenta di quanto detto a proposito della forma del partito, quasi vi sia stato un filtraggio della forma sul contenuto. Alla critica infatti della commistione tra partiti Stato-centrici e Stato-arcaico segue l’idea di riforma dello Stato, con un motivo che in realtà ricorda esperienza intraprese all’inizio degli anni Novanta nell’ambito delle sinistre europee. Seppur, infatti, sia forte la critica programmatica allo “Stato minimo”, cioè all’impronta liberista economica che ha portato la “sinistra”, come sostiene lo stesso Barca, a spostarsi sempre più al “centro” tanto da fondersi in un ibrido che fino a pochi anno orsono era l’eden del “centrosinistra”, lo è altrettanto quella nei confronti della tradizionale socialdemocrazia, incapace, ad avviso dell’autore, di cogliere le novità e le richieste che un sistema di tutele, welfare e benessere, nonostante tutto definite come conquiste della socialdemocrazia nel Novecento, avevano generato e che necessitano d’essere soddisfatte.

Sull’Europa, è possibile leggere una critica alle politiche dell’austerity (per altro compiuta per mezzo di una citazione di Enrico Berlinguer) non troppo, però, difforme e avanzata alla posizione assunta in campagna elettorale dal Pd , sicuramente ambigua, se non insufficiente. Non si può infatti ignorare che chi ha composto il manifesto in oggetto, sia stato membro di un Governo (a cui viene riconosciuto, dall’autore, il merito di aver comunque evitato la crisi finanziaria) distinto per il carattere di mero esecutore dei dettami della Troika. Non si vuole però in nessun modo rendere questo un elemento pregiudiziale nei confronti di tale proposta politica che, però, rivela un’ ambiguità abbastanza esplicita.

Tanto come sullo Stato, anche l’approccio che il nuovo partito si propone di assumere con la società e di elevare a metodo di governo risulta influenzato dalla forma di organizzazione data: se si afferma l’esigenza del partito palestra che alimenta il dibattito tra conoscenze parziali per la realizzazione di una “diffusa mobilitazione cognitiva”, questo metodo viene più universalmente proiettato e definito come “sperimentalismo democratico”, pratica intesa come promozione “del confronto fra conoscenze parziali in ogni luogo”. Tra l’altro, una certa attenzione meriterebbe in susseguirsi frequente dell’espressione “conoscenze parziali”: da un’analisi forse non troppo approfondita, ma sicuramente non congetturale o pregiudiziale, risalta l’acquisizione di questa parzialità negli individui e non il tema del superamento della stessa per mezzo di una nuova articolazione sociale (che per i comunisti parte dalla critica del meccanicismo, dell’alienazione e dei modi di produzione).

ll manifesto, inoltre, nell’affrontare il tema della relazione tra partito e società, non ignora nemmeno il tema del conflitto sociale. Nel pensiero ivi espresso si fa riferimento all’esigenza dello stesso (un passo avanti significativo rispetto all’archiviazione del tema dello scontro di classe come retaggio del Novecente, di veltroniana memoria) ma immediatamente affiancato da un perentorio “controllato”. Quest’ultimo aggettivo pone più di una questione: che cosa si intende con questa specifica? Forse, che il nascente partito della sinistra dovrebbe limitarsi a lambire il conflitto e non esserne parte integrante? Che all’occorrenza le “tensioni sociali” dovrebbero dileguarsi in nome di più alti interessi (sembrerebbe di risentire l’eco dell’ormai notissimo “ce lo chiede l’Europa” accompagnare questo interrogativo)? Che il ruolo del sindacato debba mantenere un basso profilo, cioè essere circoscritto nell’ambito della “normalità concertativa”?

Per trarre un bilancio: i comunisti, al di là della proposta concreta di questo nuovo partito (sarebbe infatti illusorio credere che coloro che per più di un ventennio hanno propugnato la fine del comunismo e l’adattamento al capitalismo oggi ritornino sui propri passi), devono guardare con favore ad una risoluzione da sinistra della contraddizione dell’esperienza del Partito Democratico. Ciò evidentemente non significa dare per scontato che questa nuova vicenda politica possa avere esiti differenti rispetto alle nuove vie blairiane o zapateriane, tantomeno però sarebbe corretto pregiudizialmente ed unilateralmente peccare di superbia e di stupidità, sminuendo una novità che potrebbe avere risvolti importanti nelle relazioni e nelle dinamiche sociali e politiche, in primo luogo, nella nostra classe di riferimento. Se infatti non si vuol svoltare a destra (critica al liberismo dello “Stato minimo”) e non si vuol proseguire sulla strada già battuta (esperienza ventennale delle terze vie socialdemocratiche) è evidente che c’è un’unica direzione in cui rivolgersi: a sinistra. Il tempo ci dirà se chi si accinge a guidare questo percorso dimostrerà capacità di orientamento.