di Sandro Scardigli, Segreteria Provinciale PdCI Firenze
Condivido l’affermazione del segretario nazionale del nostro Partito, compagno Oliviero Diliberto, fatta ieri mattina nella trasmissione “Agorà”, su Rai3: non è affatto detto che Berlusconi sia politicamente finito. Se fossimo andati immediatamente alle Elezioni è assai probabile che il centro-sinistra le avrebbe vinte, me nell’anno e mezzo che ci separa dalla fine di questa legislatura il Presidente del Consiglio uscente farà di tutto per risalire la china e non è scritto da nessuna parte che non ci riesca.
La crisi tende a peggiorare ed il nuovo Governo potrebbe venire “costretto” dagli organismi finanziari internazionali (Bce, Fmi, ecc.) a prendere misure ancora più impopolari di quelle già richieste. Di fronte a uno scenario simile, con un gruppo dirigente del PD che presumibilmente farebbe quadrato in difesa di Monti, Berlusconi e il PdL potrebbero “staccare la spina” ed uscire dalla maggioranza parlamentare, adottando parole d’ordine populiste e ritrovando una stretta alleanza politica con la Lega Nord. Del resto è di questi giorni l’attacco durissimo (a parole) degli esponenti della destra berlusconiana contro i poteri forti della finanza internazionale. Non va esclusa l’ipotesi che, di fronte ad una eventuale crisi di popolarità del Governo Monti, Silvio Berlusconi vesta i panni di Robin Hood e utilizzi i suoi megafoni mediatici per ritrovare un consenso popolare oggi ai minimi storici.
Se invece fossimo andati subito ad Elezioni Politiche anticipate è probabile che la sconfitta per PDL e Lega sarebbe stata cocente e il tramonto del Caimano sarebbe stato suggellato dalla chiarissima volontà popolare. Che fare adesso? Prima di tutto dobbiamo avere ben chiaro che il Governo Monti non si “limiterà” ad attuare i dettami contenuti nella lettera inviata da Trichet al Governo uscente, ma cercherà anche di chiudere quella fase di instabilità e conflitto nei rapporti fra le varie istituzioni dello Stato che ha caratterizzato i 18 anni della cosiddetta Seconda Repubblica. Il Governo dei “tecnici” favorirà la scomposizione e la ricomposizione delle forze politiche non più nella logica del pro o contro Berlusconi, ma in quella di come cercare di assicurare la governabilità capitalistica ridisegnando un quadro istituzionale adatto allo scopo (riforma elettorale, rapporti tra Parlamento e Governo, rapporti tra Governo e Magistratura, ecc.). Più in generale si cercherà di instaurare un nuovo equilibrio tra le forze dirigenti storiche dello Stato italiano (capitale industriale e finanziario, ceto politico, massoneria, Vaticano, ecc.) e tra queste e la cupola finanziaria europea e internazionale. I tentativi di ricostruzione di una sorta di nuova Democrazia Cristiana (un partito di ispirazione cattolica e dalla politica liberale che favorisca la governabilità del sistema economico-sociale e, nello stesso tempo, cerchi di costruire un’egemonia culturale fondata su una scala valoriale apparentemente diversa dal berlusconismo) sono un tassello di questo mosaico.
Molti pezzi del blocco politico-sociale che hanno finora sostenuto Berlusconi saranno sempre di più parte integrante di questo quadro di transizione ad una “Terza Repubblica”. Naturalmente se l’operazione avrà successo. Ma non è affatto detto che sia così. L’instabilità internazionale e la crisi mondiale ed europea, che tende a peggiorare fino a rimettere in discussione l’esistenza stessa dell’Euro, potrebbe portare il nuovo Governo ad annaspare, navigare a vista, dividersi, adottare ulteriori nuove misure largamente impopolari e non utili al raggiungimento dei loro stessi scopi. In un quadro di questo tipo Berlusconi ed i politici che continueranno a sostenerlo potrebbero decidere un’operazione di rilancio in grande stile, togliendo la fiducia a Monti e proponendo un ennesimo “nuovo miracolo italiano”. A quel punto, anche se sopravvivesse per il rotto della cuffia, il Governo diverrebbe agli occhi di tutti lo screditato esecutivo del PD e del Terzo Polo, mentre Berlusconi tornerebbe ad apparire come “l’alternativa”. La situazione è quindi assolutamente in movimento ed è difficile pensare ad una stabilizzazione italiana in un contesto di crescente instabilità internazionale, economica, finanziaria e politico-militare.
Partendo da questo quadro di riferimento, penso che uno dei compiti basilari e urgenti di noi comunisti e comuniste, sia quello di riuscire ad essere di nuovo percepiti da una minoranza consistente del lavoro dipendente ed eterodiretto come portatori di un’istanza generale di cambiamento economico, sociale e politico generale credibile e, in prospettiva, rivoluzionaria. In parole povere: per dare continuazione e rilanciare la tradizione, l’elaborazione e le lotte del comunismo italiano è necessario che la parte più cosciente o almeno recettiva del mondo del lavoro, dello studio e dei movimenti sociali ci veda come portatori di un’istanza rivoluzionaria di cambiamento possibile e concretamente perseguibile, da attuare nella misura, nei modi e nei tempi consentiti dai rapporti di forza reali.
Occorre quindi dare gambe (che camminino) a questa dichiarazione di buone intenzioni. Qual è stato ed è uno dei principali obiettivi perseguiti dal blocco storico di potere italiano da trent’anni a questa parte? Eliminare completamente quella che fu la cosiddetta “anomalia italiana” e soprattutto la presenza di una classe operaia (nel senso ampio del termine) forte, cosciente di sè e ben organizzata sindacalmente e politicamente. Il detto obiettivo è stato in gran parte raggiunto. A partire dalla seconda metà degli anni ’70 sono state portate avanti dal padronato sistematiche e profonde ristrutturazioni aziendali che prima hanno stroncato la conflittualità di fabbrica e poi hanno portato alla chiusura della maggior parte delle grandi aziende, alla frammentazione del tessuto produttivo con la creazione di piccole e medie ditte eterodirette, alla drastica riduzione dei diritti contrattuali e dell’agibilità politico-sindacale nel luogo di lavoro, fino ad arrivare (a partire dagli anni Novanta) alla precarizzazione dei contratti. La precarietà del rapporto di lavoro è diventata la regola del mercato delle braccia e delle menti. Fino a qualche anno fa i precari venivano utilizzati come “esercito industriale di riserva”, utile per ricattare i “garantiti” quando questi avanzavano richieste di miglioramento delle loro condizioni che i padroni non volevano accettare. Oggi è il mondo del lavoro nel suo complesso a vivere sotto il ricatto della disoccupazione e per larghi strati di forza-lavoro disponibile il passaggio a intermittenza tra una condizione di occupazione e una di non occupazione è diventata la regola, la vita quotidiana. Il lavoro dipendente non percepisce più sè stesso come classe operaia, classe “in sè e per sè”, dotata di una sua etica e scala di valori. Siamo passati dalla coscienza di classe (che comunque non è mai stata largamente maggioritaria nemmeno negli anni ’70) a, nella migliore delle ipotesi, un istinto di classe, attraversato da mille contraddizioni e infarcito da una cultura e un senso comune che la classe dominante ha sempre cercato di inculcare ai suoi subalterni: “noi siamo ricchi perché ce lo meritiamo, tu sei povero perchè non sei stato abbastanza abile ad arricchirti e quindi ti meriti la tua condizione. Ti concediamo di ammirarci ed invidiarci, di sperare in un colpo di fortuna che ti cambi la vita e, se sei una bella ragazza, di valorizzare il capitale che la natura ti ha concesso”. Sul piano politico lo scioglimento del Partito Comunista Italiano nel 1991 ed il passaggio alla Seconda Repubblica (con l’introduzione del sistema elettorale maggioritario e la conseguente fine dei partiti di massa) hanno posto fine all’autonomia politica del movimento operaio in Italia, togliendo alle istituzioni democratiche costituzionali qualsiasi ruolo di rappresentanza politica del conflitto sociale e facendole tornare ad essere assemblee di notabili e intrallazzatori come nell’Ottocento.
Cosa resta quindi del grande trentennio post-bellico che vide larghe masse di italiani e italiane fare irruzione nella vita politica e sociale del paese? Soprattutto un sindacato di classe e di massa che conta quasi sei milioni di iscritti: la Cgil. Nonostante gli attacchi forsennati che subisce (anche da buona parte del PD), nonostante il rischio di snaturamento rappresentato dalla politica di “concertazione” degli anni Novanta, questa organizzazione continua a crescere e viene sempre più percepita come l’ultimo efficace strumento di difesa delle proprie condizioni di vita da parte di lavoratori e lavoratrici. Dietro parole d’ordine come unità con Cisl e Uil e “sindacato riformista” c’è in realtà l’intento di trasformare la Cgil in portavoce aziendale delle esigenze padronali e in mediatrice tra direzione aziendale e lavoratore, privandola di qualsiasi ruolo conflittuale e di rappresentanza delle istanze aziendali, categoriali e generali del mondo del lavoro. Per ora la Cgil resiste ed i suoi scioperi e manifestazioni riescono a coagulare settori sociali (in primo luogo studenteschi) anch’essi in lotta per il riconoscimento dei loro diritti calpestati. È prioritario per noi comunisti e per la sinistra di classe tutta difendere l’autonomia e la rappresentatività della Cgil cercando anche di dare alle sue istanze una rappresentanza politica. Intendo dire che dovremmo, contemporaneamente, portare nelle assemblee elettive dove siamo presenti i contenuti delle vertenze più importanti e, nello stesso tempo, elaborare obiettivi politici più generali che trascendano (ma contengano) le vertenze stesse: i comunisti devono stare nelle lotte sindacali e dare a queste lotte una prospettiva politica.
La lotta sindacale generale fa naturalmente da traino e contribuisce ad amalgamare le lotte dei vari movimenti sociali e per i diritti civili. Questo è un fatto facilmente riscontrabile e non una semplice opinione. Ciò non significa che noi comunisti dobbiamo sottovalutare l’importanza del lavoro politico nei movimenti, al contrario. Spesso ci lamentiamo perchè le nostre bandiere (assieme a quelle di altri partiti politici) non sono ben viste nelle manifestazioni o perchè molti movimenti tendono a prendere esplicitamente le distanze dalla sinistra partitica. Il problema esiste ma è in parte causato anche dal nostro atteggiamento. I nostri militanti sono presenti in molti movimenti ma non sono riconosciuti come tali, in quanto manca una linea di condotta decisa dal Partito che selezioni i movimenti più importanti e delinei un “modus operandi” dei compagni e delle compagne che potrebbe contribuire a rendere più efficace la loro azione e a farli stimare e seguire nei movimenti per la loro coerenza e affidabilità, contribuendo così al radicamento del Partito e all’efficacia della sua azione. La linea che prevale è invece quella di fare il comunicato stampa di solidarietà con questo o quel movimento o di entrare in un corteo con le bandiere quando nessuno ti aveva mai visto prima. Queste cose spesso sono inevitabili (non abbiamo la forza per stare dappertutto) ma è chiaro che se in una lotta ci sei sempre stato e la gente ha fiducia in te, sarà più facile che veda nella tua bandiera o volantino un esempio di coerenza e non una pratica di ingerenza.
Si tratta di attuare le enunciazioni contenute nel nostro documento congressuale e nel bel libro sulla ricostruzione del Partito Comunista: nei luoghi di lavoro, studio, svago, vita associata dove nostri compagni e compagne sono presenti, questi devono coordinarsi tra loro (anche se inizialmente sono due o tre) e con il Partito in modo da rappresentare la parte più avanzata e coerente della realtà in cui operano. Noi dobbiamo essere quelli che propongono, portano avanti, incoraggiano, quelli di cui ci si può sempre fidare. Altrimenti i nostri discorsi, a qualsiasi livello, resteranno aria fritta o poco più. Dobbiamo investire le nostre energie migliori nel radicamento del Partito nel mondo del lavoro e nel sociale, ponendo (fra l’altro) fine a quella pratica suicida che ci porta a utilizzare i compagni e le compagne migliori e più attivi/e quasi esclusivamente nel lavoro interno (riunioni che servono solo a convocare altre riunioni per intenderci), sottraendoli all’ambiente di lavoro, studio o svago di cui fanno parte e nel quale potrebbero dare il meglio di sè come comunisti e comuniste.
Se riusciremo a indirizzare il nostro modo di operare in questo senso potremo cercare di svolgere un ruolo non solo di testimonianza o propaganda. Il ritorno del Partito dei Comunisti Italiani e della Federazione della Sinistra in Parlamento deve poggiare su basi solide di questo tipo altrimenti, nella migliore delle ipotesi, resteremo un Partito d’opinione che parla di radicamento sociale.
Come ho scritto nella prima parte di questo mio intervento, ritengo che abbiamo di fronte una fase che vedrà la scomposizione e ricomposizione delle forze politiche attorno a nuovi equilibri. Anche il PD ed il suo corpo sociale ne risentiranno. Portare avanti un lavoro sistematico di radicamento del Partito nel reale quotidiano ci darà radici meno deboli sulle quali poggiare per portare avanti la costruzione di una sinistra unita e di un fronte progressista, costruzione che presuppone in primo luogo la difesa del carattere di classe e generale di rappresentanza della Cgil, terreno possibile di coagulo tra noi, la sinistra di classe e quella parte del PD che continua a percepire sè stessa come di sinistra e legata ai valori della Costituzione, non a quelli della Trilaterale, della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale.
Sandro Scardigli (Segretario della Sezione di Empoli “Abdon Mori” del Pdci e componente della Segreteria Provinciale fiorentina del Pdci)