Riceviamo e pubblichiamo
di Lamberto Lombardi
Alla fine della lunghissima mareggiata cominciata nel 1990 il panorama della sinistra oggi risulta completamente cambiato e i pochi eredi del marxismo italiano appaiono frantumati e marginali.
Con la mente al passato, frequente è l’evocazione di un’unità perduta e la critica a una frammentazione odierna apparentemente incomprensibile. E continuano i richiami ‘sensati’, provenienti da più parti, volti a valorizzare i rapporti con i ‘compagni di strada’.
E’ giunta l’ora di cominciare un approfondimento e, se possibile, a procedere con dei chiarimenti.
Cominciamo col dire che la passata unità non è mai esistita, esistevano tante sigle a sinistra e tante sigle comuniste alla sinistra stessa del PCI, tanto che il richiamo unitario già allora esisteva e veniva rivolto alla sinistra quanto ai comunisti. Quel che si ricorda come unità è piuttosto la forza di un Partito operaio al 30% del consenso elettorale quando l’affluenza media al voto era del 80-90%, forza in grado di incidere sugli equilibri sociali e di far da traino a tutte quelle forze che, a varie distanze, lo accompagnavano.Facendo fede a questi numeri quello che distingue la frammentazione di oggi da quella di allora è piuttosto l’ assenza di una linea politica prevalente e credibile, il che semmai individua nei gruppi dirigenti attuali una inadeguata elaborazione prima ancora che, riduttivamente, problemi di ‘individualismo’.
Infatti riteniamo che l’attuale, e additata come ridicola, polverizzazione di oggi risponda comunque a precise identità politiche che come tali bisogna assumere la fatica di indagare. Diversamente, in mancanza di una sintesi critica, ogni richiamo ‘unitario’ ci riporta immancabilmente sulla desolata spiaggia e ai suoi ossi di seppia.
Partiamo col considerare l’ovvio, ovvero come, a differenza di quarant’anni fa, il marxismo non sia più di moda mentre il vuoto che ha lasciato si fa sempre più fragoroso e chiama a delle risposte coerenti con una realtà chiaramente classista.
Ecco il primo interrogativo: questo orizzonte perduto dipende solo da una sconfitta storica riassumibile nella caduta del Muro o c’è dell’altro? Per quale motivo non risultano difesi nemmeno eventi giganteschi ed epocali come la Rivoluzione di Ottobre? Perchè una gran parte dei militanti di svariate formazioni della sinistra radicale italiana passano la metà del tempo a chiarire che non sono comunisti e l’altra metà a dire che sono comunisti sì ma ‘dentro’, il tutto a seconda degli interlocutori? Si rifugiano cioè in una dimensione mistica proprio negli anni in cui si fa più evidente il vuoto lasciato dalla pratica di una politica di classe. Non c’entra solo, figlia della sconfitta, la fragilità individuale e collettiva di fronte alle mode ed alle parole d’ordine imperanti degli avversari. Quando si arriva ad abbracciare con Hilary Clinton il ‘politically correct’, che qualcuno definisce il modo di sinistra per essere di destra, si tagliano i ponti con il diritto collettivo per santificare solo quello individuale con il correlato disposto di una visone del mondo neocoloniale che non si indaga ma che incide assai.
– Il riferimento si ricollega, nello specifico delle formazioni date, oltre che ad una vasta area trasversale del benpensantismo che ama darsi la patente ‘di sinistra’ (perfino in un PD che è ormai ascrivibile ad un area certamente non marxista che sfiora il centro-destra), alla sola Sinistra Italiana chiaramente approdata ad altra sponda, verso un orizzonte socialdemocratico che, se possibile, è ancora più marginale dei comunisti e riconosce per sè come unico approdo utile e unica pratica il livello di rappresentazione istituzionale, con tutto il collegato di realistiche mediazioni.
– Ma nel complesso è evidente per tanti altri l’atteggiamento millenaristico, simil religioso, per cui il rivoluzionario è bello fintantochè lotta e perde, mentre se lotta e prende il potere diventa in automatico stalinista e allora ribolle la coscienza del puro e niente risulta giusto e giustificabile. Si lotta per una catarsi finale mica per sporcarsi le mani (come se così restassero davvero pulite). Come direbbe Gesù Cristo ‘il mio regno non è di questo mondo’. E’ un atteggiamento che viene da lontano, che avrebbe dovuto trovare riconoscimento definitivo nel crollo dell’Unione Sovietica ma che nella pratica oggi, misteriosamente, recita un ruolo ancora più marginale che trent’anni fa. Perchè?
E’ un atteggiamento col quale, in definitiva, non solo non si riesce a difendere la Rivoluzione d’Ottobre ma, a ruota, nemmeno la vittoria della Seconda Guerra Mondiale. Non parliamo poi della Cina, del Vietnam, di Cuba, del Venezuela o del Mozambico. E’ un bel problema per un ‘sinistro’ se gli unici vincitori immacolati risultano gli USA o l’Impero Britannico e se gli operai scompaiono di fatto dai libri di Storia
Si va delineando così una categoria non catalogata fino ad oggi ma di cui dovremmo tenere conto perchè culturalmente egemone negli ultimi decenni ben al di là del peso reale assunto in termini di voti o di militanti: quella dei comunisti anticomunisti, cioè di coloro che si definiscono comunisti ma condividono meno del 3% di quella storia e meno del 3% di quella geografia. Conosciamo dei liberali che almeno al 10% ci arrivano senza per questo dover cambiare né la definizione di sé né la propria collocazione politica.
Ovvio che questa loro caratterizzazione culturale imponga agli apostati di imbastire, in via preliminare, una pratica di denigrazione contro la quasi totalità della storia e della politica del movimento operaio prima di arrivare a prefigurare una svolta vera, quella rappresentata cioè da loro stessi che sicuramente faranno meglio di miliardi di altri. Appartengono a pieno titolo a questa categoria formazioni come Lotta Comunista, Sinistra Anticapitalista, il PCML e altri, oltre che minoranze sparse in altre formazioni. Sembra scontato rilevare come questo tipo di loro attività si esplichi soprattutto nel radicare il discredito nei confronti del marxismo applicato salvo poi costruire un fideismo di gruppi ristretti rivolto a ristrette èlite seguaci del marxismo puramente teorico. Gli ‘amanti della frase rivoluzionaria’ come direbbe Lenin. E si ritorna al millenarismo. Senza considerare come la loro attività precipua sia, ovviamente a questo punto, indistinguibile e totalmente in linea con le guide del liberalismo su un’infinità di argomenti particolarmente di politica internazionale.
Fermo restando il diritto di ognuno a pensare ed organizzarsi come gli pare, ci sembra motivato indicare la loro assenza futura come condizione fondamentale e preliminare per la solidità di una qualsiasi aggregazione che si voglia definire comunista o marxista.
– A un livello intermedio rispetto ad un anticomunismo globale si pone la formazione del PC di Marco Rizzo. Questa formazione, se pure ha il merito di incentrarsi su capisaldi storici altrove ignorati (non vi è traccia alcuna di antistalinismo, né di rifiuto del potere e si agisce per linee politiche piuttosto che per fisionomie politiche) pure si vuole qualificare falcidiando il gruppo storico del comunismo italiano ed internazionale del dopoguerra con l’accusa di tradimento, così dicasi per il PC Cinese. Si tratta di posizioni il cui anticomunismo assume una dimensione meramente tribale, adottato anche in osservanza ad alleanze internazionali che lo impongono (KKE greco) ma che si mettono di traverso in forma preliminare a qualsiasi altra analisi collettiva si rendesse necessaria poi. Sarà responso dei posteri verificare l’attenuarsi o meno di un settarismo che funziona quando devi tenere la disciplina ma che si nega una efficace dialettica interna ed esterna, dialettica che ritorna utile quando devi affrontare la realtà.
– La presa di distanza dall’orrore rappresentato dal potere si rappresenta anche nel discredito attribuito alla forma Partito, forma classica di organizzazione deputata a quel fine nelle classi operaie. Tralasciamo qui di considerare approfonditamente i derivati reali di questa posizione anti burocratica in partenza ma generatrice di tante piccole dittature delle èlite.
Questa presa di distanza si esprime, nell’immediato, in due modi: nel rifiuto primario del Partito, e ne sono tipica rappresentazione i movimenti comunisti, e pensiamo a Potere al Popolo, e nel rifiuto del centralismo democratico come metodo di organizzazione interna al Partito stesso e non possiamo non considerare capofila in questa categoria Rifondazione Comunista.
L’ambiziosa volontà di Potere al Popolo di darsi una dimensione nazionale non ha purtroppo tenuto conto degli sperimentati limiti del movimentismo di matrice marxista che mai è riuscito ad andare oltre la dimensione ristretta di quartiere, di città o altro limitato ambito territoriale. Particolarmente se, e questo è un apparente paradosso, alla sua base si riconosce una attività concreta, sperimentata ed efficace che però , in quanto tale, risulta ed è risultata difficilmente trapiantabile. E subito si sono scontati i limiti di una formazione che a priori aveva escluso come inutili orpelli burocratici tutti i passaggi che segnano l’esistenza di un partito: tessere, congressi, organizzazione del dibattito interno che stia alla base della formazione di gruppi dirigenti, linee politiche.
Parlando di Rifondazione l’analisi si presenta più complessa per il contesto proibitivo in cui era venuta a formarsi dopo la caduta del Muro, avendo l’esplicita e duplice missione di rielaborare nella sua totalità un soggetto politico di classe in presenza di precedenti fallimenti e di essere al contempo l’erede del glorioso passato. Da cui il nome, da cui la rinuncia al centralismo democratico dovendo esplicitamente fare tesoro di voci diverse, magari di quelle stesse ritenute eretiche fino al giorno prima.
Ma il contesto interno che così veniva a delinearsi si è dimostrato assolutamente impraticabile.
Le premesse storiche e l’agire in coerenza con una base culturale postmoderna impediva di gerarchizzare in alcun modo il dibattito e gli argomenti, non consentiva di distinguere le linee di riflessione utili da quelle distruttive, come l’entrismo feroce che esplicitamente puntava, da parte di alcune componenti, alla distruzione di quella compagine di cui facevano parte per giungere alla catarsi politica ritenuta necessaria.
Tutto ciò mentre il marxismo occidentale non forniva altri spunti che quelli, più che autocritici autofobici (come direbbe Losurdo), alla Negri e Hardt, alla Zizek, alla Habermas e, più indietro, alla Arendt.
Si è giunti in breve all’ossificazione delle diverse posizioni riuscendo, nell’ossessione antiautoritaria, a sperimentare in Bertinotti l’alternativa narcisistica all’autoritarismo stesso, alternativa che certo non se ne è dimostrata migliore e che ha sancito definitivamente l’abisso etico che ci separava dal passato di cui pur si voleva essere eredi. E questa, del devastante portato del narcisismo assoluto in un partito di lavoratori, rimane forse la lezione negativa più alta che quel partito ci ha lasciato. Lezione preludio all’esplosione in tanti rivoli politici che si autonomizzavano. Perchè non trovando la via per cui una rifondazione approdasse ad una realtà nuova ci si ossificava in una rifondazione permanente, una rifondazione per la rifondazione, che si caratterizza da un lato con l’attaccamento a quel partito, ultimo residuo ormai solo formale dell’antica disciplina di partito, e dall’altro con l’autorappresentazione afinalistica di culture diverse paghe e responsabili solo della loro diversità reciproca. Inutile cercare lì una riflessione che giunga ad una sintesi condivisa e alla elaborazione di una singola linea politica che valga più di un mese. Le consecutive scissioni assumevano così semplicemente la forma di presa d’atto di gruppi dirigenti interni che su quella strada non esisteva sbocco attivandosi così in autonomia nella ricerca di uno spazio altro in cui sopravvivere. Le dinamiche che si attivarono, completamente rinchiuse all’interno dei ruoli dirigenziali e da essi finalizzate, rappresentano forse il punto più basso della parabola intrapresa dalle sinistre dopo il 1990 se non per la fondamentale, ma né esplicita né ancora consapevole, presa d’atto che quel tipo di strada non era percorribile.
– Tra spasmi ed entusiasmi prende il via nel 2016 l’esperienza del PCI, partito di cui faccio parte, erede del PdCI e di una sua sintesi con altri frammenti che per primi si sono interrogati sulla opportunità di continuare o non piuttosto di lasciar perdere.
E’ questo il primo ambito che, per motivi anche contingenti, si misura apertamente con l’entità della sconfitta storica arrivando, con tutte le fatiche del caso, ad individuarne alcuni snodi centrali.
Come l’assunzione della completezza della storia del movimento operaio ed il rispetto delle sue attuali rappresentazioni politiche alle varie latitudini del mondo, che diviene l’asserzione di un metodo di relazione e di dialettica destinato ad aprire gli spazi interni ed esterni e diviene garanzia di praticabilità democratica. Così come il centralismo democratico. Non sono questioni destinate a restare confinate sul piano metodologico e le ricadute sul piano dei contenuti e sul piano pratico risultano via via più evidenti: si può ritornare a rivendicare la storia comunista come la parte migliore degli ultimi due secoli, e si può ricominciare a guardare il mondo come se non fosse una tremenda consecutio di vittorie del capitale individuando punti di ripartenza, compagni e avversari, classi da riconoscere, esperienze di cui essere orgogliosi, tornando finalmente a confrontarsi sul che fare.
Ma, anche qui, il costo da pagare è stato molto alto e i frutti di un ennesimo ricominciamento saranno lenti a venire. La frattura con la pratica abituale determinatasi in questi passaggi è stata sottovalutata in primis al nostro interno. Molti militanti e quadri hanno assunto i cambiamenti in modo passivo, quasi burocratico, come se si trattasse solo di una buona riverniciatura che preludesse al continuare le pratiche precedenti. La priorità conferita alla linea politica ha invece inciso in modo determinante nel mutare le modalità di relazione con le altre forze: il giudizio politico che si assumeva come prioritario diventava ostacolo insormontabile per accomodamenti tattici con forze ritenute estranee e con i loro sostenitori, mentre al contempo i cartelli elettorali, con i loro dictat antipartito o anticomunisti e con lo sfumare di qualsiasi linea politica al loro interno a favore dei bei programmi, diventavano impraticabili. Paradossalmente per il piccolo Partito, nato su di una base culturale più ampia ed inclusiva di qualsiasi altro, si avanza l’ipotesi di settarismo. La frattura determinatasi con le pratiche invalse nei vent’anni precedenti ha prodotto spaesamento e distacco anche se i dati elettorali, disastrosi per tanti interlocutori contigui, ne confortano la giustezza di fondo. E non sarebbe cosa da poco in questo panorama.
– In ultimo ci compete una valutazione non approssimativa sul Movimento a 5 Stelle. La caratterizzazione che questo rilevante movimento si è data dalla sua nascita, né di destra né di sinistra, non partito ecc. è stata con ogni evidenza la base sulla quale il Sistema lo ha accolto con grande favore nominandolo di fatto come campione delle opposizioni. Ed è anche il motivo che gli ha consentito di affrontare questioni dimenticate di grande rilievo sociale (pensioni, povertà, lavoro) senza dover sopportare gli strali preconcetti dei cosiddetti poteri forti. Le parti più spregiudicate dell’ex elettorato di sinistra hanno avuto chi votare per un decennio, e, diremmo noi visto il contesto, per fortuna. Ma come è capitato a tanti predestinati dal Sistema prima di loro crediamo stia arrivando il momento delle resa dei conti. La struttura sembra cedere alle pressioni scontando la fragilità di organizzazione datasi, mentre le posizioni assunte su temi centrali ne fanno il bersaglio delle destre quando queste posizioni sono di sinistra e delle sinistre quando sono di destra. L’evidenza che non esistano, nonostante la buona volontà, posizioni neutre li sta cogliendo impreparati. Mentre, d’altro canto, la pretesa o la necessità di dichiarasi altro rispetto a tutto il contesto politico ne fanno una forza isolata senza relazioni. E’ per noi evidente che essi rappresentino un patrimonio politico anche per la sinistra futura ma restano in piedi tutti gli interrogativi su come procedere ad aprire un dialogo, dialogo la cui assenza li ha qualificati positivamente di fronte all’elettorato, dialogo che ne eviti la prematura dispersione.
– Il quadro d’insieme che ci appare è sicuramente problematico e piuttosto sposta il problema dall’unità al che fare, senza certo derubricare la prima a pura chimera.
Sono le differenze concrete, cultura e politiche, che portano ad essere pessimisti perchè risultano superabili solo da assunzioni critiche prodotte in autonomia da ogni singola compagine piuttosto che da un confronto plurale destinato solo ad esacerbare le rivalità.
Si aprono solo due strade per l’unità: o l’adozione di un metodo di alleanza che chiameremmo aritmetico, che valorizzi piuttosto che mortificare le singole compagini, oppure la lunga strada del rivolgersi ai lavoratori che più non votano da decenni invece che ai gruppi dirigenti.
Lamberto Lombardi