di Michele Trotta | da www.oltremedianews.com
La vittoria di Pierluigi Bersani candida il segretario Pd ufficialmente alla guida del paese. Ma le primarie, prima ancora che una disputa tra candidati, sono state il momento di un confronto di idee diverse di società e cultura. Sullo sfondo la questione generazionale che caratterizza questo paese cui il leader rottamatore non ha saputo dare risposte.
Alla fine ha vinto il segretario, il leader “tranquillo” come l’avevamo definito qualche giorno fa, l’uomo di quell’emilia rossa che, seppur mandando messaggi di sofferenza verso l’apparato, non ha tradito la propria storica vocazione. Così Pierluigi Bersani ha prevalso in 19 regioni su 20. In tutte tranne che in Toscana, dove Renzi ha dimostrato di avere un solido consenso. Addirittura ci sono state punte del 70% come in Calabria, poco più del 60% in Sicilia, bene in Umbria e Marche. Il segretario Pd è stato anche il candidato ad aver prevalso nelle grandi città, a Roma e a Napoli il risultato è addirittura schiacciante. Tanto da suscitare l’ammissione della sconfitta da parte di Matteo Renzi quando ancora erano stati scrutinati circa il 20% dei seggi.
“Hai vinto, congratulazioni” ha cinguettato su twitter il leader rottamatore, che nell’occasione ha anche messo fine a tutte le polemiche che hanno preceduto il voto: “Lui ha vinto, io ho perso e nessuna regola avrebbe potuto cambiare il risultato”, poi ha concluso serafico “ho perso, ho fatto finalmente qualcosa di sinistra”. Stop ad ogni rivendicazione, via le ombre delle accuse di brogli e dei presunti ricorsi all’infinito. Il Pd si gode questa grande esperienza di festa democratica e si rimette in marcia unito per le elezioni della primavera. Chissà per quanto, verrebbe da dire, ma il primo ad incarnare questo spirito è proprio Bersani che nella serata di ieri ha avuto solo parole di ringraziamento per i suoi compagni di partito. “Abbiamo dimostrato che siamo un grande collettivo che discute, ma che decide e che funziona” ha detto il segretario che poi ha continuato: “ringrazio i centomila volontari che hanno reso possibile tutto questo e dopo questi giorni convulsi ora potranno riposarsi un po’, ringrazio la mia famiglia, trascurata per questa campagna”; infine riconoscenza anche per gli sfidanti, in particolare per Matteo Renzi “per aver portato forza e freschezza, e un grande contributo a queste consultazioni”. “Dobbiamo fare subito due cose – ha concluso poi Bersani parlando già da candidato premier – da domani, anzi da subito. Intanto darci un forte profilo di governo, ma vincendo senza raccontare favole, perché siamo nella crisi più grave del dopoguerra. E poi dare un grande segnale di cambiamento per il centrosinistra. Un cambiamento che significa spazi e occasioni alla nuova generazione. Ora avanti, tutti assieme. Perchè è finito il tempo dell’uomo solo al comando. Mettiamoci forza, energia e – fatemelo dire – anche un po’ di allegria”.
Si chiudono così le primarie del centrosinistra, un’esperienza per certi aspetti anche tormentata, che ha visto volare spesso gli stracci dentro il Pd, ma che ha portato milioni di persone nelle piazze del paese. E proprio questi due elementi danno alcuni spunti di riflessione su cosa ha rappresentato per gli italiani questo appuntamento pre-elettorale.
Innanzi tutto partirei dalla partecipazione. Tra la prima tornata e il ballottaggio hanno votato qualcosa come 6milioni di persone. Un aspetto tutt’altro che secondario, anzi, verrebbe da dire che proprio la partecipazione è il dato che viene fuori da queste primarie e che ha fatto di questa esperienza un esempio certamente vincente di empatia collettiva che si è andato ad aggiungere alle mobilitazioni studentesche e alle rimostranze del mondo del lavoro che hanno caratterizzato questo autunno. Che piacciano o meno, le primarie hanno infatti messo sul piatto della bilancia mediatica un vero e proprio popolo che chiede partecipazione, che protesta ma che vuole risposte senza cercare la scorciatoia; un popolo che pesa perché, seppur vomitata da Beppe Grillo, questa enorme partecipazione ha affossato almeno per il momento la vulgata antipolitica: non è un caso che per la prima volta da mesi a questa parte il M5S perde terreno. Quale miglior effetto se non lo stop alla retorica fascista di chi pretende di rispondere con battute ad interrogativi complessi? Dopotutto una manifestazione di piazza ha l’obiettivo di mostrare la capacità di un’organizzazione di incidere sui rapporti di forza; ora, andando oltre il velo delle ordinate file ai gazebo che possono piacere o no a chi adora cori e marce oceaniche, il bersaglio è stato centrato, non c’è dubbio.
Anche dal punto di vista interno al centrosinistra, e in particolare al Partito Democratico, però queste primarie hanno dato delle indicazioni su cui bisogna riflettere. Il dato che viene dal primo turno è infatti di un partito che ha difficoltà a controllare tutto il territorio, ma soprattutto di una direzione troppo lontana dalla base, la quale, nel momento in cui ha potuto, ha espresso il proprio voto di protesta. Sì, proprio così, non potrebbe essere letto diversamente il risultato di Renzi, tanto gonfiato al primo turno, quanto impoverito al secondo. In attesa dei dati assoluti il fenomeno rottamazione si può dire che, almeno dal punto di vista interno, va letto sotto due luci differenti: da una parte c’è il dato di una cultura neoliberista egemone che in questo paese ha attecchito anche a sinistra e che, se collegata con una certa capacità a bucare lo schermo, può costituire una miscela a dir poco esplosiva; in questo senso dentro e fuori il Partito Democratico c’è qualcuno che evidentemente ha tifato Matteo Renzi proprio in funzione della supposta necessità di proseguire con l’agenda Monti. Dall’altra c’è un’insofferenza dell’elettorato, stanco delle promesse mancate, disilluso rispetto alla capacità dei propri vecchi leader di “fare davvero qualcosa”, meglio di sinistra, ma se proprio non si può, di fare almeno “qualcosa”. Pesano come un macigno le esperienze fallimentari di governo del centrosinistra di questi ultimi vent’anni. Spesso non si tiene conto però del fatto che, tolto il primo governo Prodi, nel 2006 l’Unione si è trovata a dover governare, per colpe non sue, con una maggioranza di 3-4 parlamentari; ma alla fine in una crisi come questa si devono dare delle risposte, le prime delle quali devono essere novità e credibilità.
Quindi il tema che ha segnato tutta la campagna delle primarie: la questione generazionale. In Italia c’è una enorme questione generazionale, i dati della disoccupazione giovanile parlano chiaro: il 36% di giovani disoccupati dice che quella dei ventenni di oggi è una generazione perduta, che per la prima volta ha come prospettiva quella di star “peggio” dei propri genitori. Non è un caso che Beppe Grillo non faccia altro che parlare di nuovo, di giovane, non è un caso che l’intera campagna delle primarie nonché il fenomeno Renzi si siano totalmente incentrati sulle pulsioni rottamatrici di una parte della nostra società sofferente. Se letta in questo senso la vittoria di Bersani acquista ancora più valore: è una vittoria contro il vento neoliberista che ha coinvolto apparati del partito sospinti dai grandi media, tutti improvvisamente renziani; ma è una vittoria che si avvale del voto “giovane” vendoliano. Il vero messaggio che le primarie danno, e la vera questione cui dovrà dare risposta la futura coalizione è proprio questa: oggi c’è in gioco il futuro dei nostri figli, bisogna affrontare i temi che coinvolgono le nuove generazioni come la precarietà, il lavoro, la possibilità di acquistare una casa, di costruire una famiglia, di accedere ai contributi pensionistici, di vivere un’esistenza dignitosa.
Ed una risposta può esser data solo se si parte dal presupposto che bisogna porre fine a quella enorme mistificazione che vuole la retorica spiccia della meritocrazia individualista come un qualcosa di favorevole all’innovazione. Bisogna porre fine all’idea che dalla crisi si esce con maggiore selezione “di classe” impastata di parole di buonsenso comune, come appunto la meritocrazia, le quali non stanno altro che a nascondere maggiore precarietà. Occorre affermare con forza che se c’è una soluzione alla questione generazionale, in questo paese, quella sta proprio nelle proposte che sono culturalmente di sinistra: dire no all’uomo solo in una società di lupi, sta a siginificare maggiore equità, maggiore giustizia, redistribuzione delle risorse, presenza dello Stato, welfare accessibile, diritti civili. Dire sì all’introduzione dei giovani nel mondo del lavoro vuol dire abbassare l’età pensionistica (se si va in pensione a 67 anni come si pensa di integrare le nuove generazioni in impieghi stabili?), significa abolire la precarietà intesa sia nel senso dell’abolizione dei contratti a tempo determinato, sia nel senso del ripristino dell’articolo 18. Riaffermare il valore della contrattazione nazionale, e l’esigenza di un sindacato forte a livello nazionale, significa dire che quando ci sono dei problemi, dei licenziamenti ingiusti, c’è qualcuno che ti da una mano. Ma soprattutto riaffermare il valore di una giusta rappresentanza nelle istituzioni del mondo del lavoro, vuol dire riportare queste istanze in un parlamento dove da troppo tempo si argomenta a proposito di veline e brioche.
E proprio a proposito di questi grandi temi che riguardano i giovani, ma che a ben guardare toccano anche i “vecchi”, Matteo Renzi è mancato facendo in modo che il pacato Pierluigi Bersani, nonostante l’evidente differenza anagrafica, si mostrasse molto più giovane. Non una parola sull’università, non una soluzione contro la precarietà, non un riferimento alle pensioni se non in chiave favorevole alle riforme appena approntate. Da Renzi i giovani si aspettavano più risposte, e quelle non sono arrivate. Forse, al di là di ogni dietrologia, è proprio qui che il sindaco di Firenze che si presenta in maniche di camicia ai dibattiti è venuto meno. Chissà se la futura coalizione saprà far tesoro di questa esperienza.
Michele Trotta