di Andrea Catone, Editoriale del numero in corso di distribuzione della rivista MarxVentuno
Spirale greca
Mentre scriviamo, è in corso un altro atto della crisi greca, secondo un copione ormai noto: sotto la minaccia del default la “troika” – Fmi, Commissione europea e Bce – vincola la concessione di un prestito di 130 miliardi di euro a un’ulteriore manovra lacrime e sangue, dopo quelle di maggio 2010 (tagli alla spesa sociale, ai salari, al pubblico impiego, alle pensioni), giugno 2011 (altro piano di austerità), settembre 2011 (tagli alle pensioni, al pubblico impiego, nuova tassa sugli immobili): taglio dell’1,5% della spesa pubblica, di cui il 30% colpirà la sanità; riduzione degli stipendi minimi a 500 euro; taglio dei sussidi pensionistici e licenziamento di 150mila dipendenti nella pubblica amministrazione entro il 2015, di cui 15mila entro il 2012; svendita di quel che rimane del patrimonio pubblico.
La Grecia bombardata dai diktat della Ue, ovvero della Germania della Merkel, è ridotta alle condizioni della Serbia bombardata dalla Nato nel 1999. La manovra, ancor più delle precedenti, accentuerà, in una spirale perversa, la già pesante recessione e renderà necessarie ulteriori manovre, fino alla spoliazione totale del paese, ridotto alla miseria e alla fame. Per giunta, la Germania chiede di privare la Grecia, anche formalmente, della sovranità nazionale, introducendo un’istituzione con poteri decisionali per intervenire sulla sua politica fiscale. Il ruolo di Lucas Papademos, ex vicepresidente della Bce, la quale di fatto lo ha imposto agli inizi di novembre (una settimana prima del passaggio del testimone da Berlusconi a Monti in Italia) alla guida di un “governo di unità nazionale” (socialisti del Pasok, destra di Nea Demokratia, estrema destra di Laos) è sempre più quello di un Quisling, che governa la Grecia su mandato di potenze straniere e alle condizioni che queste impongono.
Sovranità limitata
La gestione della crisi del debito degli stati della Ue (sia interni – con vincoli più cogenti – che esterni all’eurozona), quale momento particolare e peculiare della crisi generale dell’accumulazione capitalistica e dello scontro interimperialistico tra aree valutarie, comporta una forte limitazione della sovranità popolare: gli stati in crisi vengono commissariati, de facto se non de jure (come pretende rozzamente la Germania), i parlamenti e i governi sono trasformati in cinghie di trasmissione delle misure economiche decise a Berlino, che vincola, con la richiesta di iscrivere nelle Costituzioni il pareggio di bilancio, la possibilità di decidere la loro politica economica non solo per il presente, ma per il futuro. La crisi è pretesto per lo stato d’eccezione e la sospensione della dialettica democratica, funzionali alla struttura antidemocratica e verticistica di questa Ue, i cui paesi periferici sono a “sovranità limitata”.
Ad oggi non sappiamo se in Grecia, il paese dove più forte è la crisi, ma più forte anche la resistenza – grazie al ruolo determinante dei comunisti del KKE, ai quali va tutta la nostra solidarietà militante – avranno luogo le elezioni che, previste per il 19 febbraio, sono state spostate ad aprile. Dipenderà probabilmente dai tempi richiesti per gestire e “normalizzare” la situazione, piegando strategicamente le resistenze, dividendole e frantumandole, come, di converso, dalla capacità dei comunisti di unire intorno al proletariato, in un vasto fronte popolare, tutti gli strati sociali colpiti dalla crisi.
Fiscal compact: un’ipoteca sul futuro
La situazione dell’Italia – si dice – è diversa, non solo per il peso economico-produttivo (la terza economia dell’area euro, il secondo paese manifatturiero), ma anche perché Monti ha recuperato quella credibilità internazionale che con Berlusconi era scesa ai minimi termini. E l’ha recuperata, perché, diversamente da Papademos, rivelatosi, anche a causa delle resistenze sociali e politiche, un cattivo esecutore delle politiche restrittive volute dalla Germania, egli si presenta con le carte in regola dello studente modello che esegue diligentemente tutti i compiti assegnatigli, implementa le misure richieste, sottoscrivendo impegni draconiani anche per eventuali futuri governi, che avranno mani e piedi legati nella politica economica.
Nel vertice di Bruxelles del 30 gennaio l’Italia ha sottoscritto il cosiddetto “Fiscal compact” (cui si sono sottratti due paesi fuori dell’area euro, Regno Unito e Repubblica ceca). Le nuove regole prevedono: 1) che i paesi Ue s’impegnino ad avere il deficit sostanzialmente in equilibrio, con un valore massimo dello 0,5% rispetto al pil, quindi, molto al di sotto di quanto fissato dagli accordi di Maastricht, che prevedevano un deficit annuale inferiore al 3%; 2) la riduzione ogni anno del debito pubblico in rapporto al Pil di 1/20 della distanza tra il suo livello effettivo e la soglia del 60%. Gli stati firmatari del nuovo Trattato s’impegnano a trascrivere nelle costituzioni tali vincoli.
L’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione italiana (con modifica degli artt. 81, 97, 117, 119), già avviato nei lavori delle commissioni parlamentari col governo Berlusconi, procede di gran carriera con Monti: la Camera lo approva il 30 novembre, senza voti contrari (464 sì e 11 astenuti), e così il Senato il 15 dicembre (255 sì, 14 astenuti). Se questa maggioranza, ben superiore ai 2/3, verrà – com’è affatto probabile – mantenuta anche nella seconda votazione definitiva, non sarà possibile proporre il referendum popolare confermativo: così un parlamento senza comunisti priva i futuri governi della possibilità di attuare una politica economica.
Ma Camera e Senato fanno anche di più: il 25 gennaio votano a larghissima maggioranza mozioni bipartisan (o “tri-partisan”, proposte a firma congiunta da esponenti di Pd, Pdl, Terzo Polo e cespugli vari) con cui si accetta, con alcune smussature per evitare “automatismi e rigori eccessivi”, la sostanza dei vincoli richiesti dalla Germania per il rientro del debito.
Anormalità normalizzata
Il governo Monti rappresenta nitidamente gli interessi del grande capitale finanziario dell’Occidente (Usa/Ue/Nato), unito e diviso al tempo stesso nella competizione tra dollaro ed euro.
In meno di un trimestre questo governo non solo è riuscito a far passare una macelleria sociale mai vista sinora (cfr. in questo numero l’art. di V. Giacché), con un poderoso consenso di tutti i partiti presenti in parlamento (salvo Lega e Idv) e una limitata opposizione sociale dei sindacati (contro la riforma delle pensioni del primo governo Berlusconi scesero in piazza nel 1994 milioni di persone; contro quella di Monti, ben più feroce e ingiusta, solo tre ore di simbolico sciopero), ma sta modificando in profondità il quadro politico e istituzionale. La sua stessa nascita è un’anomalia, ancorché ammantata del rispetto formale delle procedure (cfr. in questo numero l’art. di D. Moro).
Vi è stata la mobilitazione di un formidabile apparato ideologico-mediatico per far apparire normale un colpo di stato e congelare l’opposizione. Certo, le cannoniere che hanno bombardato il paese e aperto il varco all’ingresso trionfale di Monti si trovano fuori d’Italia, anche oltreoceano, favorite dall’assenza di difesa dell’area euro. Ma ci ha messo del suo la cultura politica della “sinistra”, vissuta e alimentatasi per quasi un ventennio di antiberlusconismo epidermico, affatto privo di analisi di classe, tutto centrato sulla critica al kavaliere corruttore e puttaniere. All’apparizione di Monti si dissolve come neve al sole il “popolo viola”. Se il berlusconismo è stato l’autobiografia della nazione, non di meno lo è stato l’antiberlusconismo del Pd, che, clone del berlusconismo, del tutto subalterno ad esso, è stato, non meno della sua matrice, uno strumento formidabile di corruzione culturale, di rimbecillimento del paese, di morfinismo politico. È stato il pensiero unico in salsa italiana.
Il ruolo del Pd
Il Pd porta in tutto questo le maggiori responsabilità. Ma ancor più pesante e pregna di pesantissime conseguenze, anche sul terreno della democrazia, è stata la scelta – nella palese crisi del governo Berlusconi, dilaniato da contraddizioni interne e paralizzato di fronte all’attacco speculativo sul debito pubblico – di rinunciare ad una battaglia per le elezioni anticipate e di sostenere, insieme con Pdl e Terzo Polo, il governo Monti su un programma palesemente di destra. Quante volte Monti non ha rivendicato in queste settimane la sostanziale continuità di programma con Berlusconi?
Nel volgere di qualche settimana, sotto l’accorta regia di Giorgio Napolitano, sono cambiate le coordinate dello spazio politico italiano, che passa dalla competizione bipolare all’Entente cordiale, tanto da aprire la strada a una nuova legge elettorale che, lungi dal recuperare lo spirito e la lettera della Costituzione del 1948, incentrata sul principio proporzionale integrale, si preoccupa di modellare i nuovi possibili equilibri per una Grosse Koalition della prossima legislatura, magari ancora guidata da Monti. Casini ha già lanciato il sasso nello stagno.
Monti for ever?
Il governo Monti, la cui nascita è stata giustificata dallo stato d’emergenza, sta operando per “normalizzarsi”, per costruire tutti i presupposti e le basi politiche, ideologiche e programmatiche per una sua permanenza ben oltre lo stato d’eccezione, in un nuovo equilibrio di forze politiche. Se esaminiamo due passaggi parlamentari – il voto di fiducia al nuovo governo il 17 novembre e la mozione “tripartisan” del 25 gennaio – vediamo come questo disegno stia già prendendo forma, nel momento in cui Pdl, Pd e Terzo polo scrivono insieme e votano unanimi le linee guida, i principi ispiratori delle politiche economiche e fiscali per i prossimi 20 anni, allineandosi compatti dietro l’ideologia e il programma neoliberista della Ue, dove non c’è nessuno spazio né per la classe operaia, né per un ruolo dirigente e di programmazione economica del settore pubblico sulla base della Costituzione repubblicana, né per l’affermazione della sovranità popolare, che è invece subordinata agli imperativi di bilancio dell’Europa tedesca.
Non sappiamo se e quanto l’ala sinistra, socialdemocratica, laburista, del Pd reggerà dentro questa gabbia di un tripartito unito intorno al più organico governo borghese della storia repubblicana, deciso da un lato (cfr. in questo numero l’art di P. Cicalese) ad eliminare gli intralci e i costi di intermediazione parassitaria per l’accumulazione capitalistica – azione intrapresa in parte con il decreto sulle “liberalizzazioni” – e dall’altro a regolare definitivamente i conti con i sindacati e le organizzazioni operaie, la rappresentanza dei lavoratori sui luoghi di lavoro, la legislazione del lavoro, i contratti collettivi nazionali. Se l’azione verso le categorie dell’intermediazione improduttiva di plusvalore colpisce parte del terreno di coltura del Pdl, quella contro il sindacato e i lavoratori spiazza l’ala laburista del Pd, che ne pagherà i prezzi maggiori. E non è affatto escluso che l’azione politica del governo non miri proprio a disarticolare il Pd, a rendere ininfluente e senza peso politico la sua ala sinistra (così come spiazza, a destra, l’ala della borghesia arretrata e parassitaria nel Pdl).
Cgil senza “sponda politica”
Sta di fatto che per la prima volta nella storia della repubblica, anche di quella cosiddetta “seconda” post 1989-91, il più grande sindacato italiano, la Cgil, nata, a differenza delle scissioniste filopadronali Cisl e Uil, con un preciso carattere di sindacato di classe, non ha più un referente, o, come si usa dire, una sponda politica. La Cgil, pur nella formale autonomia dei suoi quadri dirigenti, ha seguito nell’ultimo ventennio le trasformazioni del Pci, in Pds, Ds, Pd, ed è stata nella sua maggioranza sostanzialmente collaterale ad esso, praticando l’opposizione dura quando il partito di riferimento era all’opposizione, la concertazione quando esso era al governo: senza appiattimenti totali, con una dialettica tra le parti, ma sapendo di avere nel Pd un proprio referente politico che, con tutte le mediazioni del caso, ne portava avanti le istanze, provava a tradurle in attività parlamentare e legislativa. Oggi questo referente è venuto meno e sostiene un governo che attacca, ora frontalmente, ora di sbieco, i lavoratori e il diritto del lavoro, sciorinando una sequela di beceri luoghi comuni della peggiore Confindustria (dall’ineffabile montiana “monotonia del posto fisso”, al “posto fisso nella stessa città di fianco a mamma e papà” della Cancellieri, agli “sfigati” di Martone), che non diventano migliori perché usciti dalle labbra forbite dei “professori” al governo. Ma ciò significa che in questo quadro in rapida evoluzione si aprono enormi problemi per i lavoratori e gli strati popolari, ma anche enormi responsabilità e possibilità di intervento per i comunisti, che devono porsi la questione – e l’obiettivo – di essere punto di riferimento politico per il sindacato.
Una proposta strategica per un fronte sociale e politico
Se è chiara la pericolosità, non solo economico-sociale, ma politico-istituzionale del governo Monti, ne consegue che il primo compito dei comunisti e delle forze legate al movimento operaio, ma anche degli autentici democratici, è costruire l’opposizione massiccia ad esso. Ma come? e secondo quale percorso?
La partita – o meglio, la battaglia – che si svolge ora vede lo stato maggiore nemico deciso a ottenere la vittoria sul fronte interno di classe, quale trofeo da offrire su un piatto d’argento al grande capitale europeo. Per vincere – parliamo non di scaramucce, ma di battaglie decisive, di vittoria strategica, che segna il destino del paese per decenni – Monti deve avere un sostegno parlamentare (e questo sostanzialmente c’è) e spaccare il fronte avverso, o meglio, impedire che si formi un possibile fronte avverso. Un fronte sociale potrebbe coagularsi intorno alla Fiom, se questa riesce a tenere dalla sua parte la Confederazione generale. Altri nuclei sono troppo dispersi e frastagliati, né si può pensare che “forconi” o camionisti o tassisti possano essere il coagulo di un fronte delle masse popolari. Ben altro!
Ma su quali basi costruire il fronte? Non bastano assolutamente una generica, ancorchè generosa e appassionata, opposizione sociale, o le singole resistenze sui luoghi di lavoro contro la chiusura delle fabbriche – dall’Irisbus ai Cantieri navali. Senza una proposta politica generale le singole ed eroiche lotte sul fronte delle fabbriche vengono isolate e lasciate spegnersi per inedia. Occorre uno sbocco politico, una proposta unificante per il fronte da costruire.
Nei punti più alti della loro esperienza storica i comunisti hanno saputo analizzare le situazioni concrete ed elaborare proposte strategiche adeguate, capaci di mobilitare le masse e unirle su obiettivi che spostavano a favore del processo rivoluzionario i rapporti di forza: dalla rivoluzione d’ottobre che fece della pace subito la più formidabile arma contro il regime borghese emerso dalla rivoluzione di febbraio, al VII congresso del Komintern (1935) che elaborò la politica dei fronti popolari, come sviluppo e ampliamento della politica del fronte unico, magistralmente lanciata dal III Congresso (1921). Tale politica si sviluppò nei fronti antifascisti. In Cina Mao lanciava (1940) la “nuova democrazia”, come tappa intermedia per la repubblica popolare. Il Pci, con la “democrazia progressiva” dette uno sbocco politico avanzato alla resistenza e alla guerra di liberazione (valutando che non ci fosse la possibilità concreta di una prosecuzione della lotta armata per la conquista del potere e la creazione di una repubblica sovietica). Certo, i comunisti avevano allora ben altra forza, tale da poter proporre egemonicamente alleanze a livello di classi sociali e di formazioni politiche sulla base di un progetto unificante. Ma, nella consapevolezza piena dei nostri limiti, abbiamo il dovere di formulare una proposta politica di carattere strategico per il proletariato e le masse popolari del nostro paese e di tutt’Europa.
O progresso o reazione
La partita che oggi si gioca è strategica. Siamo di fronte a una crisi del capitalismo senza precedenti e, insieme, della UE, con una profonda modifica dei rapporti tra gli stati. È aperta – lo hanno detto i compagni portoghesi (cfr. l’intervento del Pcp in questo numero) all’importante 13° meeting dei partiti comunisti e operai svoltosi a dicembre ad Atene – una questione di classe e, insieme, una questione patriottico-nazionale.
La profondità di questa crisi europea, economica e politica a un tempo, non può lasciare immutati i rapporti tra le classi, le forze politiche, gli stati. Da questa crisi non usciremo con gli stessi rapporti di forza con cui vi siamo entrati. Ci troviamo di fronte alla possibilità o di uno sbocco progressivo, che riapra e riattualizzi la prospettiva della transizione al socialismo; o di uno sbocco regressivo, di destra. Questo può assumere tanto il volto asettico della tecnocrazia di Bruxelles, che smantella definitivamente stato sociale e organizzazioni sindacali e politiche del movimento operaio (modello Monti), quanto quello della destra cosiddetta “populista”, nazionalsocialista, che cattura il consenso delle masse immiserite attaccando le oligarchie finanziarie europee, come in passato faceva Mussolini contro le plutocrazie. Si guardi all’Ungheria di Orban, o, qui da noi, alla Lega Nord che tuona contro il “governo delle banche e dei poteri forti” (Maroni) e difende strumentalmente l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
Occorre invertire decisamente la rotta neoliberista e rilanciare il ruolo economico-sociale del settore pubblico sotto controllo popolare, con un piano del lavoro, riattualizzando la nostra costituzione democratico-sociale, rendendo operante il titolo terzo dedicato ai rapporti economici.
Su questa linea si può lavorare alla costruzione di una prospettiva politica progressiva, con un programma volto a riconquistare a pieno titolo la democrazia sospesa e la sovranità popolare oggi commissariata.