di Maurizio Brotini, CGIL Firenze | da www.laprospettiva.eu
Pubblichiamo come contributo alla discussione
La crisi sistemica che sta colpendo le economie e le società americane ed europee ha origine dalla vittoria delle classi dominanti americane nei confronti dell’ex blocco sovietico e dei partiti comunisti ed operai dell’europa occidentale.
La controffensiva prende origine nel punto più avanzato del movimento comunista ed antimperialista mondiale, i primi anni settanta, e viene tradotta a livello di scelte di governo e di massa con Reagan in America e con la Thatcher in Inghilterra.
Come efficacemente sostenuto da Vladimiro Giacché nel suo ultimo contributo, la finanziarizzazione dell’economia e la crescita basata sul credito al consumo attraverso l’indebitamento privato ha permesso agli Usa non solo di procrastinare la crisi derivante dalla bassa remunerazione del capitale investito in attività manifatturiere, ma di togliere il terreno sotto i piedi alle sinistre di classe distruggendo gli apparati produttivi con conseguente riduzione drastica del potere della classe operaia e dei partiti espressione di essa.
A questo attacco diretto si è accompagnata una gigantesca operazione ideologica, talmente efficace da divenire sia subcultura diffusa nelle classi subalterne sia orizzonte ideologico di molti partiti proveniente da una tradizione di sinistra, come il fenomeno del blairismo, la svolta “liberale” della SPD degli anni Novanta e lo scioglimento del PCI.
L’assunto di fondo che il lavoro non fosse più, se mai lo era stato, classe generale: poiché lo status sociale e le possibilità di reddito disponibile erano sganciate dai redditi da lavoro, che diminuivano, e derivavano anche per le classi lavoratrici dalle bolle immobiliari, dalle integrazioni delle rendite borsistiche ma soprattutto sull’indebitamento privato, l’appartenenza di classe si faceva evanescente a favore di una dimensione di ceto, nella quale perdevano ragione costitutiva soggetti sociali, sindacali e politici ancorati ad una dimensione classista.
L’ideologia della crescita illimitata dei ceti medi, brandita come una clava sull’ipotesi marxiana dei processi di divaricazione e polarizzazione sociale.
E adesso: sconfitto l’Impero del Male, grazie anche ad una alleanza terrena, molto terrena, con la Chiesa Cattolica guidata dal Papa polacco, sconfitti i lavoratori, i sindacati, i partiti della sinistra di classe, cosa accade?
Il pendolo della storia si sposta: gli Usa declinano a fronte dei BRICS, Russia, Cina, India, Brasile, Sudafrica e l’Europa implode.
Gli Usa si dolgono dell’incapacità politica dell’Europa di affrontare la crisi dopo aver contrastato in tutti i modi, compreso quello militare (cosa era anche la guerra in Yugoslavia e l’ingresso accellerato dei paesi dell’ex-est europeo pieni di basi americane se non un chiaro messaggio), il processo di unificazione europeo.
E cosa continua a proporre la destra tedesca della Merkel (e le istituzioni tecnocratiche e ademocratiche europee) se non le ricette che l’FMI imponeva ai cosiddetti paesi del terzo mondo, causandone lo sprofondamento economico e sociale? Valga l’esempio del Brasile e dell’America Latina, che governate da forze di sinistra fondate sul lavoro come classe generale in alleanza con le borghesia nazionali progressiste, affrancate dal signoraggio americano e dell’FMI, si sono affermate sia come potenze economiche che come esperimenti di migliorameto reale, concreto, delle condizioni di vita delle classi lavoratrici, operaie e contadine.
E cosa propone Monti e il suo Governo, se non la subalternità alla decisione della Merkel di tentare di risolvere la crisi di sovrapproduzione di merci e di capitali attraverso la distruzione selettiva degli apparati produttivi (più complessivamente del capitale) e delle condizioni sociale dei paesi deboli dell’Europa, tra i quali l’Italia?
Come leggere le misure di totale disinteresse per la desertificazione industriale del nostro paese se non col tradurre brutalmente nei fatti il nuovo ruolo assegnato all’Italia, sempre più marginale, periferico, subalterno alle stesse borghesie di altri paesi. Il tutto ovviamente condito dalla fine dello stato sociale, espressione del riconoscimento costituzionale del valore positivo del conflitto capitale-lavoro, e sua massima espressione sul piano del compromesso raggiunto nell’Europa post- seconda guerra mondiale.
Ipotesi, a mio modesto parere, destinata comunque al fallimento. Fallisce l’Europa della moneta unica e dei tassi d’interesse unificati, come fallirà l’ipotesi dell’Europa a due velocità.
E allora? E allora, forse, è utile riandare al concetto di classe operaia come classe generale, alle indicazioni togliattiane delle borghesie nazionali come incapaci strutturalmente di svolgere un ruolo “progressivo”, alle riflessioni ed alle alleanze con i ceti medi produttivi, fortemente in crisi e sottoposti ad un processo di polarizzazione.
Classe operaia come classe dirigente nazionale.
Problema: esiste una sinistra di classe nel nostro paese ed in Europa capace di svolgere tale compito, di uscire da sinistra dalla crisi?
Abbiamo avuto una serie di indicazioni elettorali interessanti, come le elezioni amministrative in Inghilterra, presidenziali e politiche in Francia, politiche in Grecia, assieme anche ad importanti considerazioni autocritiche rispetto al blearismo, ma in Italia?
Possiamo rassegnarci al fatto che il paese occidentale caratterizzato dalla più ragguardevole presenza anarchica e socialista nell’ottocento, dalla presenza del più determinato partito comunista impegnato nella lotta antifascista prima e nella ricostruzione poi, assieme ad un forte ed interessante partito socialista almeno fino all’avvento di Craxi, dalla presenza di una sinistra di classe diffusa durante gli anni sessanta e settanta fuori da detti partiti, sia condannato alla peggiore situazione sul piano della rappresentanza politica del lavoro, delle prospettive di trasformazione in senso socialista e comunista? Averne la consapevolezza sarebbe già un piccolo passo nella giusta direzione.