La privatizzazione della politica

di Francesco Francescaglia, Responsabile organizzazione PdCI

parlamento italianoI casi Lusi e Belsito hanno scatenato un’ondata d’ira popolare contro il finanziamento pubblico ai partiti. Ira che si è generalizzata contro i politici. Tutti.

Tutti uguali, tutti ladri. Devono andarsene, meglio se direttamente in galera.
Togliere i soldi ai partiti. Anzi, cancellare direttamente i partiti.
I politici sono ladri, incapaci, corrotti, bugiardi. La politica è casta, cricca, privilegio.

L’Italia è ormai un grande palcoscenico per lo spettacolo indegno della corruzione. Ogni giorno, da anni, le cronache sono piene di politici arrestati, indagati, coinvolti in scandali.

La questione morale è enorme. Come ai tempi della denuncia di Berlinguer. Come ai tempi di Tangentopoli.
 
Tangentopoli, alla fine, è servita a corrotti, concussori e corruttori, per affinare l’arte del rubare. Dalla rozza valigetta zeppa di contanti, siamo passati a incarichi, consulenze e favori di ogni sorta (tipo la “casa a mia insaputa”). Son cambiate le “tecniche”, non la sostanza. Tangentopoli, alla fine, è servita a seppellire la prima Repubblica della DC, di Craxi e del pentapartito, e a far nascere la seconda Repubblica di Berlusconi, Bossi, Fini e Casini. Sono cambiati i protagonisti, ma la destra ha continuato a governare il paese.
 
La doverosa azione giudiziaria di quegli anni non ha prodotto una “via giudiziaria alla democrazia”. Colpa della politica, ovviamente, mica dei giudici.

Oggi siamo punto e a capo. Anche all’inizio degli anni novanta eravamo in piena transizione politica, come oggi. Anche allora c’era una forte crisi economica, come oggi. Anche allora l’antipolitica cresceva, come oggi. Nel 1992 ci furono le stragi di mafia, oggi speriamo almeno di non dover assistere di nuovo a quelle tragedie criminali.
 

La crisi degli anni novanta produsse il berlusconismo: il prototipo del neoliberismo populista. La crisi attuale, per ora, sta producendo il “montismo”: un turbo-neoliberismo tecnocratico.
La destra, nelle sue mutevoli e molteplici forme, è sempre il nemico da battere.

Ingiustizia sociale, populismo, edonismo, fascismo, destra, antipolitica, neoliberismo, privatizzazioni, recessione, tecnocrazia, guerra, licenziamenti, razzismo, qualunquismo. Parole che stanno nello stesso calderone. L’una tiene e produce il significato delle altre.
 

Costituzione, partiti, democrazia, stato sociale, diritti, pubblico, beni comuni, pace, lavoro, crescita, cultura, istruzione, solidarietà, giustizia, etica. Parole che appartengono (o almeno dovrebbero) al campo semantico e politico della sinistra.
 
Attenti a fare politica pescando parole dal campo della destra. Attenti a fare confusione. Si finisce col fare il gioco dell’avversario. Anzi, si fa il lavoro sporco per conto del nemico (di classe). Sparare con qualunquismo contro i partiti significa proprio questo. Sappiamo bene che si prendono più voti con la demagogia dell’antipolitica, piuttosto che con la serietà di chi pone la questione morale cercando di non gettare via il bambino insieme all’acqua sporca.

Bisogna, invece, avere il coraggio di dire alcune cose con grande chiarezza. I comunisti sono per il finanziamento pubblico alla politica e difendere questo principio per noi significa difendere la democrazia. Privatizzare la politica è il sogno del capitale e dei liberisti. Un partito che dipende dalle lobby imprenditoriali è un partito che ha per azionista di maggioranza il capitale privato, non i suoi iscritti e i suoi elettori.
 

Non solo siamo contrari al modello americano, ma andrebbe addirittura posto un limite alla quantità di soldi privati che possono essere raccolti da un partito (il 50% dei fondi pubblici che ciascun partito riceve?). Berlusconi è proprietario del PDL e, sembra, che si sia comprato anche il simbolo della Lega Nord. Dove c’è un padrone, non c’è democrazia.
 
Tutti sono liberi di fondare un partito e di fare politica. La democrazia, però, deve garantire pari condizioni di partenza e pari opportunità a tutti. È ovvio che chi ha il potere dei soldi può comprarsi il potere dell’informazione e, alla fine, direttamente il potere politico. È questo il vero conflitto d’interessi. Chi queste cose non le ha, come i lavoratori, i disoccupati o i precari, non ha le stesse condizioni e opportunità. Così la democrazia non esiste e diventa solo una parola vuota per coprire colossali abusi di potere.

Forse vale la pena rispondere a qualche cretinata populista che ci viene sempre propinata per chiudere il discorso sul sostegno al principio del finanziamento pubblico ai partiti. Alcuni dicono: un movimento politico può autofinanziarsi tramite i suoi iscritti, non ha bisogno dei fondi pubblici. Forse questo può essere vero per un piccolo movimento di opinione non radicato nel territorio e che nasce e muore nel corso di una breve stagione politica. Non può valere per la generalità del sistema democratico dei partiti: Berlusconi, da solo, può finanziare un partito. Un precario, invece, fatica a versare 100 euro. Fare politica costa. E non costa solo in occasione delle elezioni. Costa tutto l’anno. Perché i partiti in Italia non sono – e speriamo non lo divengano mai – dei comitati elettorali. Sono (dovrebbero) essere la democrazia che si organizza, i diversi interessi sociali che si scontrano, che alimentano la dialettica sociale. In una democrazia sana ciò avviene ogni anno, tutti i mesi, giorno dopo giorno. E fare questo costa. Non esiste alcun partito nato dal nulla, senza soldi, che abbia avuto un successo durevole. Neanche la Lega Nord, giacché senza il salvataggio economico e politico arrivato in extremis da Berlusconi sarebbe fallita nel 2010 per bancarotta. Tutti gli altri avevano qualcosa: Berlusconi i soldi e le TV, Grillo la sua fama e i suoi soldi, Di Pietro l’enorme popolarità e visibilità. Fateci caso: son tutti partiti personali, nessuno ha cominciato da zero, tutti sono andati avanti grazie ai soldi ricevuti (anche i Radicali).

Se per noi va bene il principio del finanziamento pubblico alla politica, bisogna poi andare a vedere come viene applicato. Il sistema italiano è stato ed è ancora: soldi pubblici ai partiti, alte retribuzioni per gli eletti e gli amministratori pubblici, privilegi e pochi controlli, cui bisogna aggiungere il finanziamento illecito derivante dalla corruzione.

I costi degli eletti vanno abbassati. Non, però, tagliando il numero dei parlamentari, che serve a colpire i partiti più piccoli a vantaggio dei più grandi e ad aumentare il divario tra eletti ed elettori). Bisogna, invece, tagliare gli emolumenti e i privilegi che gli eletti hanno. Del resto noi comunisti siamo gli unici che continuano a far versare ai nostri amministratori ed eletti il 50% degli emolumenti che percepiscono.
 

La corruzione, poi, è da considerarsi una sottospecie (illegale) della privatizzazione della politica. Un amministratore pubblico ha il potere di dare appalti, licenze, concessioni, finanziamenti. Insomma gestisce soldi dello Stato. Tanti soldi. Non può, ovviamente, darli direttamente a sé o al suo partito. Oltre a essere illegale verrebbe subito “sgamato”. Però può darli a privati, società, aziende. Il politico (ladro), infatti, dà soldi a un privato, trattenendone per se o per il suo partito un pezzo (la tangente). Insomma, una partita di giro.
 
Questa partita di giro negli Usa è sostanzialmente legalizzata. Le famose lobby sono gruppi di pressione messi in piedi da aziende private per curare i loro interessi. Ogni azienda ha interessi legislativi o magari vuole ottenere commesse pubbliche, appalti e così via. Per farlo le lobby finanziano direttamente i partiti (ovvero i candidati e i comitati elettorali) oppure assumono a fine carriera un politico pagandolo profumatamente per i servigi resi quando era in carica.
 
Il sistema americano di finanziamento alla politica è regolamentatissimo, con sanzioni pesanti, manette e galera per chi sgarra.
 
Questo spiega anche (ma non giustifica) perché un politico in Italia (e anche gli alti dirigenti pubblici) guadagni più che un suo omologo in USA, dove a fine carriera, al contrario che in Italia, lo attende con certezza un “buen retiro” presso un’azienda privata con annesso megastipendio.
Questo spiega, infine, perché in USA la politica la fanno i ricchi che, infatti, approvano leggi per i ricchi, ad esempio sul fisco (le tasse sulla rendita sono meno della metà di quelle sul lavoro).
 
In Italia questo sistema funziona poco. Le aziende non vogliono esporsi troppo con i partiti e non hanno una convenienza diretta a farlo. Non hanno bisogno di pagare per avere delle leggi a loro favorevoli. Ci pensa la politica, gratis, e c’è Confindustria a difendere i loro interessi (e, infatti, in Usa non esiste un’analoga associazione degli industriali).
 
È un sistema di lobbing molto diverso da quello Usa, dove ogni azienda pensa per sé. In Italia, invece, le associazioni di categoria rappresentano gli interessi generali dei loro associati.
 
Tradizionalmente i governi in Italia hanno sempre fatto gli interessi dell’impresa (basti pensare non solo all’aspetto legislativo, ma anche ai 45 miliardi di euro che ogni anno lo Stato regala con scarsi controlli alle imprese). Però gli imprenditori italiani sono disponibili a spendere somme ingenti per corrompere e ottenere appalti e vantaggi. Perché così riescono ad avere un vantaggio competitivo sulle altre imprese che non corrompono e la concorrenza va a farsi benedire. Il sistema all’italiana sta bene a tanti. La tangente appartiene alla stessa famiglia culturale della raccomandazione, della spintarella, della furbizia, dell’evasione fiscale. Il semplice cittadino insulta il politico e disprezza la politica, ma se conosce un eletto, qualcuno che conta qualcosa, non esita un secondo a chiedere un favore, piccolo o grande che sia. Evade il fisco senza remore, ma si scaglia con moralismo contro la politica. In Italia non ci sono lobby del tipo anglosassone, ma c’è la logica dell’amico dell’amico, dell’ambiente che conta, del salotto da frequentare. Corporativismo, fascismo e mafia prosperano su questo brodo di coltura italico. Così fan (quasi) tutti, prima o poi, almeno una volta nella vita. E ciò non significa che vada bene così, anzi. Però serve a spiegare un po’ di cose e, magari, a capire che non esistono soluzioni facili ad aggredire il complesso e vasto problema italico del malaffare.

Torniamo a noi, al finanziamento pubblico ai partiti. Anche qui non cerchiamo di fare gli ipocriti. Scandalizzarsi per lo spread tra spese elettorali e rimborsi erogati è da ingenue anime belle. È ovvio che il rimborso elettorale sia un escamotage per mascherare il finanziamento pubblico ai partiti cancellato da un referendum popolare (non che non si potesse reintrodurre direttamente il finanziamento pubblico, la Costituzione lo avrebbe consentito, la demagogia pubblica no). Bisogna anche dire che il principio di legare i finanziamenti ai voti presi è equo perché puramente proporzionale. Certo, chiamarlo rimborso è davvero da ipocriti, ma è giusto che il criterio dei voti presi sia quello fondamentale per dare soldi ai partiti. Adesso abbiamo un proporzionale puro (tot soldi per ogni voto preso) con sbarramento (sotto l’1% dei voti niente soldi).

Parentesi. Se il sistema viene definito in modo fariseo “rimborso elettorale”, non si vede perché chi si candida alle elezioni (riuscendo a raccogliere le firme) e spende soldi, poi non abbia diritto come gli altri al rimborso anche se non ha eletto . Questo simpatico meccanismo ha fatto sì, ad esempio, che la Federazione della Sinistra non abbia beccato un quattrino per le ultime elezioni europee. L’introduzione della soglia di sbarramento al 4% ha determinato che chi non la superava non prendeva nemmeno il rimborso. Con un effetto ancora più simpatico: i soldi della FDS (e delle altre forze che non hanno eletto) non è che non sono stati dati e fine. Se li son divisi i partiti che hanno eletto, incrementando l’ammontare del loro rimborso. Davvero un criterio di equità. Ora si capisce meglio perché gli sbarramenti piacciono tanto ai grandi partiti. Chiusa parentesi.

Al sistema italiano dei rimborsi servono alcuni correttivi. Non c’è dubbio. Partiamo con l’eliminare l’ipocrisia del concetto di rimborso e torniamo a definirlo finanziamento pubblico ai partiti. Poi, siccome ci riempiamo la bocca con la Germania, non sarebbe male importare il loro modello. Ogni voto vale un tot, ma superata una certa cifra si danno meno soldi per ogni voto. Normale, banale. Tranne che da noi. I soldi si danno a tutti i partiti che eleggono. Gli altri ottengono un rimborso a piè di lista per le spese effettuate con una soglia massima prestabilita.
 

Continuando a fare gli esterofili c’è un principio saggio che vige in Gran Bretagna: l’opposizione è svantaggiata rispetto a chi governo quindi ottiene più soldi (anzi, chi vince non riceve una sterlina) e più spazi sui media.
 
In Francia, invece, lo Stato fornisce servizi. Ad esempio stampa e affigge manifesti per ogni partito che si presenta alle elezioni. Un buon sistema, che eviterebbe la vergogna italiaca di tonnellate di carta appiccicata fuori dagli spazi consentiti ed eliminerebbe i costi folli dell’attacchinaggio elettorale (che ormai, nelle grandi città, solo i partiti più grandi possono permettersi).
 
Va poi messo un tetto, ovviamente, alle spese per una campagna elettorale. Non è possibile che a Milano Letizia Moratti abbia speso dieci volte tanto quanto speso da Pisapia.

Poi c’è il tema di quanto dare. Il meccanismo del calco in base ai voti andrebbe modificato. Adesso si calcola il numero degli aventi diritti al voto e si moltiplica per 0,7 euro (prima era 1 euro). Il fondo così calcolato viene diviso proporzionalmente in base ai voti presi dai partiti che superano lo sbarramento. Ovviamente se il calcolo del fondo fosse fatto in base al numero dei votanti, non degli aventi diritto al voto, il fondo si ridurrebbe del 30-35%. E il criterio sarebbe più equo.
 

Infine c’è la questione dei controlli. Ci vogliono. E ci vorrebbe magari una legge che dicesse come si possono usare i soldi pubblici. Perché moralmente il comportamento del Trota è esecrabile (e se fossi leghista lo andrei a prendere a pedate), ma non è reato. E, infatti, non è indagato. I controlli ci sono già. I rendiconti devono essere redatti a norma CEE, pubblicati su due quotidiani, controllati da un Collegio dei revisori dei conti della Camera dei Deputati. Per le elezioni i bilanci vanno agli uffici circoscrizionali presso la Corte d’Appello e il consolidato nazionale va alla Corte dei Conti. I controlli funzionano male, come dimostrano Lusi e Belsito? Miglioriamoli, rendiamoli più efficaci e precisi.

Infine c’è un principio che va stabilito. Chi prende soldi pubblici deve essere controllato. Bene. Deve valere per tutti allora. Giorni fa il Corriere della Sera dava la notizia che in Italia, ogni anno, lo Stato elargisce 45,7 miliardi di euro come incentivi alle imprese. Nell’Unione Europea nel solo 2009, sono stati stanziati 427 miliardi in aiuti alle imprese. Come vengono usati? Chi controlla? Chi ci garantisce che un padrone quei soldi non li usi per farsi la Porsche, andarci in vacanza o ristrutturarsi la casa? Un oceano di soldi pubblici di cui non si sa quasi niente. Stiamo parlando di 20 volte in un anno i soldi che i partiti hanno preso dal 1994 a oggi. Una cifra enorme. Le storie delle imprese italiane ci dicono che il malaffare alberga anche nel mondo dell’imprenditoria. Perché nessuno si scandalizza?
 

Le imprese non sono le uniche che intascano soldi dallo Stato. Oratori, associazioni, giornali, Ong, fondazioni, enti. Sono in tanti a prendere i soldi pubblici. Aggiungiamo i soldi che prendono gli agricoltori con la PAC europea, quelli che la sanità privata riceve dalle regioni e così via… Perché per loro non dovrebbero valere i principi che valgono (o che taluni vorrebbero far valere) per i partiti? Vogliamo togliere tutto a tutti?
 
I neoliberisti della scuola di Chicago, infatti, sono (teoricamente) contrari al finanziamento pubblico a imprese e soggetti privati. Tutti devono agire nel libero mercato, cercandosi le risorse da soli. Un intervento dello Stato distorcerebbe il mercato. Se i neoliberisti nostrani attaccano il finanziamento pubblico alla politica e non quello alle imprese, qualche sospetto ci dovrà pur venire.
 
Forse ci converrebbe trasformare i partiti in imprese, visto che il giro dei soldi pubblici è enormemente più grande di quello che c’è a disposizione della politica, ma noi siamo contro la privatizzazione della politica e anche noi, da comunisti, combattiamo una casta molto potente e intoccabile. La chiamiamo classe: è quella dei padroni.