di Patrizio Andreoli, Partito dei Comunisti Italiani
La morte per suicidio di Romeo Dionisi (62 anni) e AnnaMaria Sopranzi (68 anni) avvenuta a Civitanova Marche, racconta meglio di mille analisi sulla crisi, la profondità dello strappo che sta lacerando il tessuto nazionale, il nostro comune senso di appartenenza ad una comunità civile e democratica; quella comunità che quando permette che tanto accada rischia di perdere -in sé- il diritto morale a reclamare la condivisione ed il rispetto delle sue norme più elementari. Non nel degrado di qualche lontana metropoli del sud del mondo, ma nell’Italia del 2013, dietro l’apparente normalità di un palazzo della provincia marchigiana che mostra ancora le piante curate e nutrite sul terrazzo di casa, si muore di fame e di miseria, ci si spegne in silenzio con la rassegnazione ed il pudore con cui si cerca di fare i conti, quando se né è colpiti, con un tumore che ci corrode e deforma fino all’atto e al respiro finali. Solo che morire di fame e miseria non è il triste segno di un fato naturale maligno, ma il frutto di un rovesciamento del diritto ad esistere -quello sì naturale!-, figlio per intero di scelte tutte umane, evitabili e modificabili.
Esse declinano un vocabolario dove parole come egoismo sociale, indifferenza, solitudine, sfregio della persona umana, povertà assoluta e lusso, spreco e feroce diseguaglianza; convivono tessendo storie di una modernità oscena che racconta ingiustizie vecchissime, indecenze che meritano la nostra indignazione e rivolta.
Quando due cittadini onesti se ne vanno lasciando scritto “perdonateci”, dando ad intendere di vivere la miseria come colpa assoluta, mostrando quella vergogna che i troppi che profittano, malversano e lucrano a piene mani ogni giorno non mostrano di possedere neanche in pallida misura, significa che la Democrazia e la Repubblica sono colpite a morte. Ciò che ci viene rappresentato è sempre più un Paese immemore dei lutti e delle lotte patite per il proprio riscatto; una massa non più operosa e cosciente di lavoratori e cittadini, ma una nuova moltitudine di soli, amorfa e abbandonata alla pietas del vicino, all’interessamento dell’amico, del caso e dell’Associazione di carità, che già in sé narra l’abdicazione ed il fallimento sempre più frequente di uno Stato degno di questo nome, di quella statualità intesa come equilibrio di contrappesi e poteri, difesa dei diritti essenziali della persona, fonte e motore di erogazione di servizi universali, conquistata con alterne vicende dall’umanità solo da appena due secoli; insomma appena ieri. La Rivoluzione Francese ci ha introdotti nella modernità, ma c’è voluta la Rivoluzione d’Ottobre per entrare in via compiuta nella contemporaneità, disvelando i limiti di un esercizio democratico formale che in assenza della capacità di aggredire i nodi della questione sociale, ovverosia dell’uguaglianza e dell’emancipazione quale cifra della liberazione di tutti, sostanziasse lo stesso principio di libertà che non si dà, se non è -anche se non innanzitutto- libertà dal bisogno. E’ che se guardiamo al nostro presente, l’Italia in cui viviamo mostra sempre più di avere il tratto seicentesco di un Paese di lazzaroni e straccioni, di tanti piccoli e diffusi prepotenti Don Rodrigo, di moralisti insopportabili, di cortigiani e di prostitute del potere/dei poteri di turno, di molti particulari e corti dei miracoli che confermando l’assenza di un’adeguata coscienza civile pubblica, paiono lasciar prevalere i peggiori comportamenti avvilendo le energie migliori. Un orizzonte severo e desolante che rimanda in termini densi alla storia d’Italia, all’arretratezza circa la formazione del suo carattere nazionale, all’assenza di un vero processo unificante ad opera di una borghesia debole e culturalmente inadeguata, ma anche (va pur detto, perché da qui bisognerà prima o poi ripartire con coraggio!) al fallimento di quel tentativo di riforma morale ed intellettuale avviato nel novecento dalla parte più avanzata delle forze popolari e principalmente dal Pci.
A conferma dello sconquasso che attraversa la società italiana corrodendone i tratti costitutivi l’identità ed i sentimenti di adesione ad una comunità di cittadini e non di nuovi servi della gleba di uno spaventoso capitalismo finanziario e speculativo, forse non è un caso se mentre questa tragedia si consumava, a Grosseto in assenza di adeguate risorse per tutti si provvedeva a pagare un gruppo di insegnanti precari attraverso sorteggio, ovvero una vera e propria riffa che degradava la vita di uomini e donne in carne ed ossa a lotteria variabile; mentre a Roma andava in scena l’ennesimo scandalo legato a malversazioni e crasse profittazioni personali. Lì, presso l’Idi (Istituto Dermopatico dell’Immacolata Concezione) nel mentre millecinquecento dipendenti attendevano di essere pagati da mesi e per ciò vivendo in dure difficoltà familiari, si scopriva che il titolare e responsabile della struttura, quel sant’uomo di padre Decaminada, aveva/avrebbe sottratto e stornato a fini personali ben quattordici milioni (…quando si dice cum-patire cristianamente con chi tribola per un pezzo di pane!). La differenza è che mentre nel seicento i poveri, gli storpi e i mendicanti morivano sui sagrati delle chiese, sui cigli delle strade o fuori da quelle porte urbane che a sera si chiudevano loro alle spalle; oggi in epoca di povertà organizzata su scala industriale e di massa, anche le cenciose lamentazioni d’un tempo devono divenire semplice intoppo silenzioso o per contrappasso, disperato tratto di narrazione televisiva da esporre e proporre fino alla banalizzazione, alla routine, all’abitudine. Un vero e proprio spettacolo della miseria da sfruttare nel tritacarne mediatico, su cui incanalare lo sfogo della disperazione senza che questa (si badi è essenziale!) divenga pur tuttavia leva di una più avanzata coscienza politica di massa; indignazione capace di allevare un progetto di trasformazione.
Quanto avvenuto impone in primo luogo essenzialità persino nel dire, quasi che le parole mediando l’irriducibilità della tragedia, possano in qualche modo attenuare o ridurre, depotenziando -in fabula- la denuncia, l’atto assoluto di protesta contenuto in quel gesto estremo. Già, perché queste morti accusano! Esse riassumono la condanna più evidente ed immediata, più dura e senza appello di una società diseguale che senza pudore e misura, tiene scandalosamente insieme il massimo dello spreco, del lusso e dell’inutile; col massimo dell’indigenza, del bisogno, di un niente che umilia e soffoca, (e non solo metaforicamente) la forza di andare avanti. Ma in queste morti vi è una lezione profonda che va oltre la cronaca, il sincero dolore popolare, il piagnisteo ed il falso accoramento di una società di furbetti e di sgomitanti senz’anima. Essa va colta. Si tratta di una lezione morale che deriva dall’esercizio di una silenziosa dignità che si sceglie di non perdere, da cui non ci si può separare, di cui non ci si può spogliare mentre altri (chi ha voltato lo sguardo, chi fin’ora ha rubato risorse pubbliche o nulla ha fatto per restituire speranza) avevano messo in conto che quella spoliazione fosse possibile e potesse entrare a far parte dell’accettazione di un vissuto umiliato. Romeo ed AnnaMaria hanno detto no; hanno detto basta! Una scelta semplice (in questo caso dall’esito tremendo) come affilate, prive di compromessi ed essenziali sono -a ben vedere- tutte le scelte di valore che nella vita contano davvero; soprattutto quelle che sostanziano un’esistenza non servile. Ecco perché, a loro modo queste morti ci parlano di una moderna Resistenza! Si può non acquistare più cibo a sufficienza, né trovare le risorse per pagare l’essenziale, ma non si può vivere scendendo sotto la soglia di dignità quotidiana necessaria o addirittura di essa essere privati. Si può perdere il lavoro ma non la dignità che dei lavoratori ti è propria o quella di cittadini. Disoccupati o modesti pensionati sì, mendicanti e pezzenti mai! Non dopo aver lottato o lavorato un’intera esistenza. Non dopo aver sperato e vissuto a testa alta. Se a tanto giungi, comprendi che tutto quel che ti rimane è la coerenza di te stesso, un’onestà di persone normali che nulla ha di eroico e che solo la ferocia sociale dei tempi s’incarica di rendere eccezionale. Essa si chiama dignità. E’ rivestita di pudore, è agita nel silenzio, è mossa dal rispetto di sé.
Non piegarsi, non tradire l’ispirazione di un’intera esistenza e se e quando l’abbrutimento sociale o l’indifferenza avanzano rischiando di renderci irriconoscibili a noi stessi; scegliere di non starci, scegliere di dar seguito ad un punto di fuga tragico vissuto come atto definitivo di denuncia e insieme di liberazione da una condizione percepita esistenzialmente come insopportabile. Ci pare quanto è avvenuto. Una denuncia acuta che racconta lo stato di questa nostra stracciata Repubblica. Ma anche un gesto di Resistenza, passiva ma pur sempre Resistenza. Non di meno di quanto fecero i soldati italiani che deportati dopo l’8 settembre 1943 decisero per dignità di restare internati nei lager pur di non giurare fedeltà alla Repubblica Sociale di Mussolini, o di quelli della Divisione “Acqui” che a Cefalonia, per dignità propria e dignità (lo dico senza retorica alcuna) della patria, si lasciarono fucilare a migliaia pur di non rimanere in armi accanto al Terzo Reich… Che si veda o meno, io dico che anche oggi una parte della società italiana, quella che lavora e vuole guardare in avanti tramandando futuro e diritti ai propri figli, quella che non vuole vivere nell’umiliazione di elemosine ma reclama il diritto al lavoro; è in guerra con lo schifo di un mondo che affama popoli interi, distrugge esistenze, arricchisce in maniera vergognosa pochi a scapito dei più della terra!
Vedete com’è strana la dignità! E’ impalpabile, non si mangia e non riempie lo stomaco. Di essa qualcuno riesce a non aver cura per tutta la vita, eppure a volte capita che per molti altri valga la vita stessa fino a lasciarci intuire su quel sacrificio l’orizzonte di un possibile mondo nuovo! Non so se questo, molto meno o molto di diverso ha animato il suicidio di Romeo ed AnnaMaria. So solo che se la Repubblica lascerà che ancora si deteriori e perisca il tessuto connettivo delle persone semplici e per bene che ogni giorno tra mille disastri, inettitudini ed esempi di malaffare hanno permesso che essa, pur lacera, fosse in grado di resistere e sussistere sin qui; allora la Repubblica vive già un pericolo mortale. Sulla diga puoi far sventolare bandiere e vantarti della sua capacità di tener a freno la potenza immensa dell’acqua. Ma se dimentichi che quello sforzo è costituito prima di tutto dalla capacità di tener duro di ogni singolo mattone con cui è composta la sua parete; se lasci che uno, due, mille, centomila mattoni si sgretolino o cedano (morti per fame, nuovi e vecchi poveri, esodati, disoccupati lavoratori privati di che vivere e di futuro), allora hai deciso o lasciato che il peggio ci sommerga e dilaghi.
Avanza una massa colpita dalla miseria che si pretendeva dimenticata col secondo dopoguerra, a cui si aggiunge (ed è ciò che fa la differenza sul piano della tenuta sociale) una miseria umana, un degrado delle relazioni, un cinismo che rimanda non solo allo sconquasso materiale, ma al collasso morale del Paese. Tutto questo pretende un cambiamento profondo. Una denuncia di un sistema diseguale fatto di ingiustizie, di fame e disperazione. Piaccia o meno, sia ritenuto retrò o ideologico, questo modello o sistema si chiama capitalismo! Esso nella sua forma moderna dimostra di divorare in maniera sconsiderata infinite risorse e vite, fino ad aggredire le stesse fondamenta democratiche.
Quando la politica si attorcina in manierismi e convulsioni segnando una distanza terribile dal Paese concreto, vivo e sofferente; quando le potenziali forze del cambiamento (sinistra italiana moderata) lasciano che si isterilisca o appanni il nesso essenziale tra rappresentanza degli interessi ed esercizio democratico (rinunciando innanzitutto ad applicare un severo giudizio di classe), il nesso tra condizione materiale e diritti, tra Costituzione formale (qualcuno ha detto “la più bella del mondo”) e Costituzione reale insozzata da tutto ciò che ha nutrito in quest’ultimo ventennio le pulsioni più oscure che albergano nella pancia profonda della nazione; allora può anche accadere che per dignità si scelga di cessare di vivere in un’Italia così imbarbarita.
In piena occupazione straniera Salvatore Quasimodo negli anni quaranta del novecento scriveva ne Alle fronde dei salici: “E come potevano noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze…”. Parafrasandolo, auspice un rivolgimento profondo per una futura umanità, potremmo ai nostri giorni scrivere: “E come potevano noi cantare col piede dell’ingiustizia sopra il cuore, dimentichi di futuro, fra i morti abbandonati nel silenzio delle case…”. (08 aprile 2013)