Carlo Formenti, intervistato dal Bollettino Culturale
da revolucionvoxpopuli.wordpress.com
Carlo Formenti, sociologo, giornalista e militante della sinistra radicale nasce a Zurigo il 25 settembre del 1947. Si laurea in Scienze Politiche a Padova. Negli anni ’70 milita nel Gruppo Gramsci sorto durante la disgregazione del Partito Comunista d’Italia mentre lavora, tra il 1970 e il 1974, come operatore sindacale della Federazione dei Lavoratori Metalmeccaniciin cui ricopre il ruolo di responsabile per gli impiegati e i tecnici.
Dopo lo scioglimento del Gruppo Gramsci partecipa all’esperienza dell’Autonomia Operaiada cui si allontanerà progressivamente dopo la prima metà degli anni ’70.
Negli anni ’80 è caporedattore della rivista culturale Alfabeta e lavorerà per il Corriere della Sera e L’Europeo. In questo periodo pubblica libri molto interessanti come “La fine del valore d’uso” in cui analizza i mutamenti avvenuti nell’organizzazione del lavoro con l’introduzione delle nuove tecnologie. Il rapporto tra lavoro, democrazia e nuove tecnologie sarà portato avanti in “Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy” e “Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media”. In “Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro” si confronta con il lavoro cognitivo e lo sfruttamento nella società post fordista, elaborando un’analisi del plusvalore nella società digitale.
Negli ultimi anni ha pubblicato numerosi libri sul populismo, una sua possibile declinazione da sinistra e l’UE come “La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo” e “Il socialismo è morto. Viva il socialismo! Dalla disfatta della sinistra al momento populista”.
Segnalo inoltre “Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare” in cui si confronta con la tradizione teorica marxista.
Formenti, dalla lettura dei suoi libri mi sembra di capire che cerca di leggere i conflitti dell’attuale società con il prisma del populismo. Parla di scontro tra alto e basso. Che legami ha la sua lettura con quella offerta in merito da Ernesto Laclau, grande filosofo marxista argentino vicino al peronismo di sinistra?
Il legame si riferisce sostanzialmente al fatto che Laclau, pur avendo abbandonato il marxismo a un certo punto del suo percorso intellettuale, è rimasto fedele all’insegnamento di Gramsci, autore del quale ripropone i concetti di blocco sociale, egemonia e guerra di posizione. Concetti che Laclau interpreta a modo suo, declinando il concetto di blocco sociale in termini di “costruzione di un popolo”. La sua idea, semplificando drasticamente, è che quando il sistema non riesce più a offrire risposte differenziate alle rivendicazioni dei diversi gruppi sociali, queste rivendicazioni tendono a saldarsi in una catena equivalenziale (un esempio potrebbe essere il convergere di differenti istanze in movimenti come il 15M in Spagna, OWS negli Stati Uniti e i gilet gialli francesi). In questo modo si forma un confine amico/nemico fra alto e basso, fra popolo ed élite e, se esistono forze politiche in grado di assumere la guida di questa contraddizione, è possibile arrivare a un cambio di sistema. Fin qui, la sua descrizione del “momento populista” è condivisibile e descrive in modo fedele le dinamiche della lotta politica non solo in America Latina, dove il fenomeno nasce già negli anni Cinquanta con il peronismo, ma anche in Europa e negli Usa, dove la disarticolazione della classe operaia ha fatto sì che i conflitti sociali assumessero a loro volta questa colorazione “populista”. Dove non lo seguo più è 1) laddove non si limita a riprendere la critica di Gramsci alla visione marxista dogmatica del rapporto fra struttura (composizione di classe) e sovrastruttura (ideologie) ma, invece di riequilibrare tale rapporto, lo rovescia completamente mettendo al primo posto la sovrastruttura, il che fa sì che l’egemonia non è più riferibile alle classi subalterne ma può spettare indifferentemente a uno qualsiasi degli anelli della catena equivalenziale di cui sopra in base a motivi contingenti; 2) laddove teorizza la centralità del leader carismatico come insostituibile riferimento simbolico del processo rivoluzionario. Le sconfitte che le rivoluzioni bolivariane hanno subito negli ultimi tempi dimostrano invece che, quando l’egemonia passa dalle classi subalterne ai ceti medi, e quando non esistono alternative dopo l’uscita di scena del leader perché non si è provveduto a costruire una leadership collettiva, il disastro è assicurato.
Negli anni ’90 Lasch parlava di secessione delle élite dalle masse. Oggi quella che viene definita sinistra rappresenta il voto di classe dei quadri tecnici, gli studenti universitari, gli intellettuali che abitano in metropoli cosmopolite come Parigi o New York e pretendono di non avere nessun vincolo con il popolo che anzi disprezzano. Masse che sono state espulse dalle città dai processi di accumulazione del capitale o rinchiusi in ghetti dove lottare per il poco welfare rimasto con gli immigrati. Da operaio che non ha avuto la possibilità di studiare molto, è un profondo odio di classe che percepisco sulla mia pelle ogni giorno quando sento questi elettori di sinistra insultare gli elettori della Lega o del Movimento Cinque Stelle chiamandoli “gli ignoranti che guadagnano mille euro al mese”. Riscontra anche lei questa riconfigurazione complessiva del voto di classe tra centro e periferia all’interno di ciascun paese?
Non la riscontro in termini di percezione soggettiva, anche se provo anche io un profondo odio di classe nei confronti delle sinistre “parioline”: la riconfigurazione di cui parla è un fenomeno empirico già ampiamente confermato e studiato da sociologi politologi ed economisti. Thomas Piketty, in uno studio sui comportamenti elettorali dei vari strati sociali dagli anni Cinquanta a oggi nei maggiori Paesi occidentali, dimostra dati alla mano, che mentre in passato i voti degli strati meno abbienti e meno acculturati andavano a sinistra e quelli degli strati medio alti andavano al centro e a destra, oggi questi comportamenti si sono del tutto invertiti. I voti popolari vanno a destra in assenza di una rappresentanza politica dei loro interessi e bisogni da parte di una sinistra socialdemocratica che si è convertita all’ideologia liberista e di una sinistra radicale che ha abdicato a ogni velleità anticapitalistica per concentrarsi sui diritti civili di immigrati, donne, minoranze sessuali, ambiente, animali, ecc.
Sulla crisi del movimento comunista vorrei chiederle esattamente dove nasce il punto di rottura con le masse popolari. Lei viene da Autonomia Operaia, un movimento straordinario che contestava la cultura politica del PCI negli anni ’70, consapevoli, se vogliamo, della direzione intrapresa già all’epoca dal capitalismo nella sua transizione al post fordismo. A me viene in mente in merito a ciò un discorso che fece George Marchais, a lungo segretario del Partito Comunista Francese e non certo amico di quei movimenti nati in Europa alla sinistra dei partiti comunisti, contro l’immigrazione ma anche i socialisti che all’epoca già disprezzavano gli operai, “sans dents”, come li descrive Hollande. Allora Marchais difendeva le masse popolari francesi da un’immigrazione incontrollata che avrebbe danneggiato in primis i proletari francesi perché anche se le élite metropolitane parlano di mondo senza confini, tengono bene in piedi quei confini di classe dentro le città che diventano gentrificazione ed espulsione della forza-lavoro nei piccoli e medi centri urbani. In fondo, parla lo stesso linguaggio di Marine Le Pen che infatti vince dove un tempo dominava il PCF. Che spiegazione riesce a darci di ciò?
Il paradosso è che oggi i “nipotini” dell’Autonomia Operaia (e degli altri movimenti post sessantottini) si collocano a destra (in termini marxisti) del vecchio PCI che in quegli anni contestavano da sinistra. Questo perché, come dicevo poco fa, si sono trasformati in movimenti “single issue” che non contestano il sistema in quanto tale. La questione dei migranti è un esempio tipico di tutto ciò: l’ideologia “no border” rimuove completamente un aspetto che era invece ben presente nel discorso dei Marchais, dei Togliatti e degli altri leader comunisti, i quali ricordavano l’insegnamento di Marx sull’uso capitalistico dell’immigrazione (ai suoi tempi lo aveva visto in opera con l’immigrazione irlandese in Gran Bretagna) come arma per scatenare la concorrenza fra poveri onde poter abbassare salari e ridurre la capacità contrattuale dei lavoratori autoctoni (è appena uscito in merito, “Lavoro importato”, un interessante libro di Barba e Pivetti). Ciò non significa che occorra inseguire Salvini e la Le Pen sul terreno della demonizzazione degli immigrati, facendone il capro espiatorio della rabbia proletaria. Il punto è lottare 1) perché chi è già qui venga regolarizzato e le sue condizioni contrattuali equiparate a quelle dei locali in modo da impedire la guerra fra poveri, 2) perché i flussi migratori vengano regolati per poter accogliere solo chi può essere integrato sia sul piano lavorativo che sul piano dei diritti sociali.
Lega e Cinque Stelle hanno raccolto il voto dei ceti popolari, di coloro che sono stati presi in giro dalla sinistra che ha letto gli eventi dopo il 1989 come l’occasione per spingere sull’acceleratore della globalizzazione. Mi sembra evidente che questa lettura di quegli eventi ha provocato la morte del ceto medio occidentale, come ha affermato giustamente Christophe Guilluy, e su questo malessere è nato il successo del populismo. Ma queste due forze politiche stanno dimostrando di non essere antisistemiche. I Cinque Stelle governano con il partito espressione della borghesia cosmopolita ed europeista e perciò risulta funzionale al processo di configurazione dell’UE come polo imperialista indipendente mentre la Lega ancora blatera di flat taxe neoliberismo, una gestione autoritaria dell’ordine costituito sul modello ungherese o russo. Come può affermarsi oggi in Italia una forza anticapitalista in un contesto simile?
A questa domanda è difficile rispondere. Personalmente credo che le chance di costruire un’alternativa siano legate a una serie di circostanze la cui realizzazione è allo stato del tutto imprevedibile. Occorrerebbero esplosioni sociali come quelle che si sono realizzate in Spagna e in Francia (gilet gialli e non sardine e fan di Greta Thunberg!) e che qui da noi mancano da Genova 2001. Occorrerebbe una scissione all’interno dell’M5S con la fuoruscita di tutti quelli che si erano avvicinati al movimento illudendosi che potesse realmente svolgere una reale azione antisistemica. Occorrerebbe, soprattutto, che, nel caso si verificassero queste e altre condizioni, ci fosse una forza politica in grado di sfruttarle per costruire un partito anticapitalista di massa. Purtroppo, per quanto riguarda quest’ultimo cruciale punto, siamo quasi all’anno zero: i vari cespuglietti comunisti fanno francamente pena e, ad eccezione forse del piccolo partito di Rizzo, cercano solo di lucrare qualche seggio in elezioni locali accodandosi al centrosinistra; quanto alle formazioni “sovraniste di sinistra” (termine orrendo ma tant’è) campo in cui anch’io sto attualmente militando, sono ancora minuscole e non riescono ad accordarsi per fare massa critica. Come si dice, la speranza è l’ultima a morire ma, se devo essere franco e vista la mia età, temo che a morire sarò prima io, mentre a voi auguro di fare in tempo a vedere qualcosa di nuovo.
Molte formazione del populismo di sinistra sembrano in crisi. In Francia Mélenchon sta perdendo terreno, purtroppo anche a causa di dissidi interni alla sinistra francese, mentre in Spagna Podemos cerca di governare con i socialisti che hanno come unico obiettivo la loro distruzione. Come giudica questa situazione politica?
Sia Podemos che France Insoumisescontano un difetto di origine: hanno intuito la necessità di cogliere le chance offerte dal momento populista della lotta di classe per superare i limiti delle vecchie sinistre dei rispettivi Paesi, e hanno capito (Mélenchon più diPodemos che su questo non ha mai sciolto le sue ambiguità) l’importanza di assumere il tema della sovranità nazionale contro la colonizzazione da parte del capitalismo globale incarnato dalle istituzioni della Ue, non sono invece riusciti a sbarazzarsi del tutto del vecchio armamentario ideologico delle sinistre radicali convertite alla centralità dei diritti civili e all’ideologia “liberal”. Così sono caduti entrambi nella trappola del frontismo “antifascista”, alleandosi con il centrosinistra per scongiurare la minaccia del populismo di destra. Questo antifascismo senza fascisti (Salvini e compagnia varia non sono fascisti ma, appunto, populisti di destra che hanno costruito il proprio successo agitando obiettivi che avrebbero dovuto essere fatti propri da sinistre degne di questo nome) è stato la tomba per questi movimenti: in particolare Podemos si è fatto “mangiare” dal Psoe (partito con cui non ha nulla da spartire e che fin dall’inizio aveva l’obiettivo di far fuori qualsiasi forza si muovesse alla propria sinistra) che, sfruttando la mobilitazione frontista contro Vox, ha potuto sfruttare la logica del “voto utile” mettendo all’angolo Podemos. E, quel che è peggio, questa logica frontista ha fatto sì che queste forze venissero riassorbite nel coro europeo condotto dai partiti e dai media neoliberali che invocano alla crociata contro il “populismo sovranista”.
Anche in America Latina il cosiddetto “socialismo del XXI secolo” sembra in crisi. In Bolivia è avvenuto un tremendo golpe che in Venezuela invece è fallito, anche grazie all’alleanza civico-militare su cui è sorto il chavismo. In Ecuador c’è stato il tradimento di Lenin Moreno e in Brasile il golpe contro il PT. Ritiene che uno dei limiti di questi movimenti sia stato il non aver messo radicalmente in discussione il capitalismo periferico, sfruttando i margini degli alti prezzi delle materie prime per finanziare i propri programmi sociali?
No i problemi sono molto più complessi ed esistono differenze fra i vari Paesi citati nella domanda. Io non penso che le sconfitte siano nate da “errori” (anche se ne sono stati fatti: per esempio in Venezuela non si è investito abbastanza per garantire la sovranità alimentare del Paese, in Ecuador si sono fatte troppe concessioni alle destre dimenticando che così si indeboliva la propria base sociale senza ottenere nulla in cambio, in Bolivia si è sopravvalutata la capacità di integrare le classi medie nel blocco sociale rivoluzionario e sottovalutata la capacità di resilienza della borghesia, in tutti questi Paesi non si riusciti a costruire una leadership collettiva in gradi di succedere ai vari Chavez, Correa e Morales, ecc.). Credo tuttavia che il punto cruciale sia il seguente: le politiche economiche postneoliberiste attuate da questi governi hanno ampliato e rafforzato le classi medie senza che ci fosse il tempo di “educarle” politicamente, per cui gli stessi beneficiari della rivoluzione le si sono rivoltati contro in nome dei propri interessi corporativi. Si poteva fare altrimenti? Non lo so, ma non credo che una politica più radicale in termini di nazionalizzazioni avrebbe cambiato molto. L’altro nodo irrisolto (ma questo riguarda l’intera storia del movimento socialista non solo quella del secolo XXI) è la convivenza fra socialismo e democrazia rappresentativa: se sei andato al potere per vie legali, per tenerlo devi mantenere l’egemonia politica per tempi assai lunghi perché, altrimenti, appena perdi un’elezione il nemico di classe può disfare i in poche settimane anni e anni di lavoro; né basta affiancare le istituzioni di democrazia tradizionale con forme di democrazia diretta e partecipativa perché così si crea un dualismo istituzionale inevitabilmente destinato a creare tensioni antagonistiche. Su questi temi consiglio la lettura del libro del vicepresidente Linera che uscirà fra un paio di mesi in edizione italiana (con una mia postfazione) dall’editore Meltemi.
Una certa sinistra no border, in cui faccio rientrate uno dei grandi pensatori degli anni ’70 come Toni Negri, fatica a comprendere la necessità di politiche migratoria. Fa ancora più fatica a leggere i drammi che sconvolgono l’Africa e il Medio Oriente senza usare categorie come l’imperialismo ma anche tutto quel filone della Teoria della Dipendenza, con i vari Giovanni Arrighi, Samir Amin, Ruy Mauro Marini, che sembra conoscere abbastanza bene. Lei ritiene che una forza anticapitalista debba riprendere in mano questa cassetta degli attrezzi per affrontare l’odierna crisi migratoria?
Su Negri e soci mi risparmio la risposta (ne ho già parlato prima a proposito delle sinistre no border). Per quanto riguarda la seconda parte della domanda rispondo lapidariamente di sì: la cassetta degli attrezzi che ci hanno lasciato autori come Samir Amin e Arrighi è fondamentale non solo e non tanto per la questione migratoria quanto per comprendere l’intera fase capitalistica che stiamo vivendo, la natura della società cinese, le prospettive di sviluppo del sistema geopolitico dopo la fine dell’egemonia americana e molte altre cose.
Altro tema delicato è l’UE. Questa struttura classista è stata voluta e costruita dalla borghesia italiana per rompere le gambe al movimento operaio, utilizzando la scusa del vincolo esterno per ridurre a mero teatrino il nostro Parlamento e buttare nel cestino della carta la nostra Costituzione. Una doverosa risposta a ciò potrebbe essere la difesa di una sovranità nazionale e della patria come spazio in cui portare avanti politiche a favore delle masse. Molti a sinistra reputano che l’UE sia ormai lo spazio in cui condurre la lotta di classe, non vedendo i rapporti di dipendenza che stanno trasformando l’Italia in una semiperiferia dipendente dal capitale tedesco. Qualcuno ha fatto ammenda, come il suo amico Franco Berardi “Bifo”, ma altri insistono su questa strada a mio avviso sbagliata. Vorrei sapere cosa ne pensa dei tentativi di riforma dell’UE proposti da Varoufakis e della MMT che riemerge come teoria economica da affiancare a questo ritorno alla sovranità nazionale.
Anche qui consentitemi di essere lapidario, del resto la prima parte della domanda contiene già la risposta; rispetto alla seconda parte la risposta è un secco no: non esiste alcuna possibilità di riforma della Ue perché la sua intera struttura istituzionale (la sua costituzione materiale, che coincide con i Trattati) è costruita in modo tale da renderla a priori irriformabile. L’unica via per ricostituire i margini per la difesa degli interessi delle classi subalterne è riconquistare la nostra sovranità (/a partire da quella monetaria). Questa Europa dev’essere solo distrutta perché non la si può riformare.
Ha scritto nei suoi libri molto sulle illusioni di internet come strumento per ampliare la democrazia. Ritengo corretta questa sua affermazione e da comunista di derivazione maoista non posso che riprendere tutta la critica alla neutralità della tecnica. Crede, come fa in Francia Jean-Claude Michéa, che dobbiamo liberarci di questa metafisica del progresso come base di ogni concezione borghese del mondo?
Ho scritto almeno cinque libri di critica alla neutralità della tecnica e contro le illusioni sulla cyberdemocrazia, quindi consentitemi di rinviare a quelli (e ai lavori di Michéa con cui sono in piena sintonia) perché non posso sintetizzare in poche parole centinaia di pagine. Sulla questione dell’ideologia progressista, modernista e nuovista delle sinistre (tutte, non solo quelle postmoderne ma anche in una certa misura quelle dei maestri del marxismo, compreso Marx) è appena uscito un mio dialogo con Onofrio Romano (Rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, DeriveApprodi).
Ritiene il movimento dei gilets jaunes, come Occupy Wall Street e M15, destinato a spegnersi o è un’avvisaglia di un prossimo risveglio delle masse europee da questa impasse di deflazione salariale e trappola di liquidità che è l’UE?
Rispondo con una citazione dal libro di Linera di cui ho preannunciato poco fa l’uscita: questi movimenti, nella misura in cui non si pongono la questione del potere politico, sono destinati a spegnersi perché se si nega a priori la possibilità di cambiare le relazioni di dominio, l’orizzonte delle lotte si restringe riducendo queste ultime a “una dispersione caotica e frammentaria di sforzi disconnessi”.