Il voto siciliano, Grillo e la sinistra

di Bruno Steri | da web.rifondazione.it

grillo-nuotoPubblichiamo come contributo alla discussione

Ha ragione da vendere Valentino Parlato nel dire che nessuno ha granchè da gioire per l’esito delle elezioni siciliane, neanche chi è stato indicato dai numeri quale vincitore. A maggior ragione, a sinistra non ci si può esimere dall’esercizio di una severa autocritica: questo voto costituisce infatti per la sinistra del nostro Paese qualcosa di più dell’ennesimo campanello d’allarme. Per molti versi, direi che è un punto di non ritorno: troppi gli errori, i limiti soggettivi, le egoistiche miopie, la progressiva frammentazione e inconsistenza quantitativa e qualitativa, per poter ancora pensare di andare avanti imperterriti ciascuno per la propria strada (sia detto ciò, senza nulla togliere alla passione, alla generosità con cui tante compagne e tanti compagni hanno affrontato questi ultimi due “terribili” decenni).

Da tale complessivo arretramento discende l’obbligo di una riflessione a 360 gradi su quel che si è fatto e quel che si può ancora fare, su come tornare a costituire un riferimento ideale e un concreto strumento di azione politica per le classi subalterne, nel contesto di una crisi economica e sociale che persiste ed è destinata a durare. A una tale riflessione sono obbligati quanti (partiti, forze sociali, associazioni solidaristiche, movimenti, singoli individui senza più tessera o appartenenza organizzata) hanno pur provato sin qui ad opporsi alle micidiali politiche antipopolari congegnate e attivate sull’asse Bruxelles/Roma. Si tratta di un compito che è ovviamente interno alle singole forze politiche ma che, tuttavia, dovrebbe esser concepito come idealmente collettivo, trasversale alle diverse organizzazioni: poiché non è semplicemente in questione la prospettiva di questo o quel soggetto, di questo o quel gruppo dirigente, questa o quella comunità di militanti, ma sono in gioco quanto meno le sorti di un comune impegno in vista diun’uscita dalle secche di un neoliberismo arrogante ma in evidente crisi di egemonia.

Non intendo qui soffermarmi sui fattori contingenti e le peculiari condizioni che hanno influito cosìnegativamente sull’esito di questa contesa: la tradizionale debolezza dell’insediamento politico locale della sinistra, il ripetersi di autolesionistici errori politici (il mancato costituirsi di un’unica lista tra tutti i partiti che hanno sostenuto Giovanna Marano, così da mettere in sicurezza il superamento dello sbarramento elettorale), cui si è aggiunto un incredibile inciampo organizzativo (l’esclusione per irregolarità tecnica del candidato della prima ora, con conseguente precipitosa inclusione di una candidata resasi nel frattempo generosamente disponibile). Tutto vero, ma ciò non basta a giustificare l’entità dell’insuccesso e a sgombrare da serie preoccupazioni il breve cammino che conduce alle elezioni politiche. Oltre tutto, a rendere ancor più eclatante il risicatissimo consenso elettorale conseguito in Sicilia da FdS, SEL, Verdi e IdV, c’è per contrasto l’exploit(peraltro abbondantemente annunciato) del M5S. Dunque, non solo la sinistra – che qui identifico e circoscrivo all’insieme dei soggetti che si sono opposti sin dall’inizio e senza equivoci alle cosiddette politiche di austerità – non riesce a porsi nemmeno come parziale compensazione rispettoalla tendenza ad un sempre più marcato distacco dei cittadini dall’esercizio del voto e dalla politica:un distacco che ha ormai clamorosamente raggiunto dimensioni “americane”. Non solo non riesce a guadagnare consenso e a rappresentare il grosso dei ceti sociali colpiti dalla crisi, i qualiverosimilmente dovrebbero premiare quanti si sono nettamente opposti alle misure “lacrime e sangue” varate in questi mesi (oltre che punire quelli che le hanno supportate). Ma, in aggiunta,essa è vampirizzata sullo stesso terreno dell’opposizione al governo Monti da un nuovocontendente, troppo frettolosamente etichettato come espressione dell’ “antipolitica”: contendenteche oggi si mostra talmente vivo, efficace e dinamico da insidiare addirittura le prime posizioni nella corsa alla futura composizione parlamentare.

La domanda è banale e dobbiamo porcela: perché questo accade? Certamente, in una condizione di generale arretramento delle condizioni di vita, il M5S ha saputo pescare nel profondo malumore degli italiani, indirizzato verso il governo e genericamente verso tutto il sistema dei partiti, visti come responsabili dell’involuzione di questi anni. Il governo Monti, nonostante il sostegnobipartisan delle principali forze politiche e di un apparato mediatico che mai è stato così poderoso e compattamente uniformato, non ha potuto sottrarsi del tutto a un risentimento diffuso e distribuito sia sul versante sinistro che su quello destro dello schieramento politico. Del resto, il “serio e responsabile” aplomb del Presidente del Consiglio e la martellante insistenza sulla pretesa inevitabilità dei sacrifici (There is no alternative – non c’è alternativa, diceva la signora Thatcher)non bastano a coprire la scandalosa iniquità delle manovre decise in questi mesi: le quali hanno colpito sempre e solo i ceti meno abbienti, abbattendo il potere d’acquisto delle famiglie, allargando l’area della povertà, riducendo i consumi (a cominciare da spese essenziali come quelle per i generi alimentari), aumentando la disoccupazione. Meno diffusa, purtroppo, è la conoscenza del fatto che tali politiche, oltre che profondamente ingiuste e classiste, sono anche del tutto fallimentari dal punto di vista degli stessi obiettivi anti-crisi. I mezzi d’informazione si sono ben guardati ad esempio dal diffondere i dati pubblicati a metà ottobre dal Bollettino della Banca d’Italia: dati che certificano il disastro provocato dalle misure governative. Dal 31 ottobre 2011 in poi, dunque nel periodo in cui Monti ha governato, il debito pubblico è cresciuto del 3,09%, arrivando in cifra assoluta a sfiorare i due miliardi di euro (1975,63) e peggiorando le performaces del precedente governo: negli ultimi 12 mesi del governo Berlusconi, il debito era infatti cresciuto “solo” del 2,38%. Se poi prendiamo in considerazione il rapporto tra debito e Prodotto interno lordo (Pil), il parametro più propriamente monitorato secondo i dettami di Maastricht, i segni della regressione sono ancora più netti: 2008: 106,1%; 2009:116,4%; 2010: 119,2%; 2011: 120,7%; 2012: sicuramente oltre il 125% (ma ci si potrebbe avvicinare al 130% se il debito degli ultimi quattro mesi dell’anno aumentasse di altri 25 miliardi di euro e se fossero confermate le previsioni di un calo del 2,6% del Pil). In definitiva, tagliando i redditi e deprimendo la domanda, il governo Monti- ottenebrato dai suoi orientamenti liberisti e sollecitato dagli interessi del Gotha economico-finanziario – sta alimentando la deriva recessiva. Nel merito, è grave che sin qui il Partito Democratico si sia reso complice di un tale scempio; ancor più grave è che nella Carta d’intenti predisposta per le primarie di coalizione del centro-sinistra – un documento che deve prefigurare l’impostazione complessiva di un eventuale futuro governo – delle responsabilità (nominative) di tale scempio non si faccia parola. Ovviamente, Beppe Grillo ringrazia.

Ma torniamo alla domanda: perché Grillo? Occorre subito dire che il M5S raccoglie gli umori del tempo. Più precisamente, la sua corrosiva (quanto generica) critica è, per molti, tanto più attraente in quanto si sintonizza sugli effetti di vent’anni di desertificazione politica e culturale prodotta dal berlusconismo. Con “berlusconismo” si vuol alludere a un mondo dominato da un mix di edonismo e darwinismo sociale, un sistema di (pseudo)concezioni, (dis)valori di riferimento, propensioni individuali e collettive evidentemente egemonizzato dalla persona che dà nome al fenomeno, ma che di fatto anche quella che è stata la sinistra ha contribuito a creare: smantellando il proprio impianto concettuale e i propri valori di riferimento, limitandosi a una blanda e difensiva opposizione (valga tra tutti gli esempi possibili l’incapacità del centro-sinistra, che pure nel corso di questi venti anni ha avuto modo di governare, di promuovere uno straccio di legge contro il conflitto di interessi). Del suddetto impianto concettuale, dei valori della sinistra ben poco sa la gran parte dei ventenni e dei trentenni di oggi, come del resto è del tutto naturale. Principalmente (ma non solo) ad essi si è rivolto Beppe Grillo, puntando su un vivo e fondamentalmente etico desiderio di pulizia, sulla reazione spontanea che suscita lo schifo della realtà neoliberista e la corruzione in essa montante, sull’insofferenza per le ipocrisie della politica e le lungaggini dei rituali burocratici (che tuttavia sono anche il sale della democrazia). Ma la caratteristica decisiva dell’approccio del M5S è di essere trasversale: “Noi non siamo né di destra né di sinistra” ha ripetutamente dichiarato il candidato siciliano di Grillo. E’ qui che acutamente viene colto e piegato a proprio vantaggio il lato oscuro del nostro tempo: esplicitando la pretesa di stare alle cose concrete, per così dire di andare alle cose stesse (e al “buon governo” delle cose: “Voteremo le proposte giuste, da qualsiasi parte vengano”), al di là e a prescindere da ogni appesantimento ideologico (appunto, di destra o di sinistra). Riflettiamoci bene: alcuni dei temi agitati da Grillo nei suoi monologhi potrebbero tranquillamente far parte di una nostra arringa politica, ma ci sono tre parole che sono del tutto estranee al movimento grillino: Socialismo, Sinistra, Partito. Non a caso sono le stesse a cui, viceversa, noi (noi comunisti e non solo) abbiamo affidato una parte importantedella nostra impresa politica. La degenerazione dei partiti di massa ha agito molto più a fondo di quanto forse le nostre stesse antenne non abbiano percepito, abbassando la qualità della politica, inducendo macroscopici fenomeni di corruttela delle istituzioni e delle compagini partitiche,favorendo il disegno di un secco restringimento degli assetti democratici di cui i partiti dovrebbero essere perno insostituibile. Così, le narrazioni del “pensiero unico” stanno svuotando di senso e riducendo a vecchi e inutilizzabili arnesi ciò che le tre parole anzidette rappresentano. Grillo segue il vento e incassa: Socialismo è roba vecchia (figurarsi Comunismo), via la Sinistra e la Destra e viai Partiti. Per completezza di argomentazione, annoto che anche qui dallo stesso versante sinistro è arrivato un consistente contributo: con il passaggio da Pci a Pds è sparita la qualifica di “comunista”; con Ds è caduta la parola “partito”; con Pd è ricomparso “partito” ma è stato depennato il termine “sinistra”. Se i nomi designano cose, un tale itinerario vorrà pur dire qualcosa:contrariamente a quanto avviene in gran parte dell’Europa, oltre a non esserci una forza di sinistraall’altezza della situazione, in Italia il maggior partito del centro-sinistra ha deciso di chiamarsi“Democratico” e non “Socialista”. Non si tratta di un’inezia linguistica. Ed è del tutto improprioparlare del movimento grillino in termini di “antipolitica”, essendo esso invece uno degli esiti cheuna certa politica ha contribuito a determinare.

Su tali oggettivi decorsi – oltre che sull’indubbia capacità comunicativa di un ex-comico intelligenteche sa bene come si cattura l’immaginazione dei propri interlocutori – il movimento di Grillo sta costruendo la sua prepotente ascesa: una fortuna a mio giudizio altamente instabile, come instabili sono tutte le fortune politiche edificate su fragili fondamenta e prevalentemente sulla scia di una forte personalizzazione (oltre che su di una temporanea benevolenza mediatica). Ma, soprattutto, a mettere a dura prova la compattezza del M5S sarà, a mio giudizio, un connotato contraddittorio giustamente segnalato in una ricerca condotta dal Centro Italiano Studi Elettorali (Cise) della Luiss, dedicata all’analisi della composizione del consenso grillino: un consenso che è, come si è detto, trasversale e che resta complessivamente concorde nell’esprimere propensioni ambientaliste e libertarie in tema di etica, ma che si divide radicalmente tra posizioni progressiste e posizioni liberiste davanti ai problemi socio-economici (ad esempio, divaricandosi davanti all’interrogativo se sia giusta o meno una maggiore “libertà di licenziare”). Qui salta l’impianto interclassista o, se si vuole, a-classista del M5S. E’ per questo che le nostre ragioni restano nonostante tutto più forti di quelle di Grillo anche sotto il profilo delle potenzialità di consenso. Significativa è, in proposito, nonostante tutti gli strepiti contro il governo, l’assenza del M5S dall’impegno referendario che sta portando i nostri banchetti in tutte le piazze italiane per la raccolta delle firme.

Tutto questo ci obbliga però a tornare sui nostri limiti, le nostre attuali difficoltà, il cui centro è a mio parere costituito dalla mancanza, in Italia, di un vero e proprio raccordo programmatico epolitico, nelle forme organizzative possibili (seppure non in quella di una reductio ad unumpartitica) tra le diverse forze della sinistra (partitica, sociale, di movimento) che da subito si sono opposte agli orientamenti dominanti in questa Europa e alle politiche di austerità così come vengono rigorosamente applicate anche nel nostro Paese. Così com’è, la sinistra non è in grado di esprimere tutto il potenziale della sua forza attrattiva, di tradurre in una prospettiva realistica e credibile la sua proposta di difesa delle classi subalterne e di contrasto della crisi capitalistica. Gravi responsabilità pesano su ciascun gruppo dirigente, seppure in modi e misure differenziate. Ed è un vero peccato, perchè – su questo ha ragione Luigi Vinci – la partita non è affatto chiusa, in Europa come in Italia; e le forze della restaurazione neoliberista, incalzate dal perdurare della crisi e dagli effetti fallimentari, socialmente intollerabili, delle loro politiche, sono lungi dall’aver raggiunto una sintesi solida e durevole. L’autorità indipendente che contribuisce alla messa a punto del piano di finanza pubblica del governo britannico confessa pubblicamente in un documento di aver sottostimato l’impatto delle manovre restrittive sul Pil: avevano stimato una crescita del Pil tra il primo trimestre 2010 e il secondo trimestre 2012 del 5,7%, invece di quel che è stata la crescita reale: 0,9%. In due anni, un errore di 5 punti percentuale! Persino il Fondo monetario non è più così sicuro che la priorità sia sic et simpliciter la riduzione del debito pubblico; e che – caschi il mondo – più debito equivalga automaticamente a meno crescita. Disgraziatamente, l’Europa – e Monti con essa – procedono senza il minimo tentennamento sulla strada della cosiddetta “austerità espansiva”.Lo stesso presidente della Bce Mario Draghi, pur avendo messo un paio di pezze monetarie per fermare lo sprofondamento dell’euro e avendo concesso abbondante ossigeno per la crisi di liquidità delle banche europee, si allinea poi al rigore tedesco quando si tratta dell’essenziale dei rapporti di classe: anzichè imprimere una svolta alla drammatica crisi economica e sociale, impone per il ricorso al cosiddetto “Fondo Salva-Stati” dei Paesi in difficoltà la strada lacrime e sangue delle “condizionalità”. E’, né più né meno, la conferma del calvario greco.

Il problema è che il Pd – nonostante l’evidente durissimo conflitto interno – con l’autorevole sovrintendenza del Presidente della Repubblica, non si è fin qui distaccato e non pare in grado di distaccarsi nel prossimo futuro da un percorso chiaramente tracciato. Il decimo e ultimo paragrafo della già citata Carta d’Intenti è, nel merito, fin troppo chiaro. Inoltre, le sortite di Berlusconi e il risultato siciliano hanno riavvicinato i centristi, aumentandone ulteriormente il peso contrattuale e consolidando la prospettiva di una coalizione tra “centro-sinistra e moderati”. Non a caso, il Presidente Napolitano ha subito colto l’occasione per tornare alla carica e sollecitare il varo di una legge elettorale che favorisca la formazione di un governo all’insegna del continuismo montiano(magari con lo stesso Monti insediato al Quirinale). In una situazione politica e sociale cosìdrammaticamente deteriorata, la sinistra ha il dovere di rendersi riconoscibile con una sua proposta e un suo programma di governo in radicale opposizione alle politiche di Monti e agli orientamenti di Bruxelles: come d’altra parte avviene in tutto il resto del continente. Da questo punto di vista, sono da apprezzare gli sforzi e le sollecitazioni che provengono (anche e soprattutto) dal di fuori dei partiti, ad esempio da un importante esponente istituzionale quale è oggi il sindaco De Magistris.

In ogni caso, va dissipato qualche banale equivoco. Dire che non vi sono le condizioni per condividere un programma di governo col centro-sinistra e col Pd non equivale a precludersiqualunque interlocuzione come che sia: non c’è nulla da dire con Storace, Alfano o Casini; al contrario, si può e si deve interloquire con Bersani (intendo sul tavolo nazionale, visto che a livello regionale lo si fa già). Come ha annotato Oliviero Diliberto in una sua recente intervista, adifferenza dell’estremismo infantile e settario, i comunisti non si sono mai accontentati di declamare le loro ragioni e hanno sempre occupato tutti gli spazi di mediazione e i canali dicomunicazione possibili, per dare respiro e gambe alla loro azione. Ovviamente, quel che non si può fare nell’esercizio di una tale dialettica è perdere contatto con i vincoli obiettivi che circoscrivono lo spazio di una posizione ed un progetto politici. Si può infatti morire politicamente in diversi modi: di consunzione estremistica e minoritaria (e penso che nel Prc questa pulsione siapresente), per estraniamento da sé e perdita della propria identità (e penso che questa pulsione siapresente nella FdS). Occorre sfuggire a entrambi i suddetti esiti, provare a fare tutti un passo indietro e a ricostruire una sinistra nel nostro Paese. Anche perché, quale che sia l’interlocuzione, un conto è farla alla spicciolata, altro conto è condurla da accettabili posizioni di forza. Così è successo in Grecia con la formazione di Syriza, così è successo in Francia nella costituzione del Front de Gauche. Spero che non sia ancora troppo tardi e che i diversi gruppi dirigenti trovino la forza, l’umiltà, la lucidità per evitare che l’Italia rimanga l’unica negativa eccezione e per farnascere anche qui un polo di sinistra.

P.s.: Non mi sfuggono le contraddizioni in cui si è incartata la Federazione della Sinistra: ma, lungo questo cammino, la sua permanenza organizzata continua ad apparire a me – e credo anche alle migliaia di compagne e compagni che affollarono le strade di Roma lo scorso 12 maggio – come una condicio sine qua non.