Il “redde rationem” nel PD

 di D.P. | il Manifesto

 

fassina pd-w350Troppo di sinistra, i liberal chiedono la testa del responsabile economia del partito. Ma il leader lo difende. Ichino si smarca dalla pattuglia di Enzo Bianco. Anche Veltroni prende le distanze: «Il paese ha ben altri problemi». Ma di fatto è il fischio di inizio della battaglia interna del Pd contro il segretario. Follini: il voto a Monti per noi è un congresso. Marino: il problema esiste e va affrontato presto.

 

Finisce in un coro di no e di attestati di stima, ma la richiesta di dimissioni del responsabile economico del Pd Stefano Fassina, arrivata ieri da parte del gruppetto dei liberal di Enzo Bianco, è il segnale di Roncisvalle: dopo due settimane di pax democratica sul governo Monti, la battaglia interna del Pd riprende. E come: tirando su uno degli uomini più vicini al segretario. Era nell’aria, da giorni, la richiesta della testa del giovane bersaniano della segreteria, l’uomo del Pd ai tavoli riservati con gli alleati del Nuovo Ulivo e dei rapporti con la Cgil di Susanna Camusso, sempre presente anche ai cortei della Fiom di Landini.

Non un bolscevico, però: esperto di economia, bersaniano, bocconiano. Classe ’66, ha conosciuto nel 90, da studente della Pantera bocconiana, «ci fu», giura, all’attivo pure una occupazione-lampo: la sua facoltà di discipline economiche e sociali doveva essere smantellata, lui da rappresentante degli studenti andò a trattare. Con il rettore Monti. «E lì l’ho conosciuto, la sua qualità di persona per bene. La facoltà non fu chiusa», racconta. Ha lavorato al Fondo monetario finché nel 2006 non lo ha chiamato Prodi.

Ieri hanno provato a dimetterlo in cinque: con Bianco, Ludina Barzini, Andrea Marcucci, Luigi De Sena e Pietro Ichino, che poi si è dissociato. «Le sue posizioni appaiono in netta dissonanza rispetto alle linee di responsabilità e di rigore assunte dal segretario». Bersani dice di cadere dalle nuvole: «Questa richiesta non l’ho proprio capita». «Fassina si rifà a documenti approvati dal partito». Quelli della conferenza sul lavoro di Genova, lo scorso giugno. Per titoli: non contro Marchionne ma non a favore, per la contrattazione di secondo livello ma non contro il contratto nazionale, non contro la Bce ma non per l’Ue a trazione di destra. Ma allora c’era Berlusconi. Ora il premier è Monti e l’area liberal-liberista Pd, dal veltroniano Enrico Morando all’anti articolo 18 Pietro Ichino esulta e chiede il cambio di linea.

Ma non è da qui che arriva la richiesta di dimissioni. Anzi, Veltroni prende le distanze, con parole un po’ agre: «Il paese ha ben altri problemi». Come Letta, vice di Bersani, altro liberal: «Occupiamoci dei problemi dell’Italia, risolveremo le nostre vicende tra noi».
Per il resto il coro dei no alle dimissioni è unanime: Marini, Damiano, Pollastrini, persino un gruppo di veltroniani, Meta, Lolli. Stecca solo Ignazio Marino: no alle dimissioni ma «il problema» c’è e «serve un chiarimento nella direzione nazionale». Non sarà una dichiarazione di guerra, ma il caso rischia di riproporsi in aula nei voti al primo provvedimento di Monti.

I bersaniani buttano acqua sul fuoco, esibiscono certezze sul fatto che il professore non farà proposte troppo lontane da quelle del Pd. Quanto a Fassina, «è l’instancabile organizzatore del convegno sulla microimpresa, sabato. E di quello del 29, sulla proposta del Vaticano di un’autorità per governare la finanza», affidando le conclusioni a Franco Marini. Ma qualche insofferenza filtrava anche da quella parte, negli ultimi giorni. Lui, Fassina, ieri ha spento il cellulare, presentato un libro sull’economia e poi è corso a Sulmona, per il Pd. Solo su facebook, dove fioccano le dichiarazioni di affetto, ha mandato a dire: «Per Natale regalerò loro un abbonamento al Financial Times così possono leggere il dibattito internazionale di politica economica e ritrovare le posizioni, aggiornate e non ideologiche, della cultura liberale».

«Il caso Fassina» del resto montava sui media che pesano, Corriere in testa. E lui, nell’occhio del ciclone, non si è moderato, alla sinistra di Bersani (che ne ha bisogno, visto che di destra ne ha in abbondanza). Negli ultimi mesi, poi: c’era ancora Berlusconi quando ha detto il no alle ricette della Bce, («sbagliate e controproducenti»). Poi la polemica con Matteo Renzi («rimpacchetta vecchie ricette fallite»), e via via nel crescendo di questi ultimi giorni, «sbagliato per il Pd appiattirsi su Monti», fino ai dubbi su Corrado Passera, («una persona eccezionale. Nessuna incompatibilità. Ho molti dubbi sul piano dell’opportunità. Perché affidare a lui il ruolo di ministro dello Sviluppo? Che cosa avrebbe detto l’opinione pubblica se l’avesse fatto Berlusconi?»), la posizione contro il Marchionne che disdetta gli accordi («grave e preoccupante»), fino alle ricette «depressive» del commissario europeo Olli Rehn, qualche giorno fa.