di Daniela Preziosi | da il Manifesto
D’Alema: «Se Hollande vince, l’Europa cambia. Il nostro governo già lavora per la svolta»
Eurobond e mutualizzazione del debito, ruolo attivo della Bce, affiancamento alle politiche di rigore (che quindi vengono confermate) con una strategia per la «crescita», interpretazione più flessibile dei piani di rientro. E infine basta con il considerare spesa gli investimenti per la «crescita». Questa, per titoli, la piattaforma dei progressisti d’Europa per una svolta delle politiche europee. E, se Hollande vincerà, il governo Monti sarà della partita (almeno a Bruxelles). Sembra un auspicio e invece è «una valutazione politica», spiega Massimo D’Alema presentando le conclusioni del seminario «Oltre l’austerità» organizzato da tre fondazioni, Italianieuropei, Progressisti europei e l’americana Initiative for policy dialogue, che mercoledì ha messo uno accanto all’altro il Nobel Josef Stiglitz e il premier Mario Monti. In quell’occasione le distanze fra i due si sono misurate in anni-luce.
Ieri invece Stiglitz non c’era e le distanze si sono magicamente accorciate: per il presidente dei socialisti e democratici europei Hannes Swoboda «Monti ha una differenza culturale con noi ma rappresenta un’opportunità per l’Italia». I progressisti mirano «alla rinascita di una democrazia di sinistra», dice il tedesco, che ovviamente non può ricordarsi in tutti i momenti che in Italia la sola parola «sinistra» è in grado di far saltare in nervi a mezzo Pd.
Ma transeat, oggi dentro il partitone, non è giorno di polemica: a Parigi il centrista Bayrou, con il suo 9 per cento, ha dichiarato di votare per il candidato socialista, e gli ex dc di casa nostra possono finalmente tifare Hollande. Cosa che fin qui non hanno fatto: anzi, in 15 hanno firmato un documento proprio contro quel manifesto di Parigi, lanciato «in piena campagna per le presidenziali», che D’Alema considera la pietra angolare della futura Europa.
D’Alema invece conosce bene i suoi, e deve far quadrare il cerchio fra il programma di Hollande, che appoggia in Europa, e quello di Monti, che appoggia in Italia. Quindi descrive un premier italiano che «non è certo un esponente del socialismo europeo, ma sta facendo un lavoro positivo nel paese, consentendogli un enorme passo avanti rispetto ai rischi della crisi, circostanza che è stata rimossa». E non ha dubbi «che Monti troverà nella piattaforma dei progressisti punti di contatto e di convergenza» e ne sarà un buon interprete. Se, com’è auspicabile e molto probabile, la Francia cambierà il segno e gli equilibri continentali.
Nel frattempo, per la gioia dei progressisti di tutto il mondo, Monti ha iniziato a infilare la parola «crescita» in ogni discorso. Così ieri dopo l’incontro con l’eurocommissaria la ricerca Maire Geoghegan-Quinn: «Tutti gli strumenti di cui l’Ue può disporre vengano mobilitati per favorire la crescita». Quanto ai fatti, si vedrà.
Si vedrà anche quanto ai fatti di casa nostra. Anche qui il 6 si vota, e non sembra il momento giusto per legare il marchio del Pd a quello del governo. Ma D’Alema non se ne cura: giudica «un gesto importante che il presidente del consiglio abbia voluto prendere parte al seminario dei progressisti». E se non fosse un doveroso gesto di attenzione al Pd, che è pur sempre una delle tre gambe dell’esecutivo, comunque sarebbe un doveroso gesto di attenzione ai sondaggi che danno il gradimento dei tecnici a picco. E prevedono l’esplosione del Pdl, fin qui primo partito della maggioranza. Il governo dovrà cambia trazione, dal Pdl al Pd. Ma questa, risponde D’Alema ai cronisti «è un’interpretazione strumentale». Non senza una nota di ironia.
Certo sul piano della politica interna il vicepresidente dell’Internazionale socialista deve ammettere che i dati dello stato di salute dell’Italia sono disastrosi, la disoccupazione ai massimi storici, e il Pd «da tempo ha sollecitato il governo in sede parlamentare a favorire la ripresa assumendo provvedimenti anticongiunturali. Serve consentire ai comuni di riprendere i loro investimenti, trovare la via per accelerare i pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese, esercitare una pressione sul sistema bancario per dare maggior respiro alle imprese». Ma fin qui le misure non sono arrivate e quelle arrivate «sulla rotta suicida della Germania di Merkel» sono una cura peggio del male. Come pensa non solo l’economista americana Stephany Griffith-Jones, ma anche il coté del neo-umanesimo laburista del Pd. Stefano Fassina lo ha scritto proprio sullo scorso numero del mensile Italianieuropei.