Crisi economica, crisi democratica
Il Paese è attraversato dalla crisi e la disperazione sociale crescente ne è il tratto più evidente. Una disperazione diseguale e frammentata, incapace di esprimere una volontà di cambiamento. L’attenzione dei media si focalizza invece sugli scandali che hanno visto coinvolti i Fiorito e i Maruccio. Il sacrosanto imperativo di moralizzazione del sistema politico italiano viene così scisso dalla natura di classe delle contraddizioni che ormai in forma conclamata si evidenziano nel tessuto economico e sociale. All’indispensabile slancio derivante da un rinnovato protagonismo popolare – unico vero antidoto contro il degrado in cui sono precipitate diverse istituzioni – viene contrapposto una campagna mediatica adulterata. Il grillismo del “sono tutti uguali” rappresenta in questo senso un’ “opposizione” funzionale alle dinamiche politiche ormai innescatesi. Ciò non allevia tuttavia l’indignazione per il suddetto degrado delle istituzioni: un degrado che nasce da una seconda repubblica caratterizzata dalla demonizzazione dei Partiti di massa e dall’esaltazione della personalizzazione del ceto politico e del momento monocratico. Se tale indignazione si concentra sulla sola sovrastruttura, senza sfiorare le radici del potere, essa va a colpire, seppure giustamente, il bersaglio più facile rischiando di favorire tuttavia i processi dinormalizzazione in atto del quadro istituzionale, politico e sociale.
Il vero obiettivo di questo processo è infatti la destrutturazione dello stato sociale, che trova nelle Regioni e nei comuni due articolazioni istituzionali fondamentali, ed il restringimento degli spazi democratici. I decreti del governo dopo il Laziogateparlano chiaro. Riduzione della rappresentanza in tutti i consigli regionali, annullamento di fatto dell’autonomia regionale attraverso il ricatto del blocco dei trasferimenti, trasformazione del rapporto tra Stato e comuni al pari di quello tra BCE e stati europei (con vincoli sui prestiti statali che riducono i sindaci a dei “prefetti” eletti dal popolo). A ciò si aggiunga il progetto di legge che vuole assumere nel bilancio statale quelli regionali con il vincolo del pareggio di bilancio e la legge di stabilità che prevede altri drammatici tagli a sanità, scuola, servizi, diritti sociali e pubblico impiego. L’effetto ultimo di questo processo è presto detto: accanto alla contrazione della rappresentanza democratica ed allo strozzamento economico delle Regioni, verrà realizzato un sostanziale accentramento delle funzioni nello Stato, in chiara antitesi al dettato costituzionale e al decentramento avviato con la Repubblica dopo il fascismo.
Le ultime azioni del governo in tema di enti locali vanno quindi collocati nel più ampio processo di sottomissione del Paese ai nuovi dettami imposti dalla crisi delCapitale e dalla sua gestione europea. Secondo Monti quindi alla moralizzazione, e questo è bene sottolinearlo ancora una volta, non corrisponde un aumento della democrazia, dei diritti, del salario diretto, indiretto e differito ma esattamente il contrario. Questo è in definitiva il terreno in cui dovremo operare a livello locale e nazionale nei prossimi anni.
Il risveglio indispensabile
La rottura del quadro testé esposto è praticabile soltanto attraverso la ripresa di un protagonismo della classe lavoratrice e dei settori popolari: i veri esclusi dalla nuova “democrazia” nell’era della crisi. Un protagonismo che deve connettersi con quanto di positivo avviene da questo punto di vista in Europa. Lo sciopero simultaneo del 14 novembre in Grecia, Spagna e Portogallo indica la strada da seguire. Il Capitale e le borghesie di tutto il mondo temono seriamente la ripresa del conflitto sociale, soprattutto se unitario ed organizzato.
La legislazione autoritaria che avanza in Europa e i segnali di forte stretta sull’agibilità delle stesse piazze rappresentano il segno più evidente di questa paura. Affinché possa realizzarsi la suddetta ripresa i comunisti e la sinistra devono profondere tutto il loro impegno e costruire la strategia. Se questo è dunque l’obiettivo, la ricostruzione della sinistra e di una forza comunista non può ridursi ad una campagna elettorale o nel posizionamento elettorale: troppo facile.
Gli anni che ci lasciamo alle spalle non hanno visto affermarsi percorsi politici in grado di mettere in discussione il processo generale descritto in precedenza: gli argini non sono stati neanche costruiti e quando è arrivata la piena anche quelli esistenti sono stati travolti. Ciò ha quindi determinato il perimetro politico attuale, caratterizzato da opzioni politiche simmetricamente inadeguate anche sul piano elettorale: minoritarismo contro subalternità.
L’assenza di un’analisi seria ed unitaria sulla questione sindacale ed il continuo sbandamento tra estremismo ed opportunismo determinano l’incapacità dei comunisti e della sinistra di classe d’incidere sul quadro politico. Se da un lato quindi vanno costruite le condizioni affinché si scongiuri l’isolamento politico della sinistra e dei comunisti dall’altra è necessario contrastare con forza i processi di normalizzazione in atto, nella consapevolezza che in assenza di una seria iniziativa e di un’azione di massa non si va da nessuna parte. Ciò non toglie che giunti a pochi mesi dalle elezioni, dopo periodi di immobilismo imbarazzante, vada indicata una strada da praticare anche sul versante elettorale. Un modo per affrontare seriamente la riflessione su tale questione, fatta purtroppo senza la forza dell’iniziativa politica, è dirsi fino in fondo la verità.
Il tema del governo
Lungi dal poter essere liquidato con semplici slogan questo aspetto, se è vero il ragionamento svolto in precedenza, deve essere trattato con grande attenzione. La partecipazione al governo, in particolar modo per i comunisti, presuppone in primo luogo una forza in grado di permettere la realizzazione di un programma. I vincoli imposti dall’operato del Governo Monti e il ricatto della BCE su eventuali sostegni agli stati dell’Unione – senza voler qui considerare i rischi più che concreti di nuove guerre e gli insostenibili impegni internazionali – evidenziano al contrario l’impossibilità di partecipare a governi di coalizione ad ipoteca moderata con o senza Udc. Una semplice vertenzialità istituzionale su alcuni temi risulterebbe infatti assolutamente ininfluente sul quadro generale ed in quanto tale renderebbe la presenza al governo solo una copertura a sinistra di politiche che con le ragioni dei lavoratori hanno poco a che vedere.
La delusione verso le forze progressiste – insegna il vituperato, ahinoi,Novecento – ha storicamente contribuito, in un contesto di crisi paragonabile a quello degli anni ’20, all’affermazione della destra. Ciò è ancora più vero, ovviamente, anche nella remota eventualità di un governo di centrosinistra senza l’Udc o il nuovo soggetto di centro in fieri. La stessa non remota possibilità che Monti assuma il ruolo di Presidente della Repubblica, quale garante della nuova Costituzione fondata sul pareggio di bilancio, rappresenta in questo senso un ulteriore vincolo per il futuro.
Il nodo della legge elettorale
La discussione sulla legge elettorale ruota attorno alla volontà di dare al Paese una stabilizzazione neocentrista, accanto alla definizione di soglie di sbarramento fatte ad hoc per chi deve e non deve entrare in Parlamento. L’iper-interventismo, al di fuori di ogni regola costituzionale, da parte del Presidente della Repubblica evidenzia plasticamente questa volontà. Sembra tuttavia potersi dire che la bozza di legge in discussione configuri tutte le condizioni per garantire quella convergenza al centro, a cui il Pd fa esplicito riferimento nella carta d’intenti, e a cui l’establishmenteconomico-finanziario internazionale punta per dare continuità all’Agenda Monti. Una convergenza che prima di essere elettorale è politica. Bisogna considerare infatti che la stessa possibilità non remota che rimanga il Porcellum potrebbe creare diverse maggioranze tra Camera e Senato che favorirebbero comunque convergenze al centro.
Il tema di restituire al parlamento sovranità fuoriscendo dalla logica maggioritaria è un obiettivo che forze di progresso dovrebbero praticare. Parlare di ritorno al proporzionale con la legge che si sta discutendo è ridicolo. Diciamo che è una legge che si propone di aiutare la definizione di un quadro. Per quanto ci riguarda il proporzionale vero è la forma parlamentare più avanzata sul piano democratico e si dovrebbe tornare a dirlo con forza.
La carta d’intenti Pd-Sel-Ps
Nel merito il documento in questione è assai generico, pieno di buone intenzioni, di parole che colpiscono i sentimenti e gli umori di una parte del popolo di sinistra, ma privo di un qualsiasi risvolto programmatico. Ad essere definiti con precisione sono solo gli obblighi, in particolar modo quelli internazionali con Europa e NATO. L’agenda Monti non è tuttavia superabile cancellandone il solo nome. Il Fiscal compact, il pareggio di bilancio in costituzione, la riforma delle pensioni, quella del mercato del lavoro, il riassetto degli enti locali e così via, non si cancellano con un tratto di penna. Senza entrare nel merito di questi temi non può dunque esistere un programma: Monti c’è, anche se non si vede.
L’utilizzo di alcuni termini e suggestioni evidenziano allo stesso tempo l’esigenza di cambiamento presente nel Paese distante da un’ipotesi politica concreta stretta in vincoli che rendono impraticabili le buone intenzioni. Lo schieramento è pronto in questo senso e come è scritto chiaramente nella carta d’intenti, ad un patto di legislatura con il centro liberale.
Le primarie
Le primarie sono una partita interna al Pd. Esse con ogni probabilità definiranno i confini tra l’area politica del “socialismo europeo” e il nuovo schieramento centrista. E’ quindi di grande interesse verificarne l’esito dal momento che lo stesso recinto elettorale potrà esserne influenzato. In tale contesto l’azione di Vendola è volta al consolidamento del progetto dei progressisti nell’alveo del socialismo europeo: nessuno fa mistero del resto della possibilità di un partito che veda insieme Vendola e Bersani. All’interno del Partito Democratico si gioca pertanto una parte rilevante della ristrutturazione del quadro politico complessivo. Non è certamente possibile prevedere in questa fase l’eventualità e i termini di un processo di scomposizione del Pd: diverse e di varia caratura sono le variabili da considerare.
Per ciò che concerne il centrodestra il declino inesorabile del Pdl, con la riorganizzazione del centro moderato che prova a diventare punto di riferimento dei settori di borghesia orfani del Cavaliere, lascia ancora interrogativi su quanti e come saranno definiti gli attori in campo. Un campo quest’ultimo che va monitorato con attenzione. In sostanza non è la stessa cosa se al tracollo del Pdl corrisponda o meno una ricomposizione larga del fronte neo-centrista attorno a Casini. In quel caso avremmo infatti una coalizione ampia e competitiva al centro, con la rinascita di una destra articolata tra Lega da una parte e Storace ed ex AN dall’altra. Un quadro di questo genere, va sottolineato, potrebbe addirittura mettere in discussione gli esiti apparentemente scontati delle elezioni.
La Federazione della Sinistra
In tale contesto l’unico esperimento di ricomposizione della sinistra di classe, in particolare quella comunista, dal 1998 rischia di saltare sull’altare sacro delle alleanze elettorali. Se il quadro è quello descritto in precedenza la prudenza a rompere questo progetto dovrebbe essere massima.
Un progetto, è bene dirlo, a cui pochi hanno creduto, e che se avesse visto l’unificazione dei due partiti principali avrebbe certamente avuto altre fortune.Un’unica direzione politica in grado di orientare un processo di ricomposizione di classe e con essa della sinistra avrebbe reso certamente più efficace il percorso. La manifestazione del 12 maggio ha dimostrato quante e quali sono le potenzialità. L’immobilismo e la paralisi in termini di iniziativa sono in questo senso le prime cause della situazione in cui si trova la FdS: stretta tra il rischio di una scelta subalterna e una improntata alla marginalità.
La legge elettorale, in questo senso, sembra essere una trappola mortale proprio per le forze non allineate, con soglie studiate su misura per chi deve o non deve entrare. Detto questo è necessario, anzi indispensabile, lavorare ad un compromesso tra le diverse posizioni nella FdS.
Provando ognuno, me compreso, a fare un passo indietro per farne due avanti. Volgendo lo sguardo in primis, anche elettoralmente, almeno ad una parte delle forze che promuovono i Referendum sul lavoro.
Incalzare quindi Di Pietro e tutte le soggettività che si stanno cimentando in quella battaglia connessa a quella contro il governo Monti. C’è lo spazio per una lista comune con tali forze insieme anche all’IDV? Con questa ipotesi, anche solo potenziale, è possibile affrontare lo spinoso tema del Pd. Un tema che potrà essere affrontato, a questo punto, dopo e non durante le primarie. Su questo terreno si discuta senza tabù. E’ possibile, visto che nessuno dice di volere l’accordo a prescindere, fissare una soglia del confronto per un eventuale accordo elettorale? Può essere l’art.18 oppure la riforma delle pensioni e l’art.8? C’è un terreno programmatico comune della FdS in grado di esprimere le priorità?
Il posizionamento tattico deve discendere dai contenuti. Su questo dovrebbe convergere la discussione nella FDS. Certamente quello che non si può fare è scendere sotto la soglia della dignità. Una dignità che dovrebbe arrivare un minuto prima di sentirsi dire che è il Pd a non volere nessun confronto con la Federazione della Sinistra perché, in base a contesto e legge elettorale, i suoi voti sono ininfluenti.
Saranno giorni difficili. Ma attenzione. Non si sottovaluti il danno di una rottura della FdS: un’eventuale divisione farà certamente parlare di noi, ma certamente non come vorremmo. Dividerla significa essere miopi. Speriamo che a prevalere sia dunque il lume della ragione.