di Stefano Fassina | su l’Unità
Perché, in Europa e negli Usa, non usciamo dal tunnel della recessione e, in Italia, andiamo verso la depressione? Perché si continua ad applicare, nonostante i disastri prodotti, la ricetta neo-liberista dominante nell’ultimo quarto di secolo: austerità senza se e senza ma e svalutazione reale del lavoro per recuperare in esportazioni la caduta della domanda interna depressa dall’aumento delle diseguaglianze. In sintesi, siamo vittime del «trionfo delle idee fallite», come ripete Paul Krugman. Non a caso, per la presidenza degli Stati Uniti ritorna, come uno zombie, Newt Gingrich. Non a caso, da noi continuano ad imperversare gli Alesina e i Giavazzi, nonostante il Fmi qualche mese fa abbia radicalmente confutato le loro tesi. Il Fondo, in un’analisi di decine e decine di casi di aggiustamenti di bilancio pubblico, trova un risultato banale, ma negato nell’ultimo ventennio: le politiche restrittive sono recessive, non rileva se fatte dal lato delle entrate o dal lato delle spese. Ma gli Alesina e i Giavazzi, amplificati da interessi corporativi miopi, insistono. Per coprirsi le spalle rilanciano contro l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Stesso schema dell’editoriale di Orioli su Il Sole 24ore di giovedì scorso. Ovviamente, la giustificazione è l’equità verso i giovani, principio trendy, strumentalizzato senza imbarazzo da un classismo pesante e autolesionista.
Purtroppo ideologia fallita e interessi miopi dominano anche la discussione a Bruxelles. La crisi dell’euro non ha nulla a che vedere con la finanza pubblica (si legga Martin Wolf sul Financial Times di mercoledì scorso per l’ennesima, eccellente e divulgativa spiegazione). È dovuta alle differenze di competitività presenti nell’area della moneta unica. È dovuta alla caduta della domanda aggregata conseguente alla aumento della disuguaglianza a sua volta alimentata dalla regressione del lavoro. Non importa. L’ossessione dei conservatori tedeschi verso il deficit pubblico segna la rotta. Il vertice europeo di giovedì e venerdì scorso è l’ultimo esempio. Si progetta un trattato intergovernativo al solo fine di rendere più cogente una linea di austerità suicida, in larga misura già recepita nel “six pact” (il pacchetto pro-austerity approvato nei mesi scorsi dal Parlamento europeo), senza aprire alcuno spazio agli interventi per lo sviluppo sostenibile. Così, data la linea voluta dalla signora Merkel, l’unica speranza per attenuare i sempre più gravi danni sociali ed economici e democratici è affidata agli acquisti surrettizi della Bce dei titoli di debito pubblico dei Paesi in difficoltà.
Al punto in cui siamo, dovrebbe essere chiara la posta in gioco. Se le forze maggiori dell’impresa e della finanza continuano ad affermare i loro legittimi interessi di parte attraverso il paradigma della destra tecnocratica degli Alesina e dei Giavazzi arriviamo ad una lunga e drammatica depressione economica, ad insostenibili disuguaglianze, alla fine della civiltà del lavoro e allo svuotamento populista delle democrazie delle classi medie. Insomma, alla fine del modello sociale europeo, alla rottura dell’euro e della Ue e alla inevitabile irrilevanza degli Stati nazionali del vecchio continente nel secolo asiatico.
La linea da seguire è opposta. La ripetono oramai da tempo sia i liberal statunitensi (Krugman, Stiglitz, Summers, Rodrik,…) sia i liberali pragmatici dalle colonne del Financial Times (oltre a Wolf, Munchau, Key ed altri). La sostengono i sindacati europei. La propongono i progressisti europei, Pd, Pse, Verdi, come indicato dagli emendamenti e dal voto contrario al “six pact”.
La linea alternativa passa per la correzione degli squilibri macroeconomici all’interno dell’area euro e per il riavvio della domanda aggregata. Quindi, allentamento dell’austerità utolesionista. Sostegno agli investimenti, da alimentare attraverso euro-project bonds e Tassa sulle Transazioni Finanziarie. Bce autorizzata a fare da prestatore di ultima istanza. Regolatori dei mercati finanziari meno ottusi. Agenzia europea per il debito. Coordinamento delle politiche retributive, in primis innalzamento delle retribuzioni tedesche in linea con la produttività. Armonizzazione delle politiche di tassazione. E, soprattutto, costruzione di sedi democraticamente legittimate di sovranità condivisa nell’area euro.
Soltanto un paradigma culturale autonomo può dare senso storico ai progressisti europei. Seguire i conservatori ed i tecnocrati rivolti all’indietro rende i progressisti inutili e corresponsabili del disastro annunciato di fronte a noi. Un disastro per la democrazia, prima che per l’economia.