di Claudio Conti
da contropiano.org
La fuga di ArcelorMittal è un risultato di decenni di smantellamento della struttura industriale italiana. Non nasce da sacrosante “regole” antinquinamento, da “stupidità” del governo (c’è anche quella, ma è buona solo come scusa), o da chissà quale altra ragione.
Un risultato, ossia una conseguenza di scelte ottuse fatte negli anni ‘80-’90, in ossequio ai trattati di Maastricht che hanno formato la vera vera nascita dell’Unione Europea e deformato per sempre il panorama produttivo del Vecchio Continente. E sopratutto quello italiano.
Il quale – è bene ricordarlo – si era sviluppato in primo luogo grazie agli investimenti pubblici, alla programmazione economica e a una poltica industriale. Assi discutibili per molte scelte e modalità di gestione, certamente, ma non sul piano strategico. Un paese che si vuole sviluppare, e che possiede una “classe imprenditoriale” di non alto livello economico (e di molto basso “rigore morale”), non ha altra possibilità che l’industria pubblica.
L’ex Ilva di “padron Riva”, fin qui sballottata tra commissari temporanei e anglo-indiani in affitto, è l’esempio perfetto di quanto sia stata criminale la scelta di “privatizzare” interi settori strategici voluti e fondati su investimenti pubblici. Una scelta da cui persino Romano Prodi, con irritante viltà, oggi prende le distanze. Il gigante dell’acciaio italiano si chiamava Italsider, aveva stabilimenti a Genova, Bagnoli, Taranto, decine di migliaia di dipendenti. La svendita ai Riva comportò una gigantesca riduzione degli impianti, senza alcuna innovazione tecnologica che lo rendesse “fisiologico”.
Un degrado lento motivato da squallida “necessità” di accantonare profitti non reinvestiti nella produzione (e nell’adozione di processi produttivi meno inquinanti), ben lontano dalla retorica sull’”efficienza” dell’impresa privata.
Fino a creare un mostro di inquinamento stragista, ma anche indispensabile per il mantenimento di una produzione strategica (l’acciaio) in questo paese.
Qui le scelte vigliacche della classe politica si intrecciano indissolubilmente con le strategie criminali delle grandi imprese multinazionali. Al punto che anche analisti esperti del quotidiano di Confindustria, oggi, sono costretti ad ammettere l’assurdità della retorica “ideologica” ancora imperante sull’argomento (stile Repubblica o Corriere, per intenderci).
Le multinazionali stanno oggi lasciando l’Italia, dopo averla spogliata del know how che era stato accumulato non solo con gli investimenti pubblici, ma anche con un sistema di istruzione di alto livello (anche questo sotto attacco da oltre 30 anni). E questo desertifica il panorama industriale, rendendo impossibile – o molto problematico – un recupero di capacità produttive, anche in caso di una fase di nazionalizzazioni di necessità.
Serve infatti un progetto organico di sistema paese – fatto appunto di un intreccio sapiente tra programmazione economica, politica industriale e sistema di formazione – che nessun “privato” e tantomeno delle imprese multinazionali possono mettere in campo. Anzi…
Che l’Ilva vada nazionalizzata, insomma, è una cosa certa. Nessun altro investirà per bonificare l’area e garantire un futuro migliore a una popolazione a rischio sterminio. Nessuno investirà per mantenere a questo paese una capacità di presenza in questo o altri settori strategici.
Ma neanche questo può bastare. Mantenere l’Ilva com’è è un assurdo economico e un crimine ambientale. Occorre un progetto strategico che solo una diversa visione del mondo e della produzione può assicurare.
Come dite? Non si può fare perché mancano ormai le competenze tecnologiche, industriali, manageriali nel settore pubblico?
E’ vero. Tutto questo ormai manca. Per questo possiamo affermare, senza tema di smentita, che su questo paese è stato condotto un esperimento criminale di predazione. Per questo possiamo affermare che solo cacciando via questa classe “dirigente” da quattro soldi (tutti, nessuno escluso) sarà possibile cominciare a progettare e disegnare un futuro per le prossime generazioni e rallentarne la fuga.