di Francesco Galofaro, Università degli studi di Torino
Il panorama
Il voto italiano alle ultime elezioni va inquadrato nel più ampio contesto europeo. E’ possibile individuare delle dinamiche di fondo, posto che in ciascuno Stato o macroregione esistono peculiarità locali. Nel 2014, le elezioni si risolsero in un derby tra popolari e socialisti: tra una destra e una sinistra entrambe liberali, destinate a governare insieme l’Unione, convinte che il laissez-faire fosse la risposta più adeguata alla crisi e alla recessione economica, prive di un progetto all’altezza dei tempi, destinate al ruolo di amministratori del condominio europeo. Il 2019 consegna una mappa ben diversa:
– Il PPE (cui fa capo Forza Italia) scende da 221 a 179 seggi;
– I Socialisti (cui fa capo il PD) scendono da 191 a 150 seggi;
– Cala anche il gruppo ECR (Conservatori e Riformisti, da 70 a 58 seggi), cui fanno capo forze vincenti come Fratelli d’Italia o il polacco PiS, ma anche i tory inglesi, in fortissima crisi per lo scontro interno connesso alla Brexit;
– Perde consensi la sinistra radicale del GUE (da 52 a 38 seggi);
In crescita troviamo tanto forze europeiste tanto posizioni euroscettiche o ‘sovraniste’:
– EFDD, il gruppo dei 5 Stelle, cresce soprattutto per merito di Farage e del suo partito pro-Brexit (da 48 a 56 seggi);
– I Liberali dell’ALDE passano da 67 a 107 seggi – la crescita si deve in gran parte a Macron, non presente alle scorse elezioni;
– Crescono i Verdi: da 50 a 70 seggi;
– Si afferma l’ENL, non presente alle scorse elezioni (è il gruppo di Salvini, della Le Pen, di Alternative für Deutschland, con 58 seggi);
La formula di governo PPE/Socialisti è ormai logora: la crisi dei socialdemocratici perdura tutt’ora, privi come sono di un progetto che li differenzi dai liberali e dai conservatori. La crescita contestuale dell’ALDE va vista anche in questo senso: En Marche di Macron, che pure in Francia ha i suoi problemi, è servita a redistribuire il peso dai socialisti ai liberali: sancisce, de facto, un mutamento culturale nei gruppi dirigenti della sinistra degli ultimi trent’anni, liberista sul piano economico e riformista sul piano dei diritti sociali. L’ALDE si candida a puntellare la maggioranza europea uscente; questo non fa certo sperare in un’Europa sociale, attenta a ridurre le diseguaglianze sociali, in grado di cambiare rotta rispetto al bilancio fallimentare di questi anni e di risolvere i problemi che sono la causa prima dell’affermazione di forze euroscettiche e della destra sovranista. Quanto alle prime, il calo dei 5 Stelle in Italia, la cui radicalità costitutiva è stata senz’altro penalizzata dalle responsabilità di governo, è più che compensato dall’affermazione di Farage. In Gran Bretagna si è tenuto un referendum che ha confermato la Brexit: Farage ha incamerato il voto dei favorevoli; il voto dei contrari è andato ai Liberaldemocratici. Le forze tradizionali, Laburisti e Conservatori, incapaci di gestire la situazione, hanno subito una sonora sconfitta perché né l’una né l’altra hanno saputo incarnare una delle due fazioni dell’elettorato in conflitto. Non è certo il momento storico più adatto alla sintesi degli opposti…
A sinistra, la sconfitta del GUE segna l’assenza più totale di un progetto coerente. Cinque anni fa, Tsipras era il portabandiera dell’opposizione all’Unione Europea dello stolido rigore, dei mercati e dello smantellamento dello stato sociale; la sconfitta di quest’opzione in Grecia, con uno Tsipras ridotto da ascetico leader vegano a turpe macellaio per conto della Troika, ha ridotto, se non azzerato, la credibilità di questa sinistra, e oggi la sua forza politica è sopravanzata da Nea Demokratia (PPE). Non è un caso che crescano i Verdi: è certamente il segno di una reazione all’indifferenza verso l’ambiente ostentata dai governi dell’Occidente, Trump in testa; l’ambientalismo è però spesso anche il ‘bene rifugio’ nei momenti di crisi della sinistra tradizionale: ricordiamo il caso di Alexander Van der Bellen, verde, eletto presidente della repubblica austriaca nel 2016 contro Norbert Hofer dell’FPÖ.
A ottenere i veri successi è la destra sovranista: quella di Salvini e quella della Le Pen. E questo, a dispetto di tutte le distorsioni che l’informazione in questi mesi ha operato pur di scongiurarne l’affermazione. Sono state diffuse perfino delle app (sul sito del Sole 24 orre) che chiedevano all’utente di creare la propria maggioranza nell’Europarlamento, per sottolineare che il sovranismo non avrebbe avuto i numeri per governare; contemporaneamente, si sorvolava sulla crisi programmatica del PPE, al cui interno esiste un’ala euroscettica che ben volentieri porrebbe fine all’alleanza coi moribondi socialdemocratici per guardare alla propria destra. Anche nei giorni immediatamente precedenti le elezioni, i giornali hanno ricamato sulla sconfitta di Geert Wilder: inezie, se pensiamo che il Rassemblement National di Marine Le Pen oggi è il primo partito in Francia.
Già, perché i voti si pesano. Altro è una forza provinciale e razzista in un piccolo paesino affacciato sul Mare del Nord; altro il fatto che, con una Gran Bretagna ormai praticamente fuori dalla UE, la seconda e la terza economia d’Europa dipendono dalle scelte della destra sociale. Fino alle scorse elezioni italiane, la maggioranza politica dell’Europarlamento, la Große Koalition, ha coinciso con quella delle tre principali economie d’Europa: Germania, Francia, Italia. Nello scenario che va profilandosi, se in Francia nuove elezioni dovessero sancire il primato della Le Pen, avremmo invece maggioranze difformi: la UE nelle mani dei liberali, con commissari nominati da forze politiche oggi in crisi, potrebbe entrare in conflitto con grandi Stati ed economie di peso, che fin qui hanno orientato le principali politiche dell’Unione accordandosi tra loro.
Peculiarità italiane
Rispetto ai fenomeni finora evidenziati il voto italiano è in linea sia per quel che riguarda l’affermazione della destra sovranista incarnata nella Lega, sia per la scomparsa della sinistra radicale del GUE; si distingue tuttavia per alcune specificità:
– Il PD, riconducibile alla famiglia europea socialista, ottiene un risultato incoraggiante;
– Parallelamente, i Verdi non conoscono affermazioni degne di nota, come accade altrove (Francia e Germania);
– ‘Più Europa’, riconducibile ai liberali dell’ALDE, non passa la soglia dello sbarramento;
– Il Movimento 5 stelle non si riprende dalla crisi di consensi che si è manifestata principalmente in occasione delle diverse elezioni regionali di quest’anno;
A giudicare dal risultato elettorale, l’elettorato italiano ha individuato principalmente nella Lega e nel PD i rispettivi rappresentanti della posizione euro-iconoclasta ed euro-iconodula. Nel Centro-Nord, la Lega ha convogliato ancora una volta il voto degli euroscettici, dei ceti sociali danneggiati dall’ordoliberismo europeo: lavoratori, piccoli imprenditori impoveriti dalla crisi, artigiani. Ha premiato una proposta forte, ovvero la saldatura tra difesa della comunità, valori tradizionali, economia locale, ben connessa alla nuova destra sociale europea e alle innovazioni rappresentate da Donald Trump e dal suo ideologo Steve Bannon. Si tratta di un movimento vincente prima di tutto sul piano culturale, percepito come latore di una proposta forte e in grado di reagire ai problemi della contemporaneità, non semplicemente nostalgica di uomini forti e regimi autoritari storicamente non più attuali. Occorre approfondire meglio i tratti di questa nuova destra europea, e sarebbe semplicistico limitarsi ad assimilarla all’ennesimo travestimento del fascismo. Nei mesi passati, prima della campagna elettorale, la Lega si è infatti presentata anche come l’unico interlocutore possibile per Confindustria e per la grande borghesia cosmopolita, che per quanto europeista per convinzione, necessita per convenienza di una sponda nel Governo.
D’altro canto, il PD è stato individuato come baluardo europeista privilegiato di fronte al dilagare del sovranismo di destra, impedendo, tra l’altro, l’affermazione della lista ‘Più Europa’. Diversi fattori hanno giovato al recupero della credibilità del PD, fino a ieri in forte crisi di consensi e di progetto. Non ultimo, il nuovo segretario, Zingaretti, che ha fatto dimenticare il renzismo almeno su un piano eminentemente simbolico: in realtà, le vicende legate alle dimissioni del governatore umbro, esplose durante la campagna elettorale, fanno comprendere quanto quel partito sia lontano dal rinnovamento della propria classe dirigente che ha fin qui simulato. In Italia, la crisi del giovane liberalismo rampante anticasta di Macron è stata anticipata dalla parabola discendente di Renzi: l’ascesa di Zingaretti coincide con un’apertura di credito dell’elettorato, un auspicio affinché il PD ‘volti pagina’. Infine, deve aver pesato sull’elettore un ragionamento volto all’autodifesa della sinistra minacciata dall’estinzione, che in altri paesi si è tradotto in un successo dei Verdi. La lista verde italiana non ha sfondato per questo e per altri due fattori: l’ecologismo è stato in parte coperto dai 5 Stelle, da un lato; dall’altro la classe dirigente verde in Italia è culturalmente senile, opaca e invisibile, al pari di quella della sinistra radicale.
La crisi di quest’ultima, si è detto, è in linea con quella del GUE europeo. Può darsi che gli elettori abbiano preferito, per autodifesa, la ‘ditta’, l’‘auto usata’ del PD; o che abbiano individuato nei 5 Stelle il soggetto da difendere, invece di lanciarsi in nuove esplorazioni; non è possibile limitarsi, consolatoriamente, a questa considerazione. Il fatto è che, al pari di altre forze snobbate dall’elettorato, la Sinistra europea è incapace di rappresentare un’alternativa credibile d’Europa. Non è credibile l’idea di spostare a sinistra l’alleanza tra PPE e PSE, origine di tutti i mali, compreso il successo della peggior destra; non è credibile neppure l’auspicata riforma dei trattati: non si vede cosa dovrebbe obbligare gli Stati che più guadagnano dall’aumento delle disuguaglianze e dalla competizione tra i lavoratori europei dal modificare i rapporti di forza attuali per favorire una redistribuzione della ricchezza e una ripresa delle economie periferiche. In questa Europa gli Stati si comportano come attori individuali tutti intenti a massimizzare egoisticamente il proprio utile mantenendo le posizioni di vantaggio acquisite. Non è tutto: in campagna elettorale si è proclamato perfino che gli esponenti del GUE, tanto i più euroscettici quanto gli europeisti più convinti, finiscono in fondo per votare insieme a Bruxelles: un modo goffo e controproducente di rendere del tutto opaco il giudizio sull’Europa, ovvero la questione principale posta dalle elezioni, privilegiando l’idea di coalizzare la sinistra in un cartello elettorale privo di contenuti e di una connessione sentimentale col proprio popolo. Non beneficia della situazione nemmeno Marco Rizzo, unica forza della sinistra radicale a esprimere una posizione netta (No alla NATO, alla UE, all’Euro), con ogni probabilità perché l’elettorato non giudica la sinistra radicale forza politica per forza politica, sigla per sigla, trovando l’insieme dell’offerta politica nel suo complesso poco credibile e contraddittoria.
Anche della crisi dei 5 stelle ho in parte già anticipato un’interpretazione. I 5 stelle pagano la distanza tra la radicalità delle loro proposte negli anni dell’opposizione e i compromessi obbligati nella fase del governo e della coabitazione con la Lega. I frutti dell’azione di governo, se ve ne saranno, sono ancora da cogliere; la Lega ha chiuso ogni margine di recupero di voti a destra; a partire dal congresso delle famiglie di Verona, il tentativo di svolta a sinistra del movimento non ha fatto breccia nell’elettorato del PD. I 5 stelle pagano l’isolamento che abbiamo già avuto modo di apprezzare durante le elezioni regionali. Non sembrano in grado di far crescere una coalizione intorno a loro: altre forze politiche, altre sigle, altre liste che alludano alla società civile e quant’altro.
Scenari futuri
La Lega è l’unica forza politica con prospettive reali di ulteriori successi e avanzamenti. Ha l’opportunità di sostituire al governo di compromesso coi Cinque stelle una nuova maggioranza che la vedrebbe in posizione di egemonia indiscutibile. Il rapporto con la Le Pen le dà forti chance di inserire una zeppa nell’ingranaggio europeo: in Francia Macron è in crisi; la conventio ad escludendum nei confronti dei postfascisti potrebbe non funzionare per sempre. In questo modo, come si è detto, verrebbe a crearsi una discrasia tra la maggioranza di Strasburgo e quella di alcune economie europee estese, senza contare i successi di Orban e dei polacchi del PiS, e la debolezza evidente dell’alleanza tra Popolari e socialdemocratici tedeschi.
Il successo del PD appare fondato su ben fragili basi. Come si è detto, quel partito non ha ancora realmente promosso un cambiamento della classe dirigente; non sono affatto chiari i contenuti del nuovo progetto politico di Zingaretti. Tutto questo si inserisce nel contesto di una crisi più generale della socialdemocrazia europea, che ha il suo picco in Germania e in Francia. Il PD può decidere di trasformarsi in un partito liberale, alla Macron: formula già vecchia e che mostra limiti e difficoltà in Francia. Può scegliere una via laburista, all Corbyn; come si è visto, però, il conflitto euroscettici/eurofili è stato incarnato da altre forze politiche anche in Gran Bretagna, dove il compromesso Laburisti-Conservatori per scongiurare la Brexit si è dimostrato controproducente.
Il Movimento 5 Stelle conosce una ‘crisi di crescita’; crisi che può anche risultare fatale, se non muta la propria politica isolazionista, da un lato, e se non recupera alcuni strumenti delle organizzazioni politiche tradizionali, dall’altro. M5s si regge su una rete di attivisti on-line relativamente piccola, e su una gran massa che fin qui ha costituito il suo elettorato passivo, debolmente fidelizzato. Dovrebbe puntare a un coinvolgimento maggiore di quest’ultimo chiamandolo a esprimersi non su specifiche questioni, ma su piattaforme parzialmente alternative che prefigurino proposte e linee politiche diverse: si tratta dei congressi, lo strumento attraverso il quale i partiti tradizionali ricercano – con difficoltà e senza garanzia di riuscita – aggiornamenti e attualizzazioni della traduzione tra i loro valori di fondo e una realtà sociale, economica, politica, in costante cambiamento.
La sinistra radicale, dal canto proprio, è ormai totalmente inutile, affetta com’è dalla sua vocazione di stampella dei liberali, o da mutismo nell’attesa messianica che un big bang dei Cinque stelle rimetta in gioco un pezzo di elettorato. Dovrebbe forse più coerentemente cercare un rapporto con la sinistra pentastellata, per rivolgersi a un elettorato che non accetta di esprimere un voto puramente testimoniale e si aspetta al contrario effetti positivi sulle proprie condizioni di vita.