Comunali 2013, qualche novità?

di Domenico Moro per Marx21.it

schede elettorali comunaliQuello che probabilmente è il maggiore genio politico (dopo Berlusconi, s’intende) che l’Italia abbia regalato alla civiltà occidentale negli ultimi venti anni ha tratto le sue conclusioni: “Le ultime elezioni comunali dimostrano che l’Italia è di nuovo bipolare”. Come avrete capito, stiamo parlando di Walter Veltroni. Certo, il Pd e Veltroni, novello Pirro de Noantri, hanno tirato un sospiro di sollievo dinanzi al calo elettorale del nuovo “mostro”, il Movimento Cinque Stelle, e alla scarsa performance del Pdl.

Ma, come diceva Orazio, anche Omero talvolta sonnecchia. Ed anche il geniale Walter forse schiacciava un pisolino, nel mentre che passavano i dati elettorali. Infatti, ci si potrebbe chiedere che razza di ritorno del bipolarismo o del bipartitismo sia quello in cui il Pd perde, nei 16 comuni capoluogo, il 39% dei voti, mentre il Pdl ne perde il 40% [1]

. E non rispetto alle comunali del 2008, ma rispetto alle politiche di appena tre mesi fa. Quanto alle comunali, a Roma, rispetto al 2008, il Pd perde oggi la metà dei voti assoluti, passando da 530.723 voti a 267.605, e il Pdl crolla da 559.559 voti a 195.749. Evidentemente i voti persi dall’M5S non sono certo ritornati né al Pd né al Pdl. Al contrario, sono andati all’astensionismo, che in Italia già alle politiche rappresentava il primo partito e la prima coalizione ed è ora esploso.

La partecipazione al voto tra le politiche del 2008 e quelle del 2013 è scesa dall’80,5% al 75,2% mentre tra le comunali del 2008 e quelle del 2013 è calata dal 75,2% al 54,7%2. Quindi, mentre alle politiche la partecipazione al voto è diminuita di 5,3 punti, alle comunali è crollata di ben 20,5 punti. Ma, al di là dei numeri, è il dato politico ad essere impressionante: un sistema politico in cui partecipa al voto poco più della metà degli aventi diritto è un sistema che non funziona. O, almeno, non funziona dal punto di vista democratico. Questo non preoccupa Pirro-Veltroni, che ha come musa ispiratrice il modello Usa in cui queste percentuali di partecipazione al voto sono la norma anche alle presidenziali. Del resto, la partecipazione popolare, oltre un certo limite, è un “eccesso” per le democrazie “avanzate”, come da sempre insegnano la Trilaterale e il Bilderberg, da cui il premier Pd, Enrico Letta, proviene.

La verità è che le elezioni comunali confermano in pieno quanto avevamo detto dopo le elezioni politiche. È in atto uno scollamento tra classi subalterne e sistema politico, rappresentato dai partiti “tradizionali”. Per la verità ciò non è del tutto preciso, perché lo scollamento non è in atto, è ormai un fatto consolidato. L’ultimo e definitivo contributo è stato dato dalla nomina del governo Letta-Alfano. La prevalenza del Pd sul Pdl e lo scivolamento indietro del Movimento Cinque Stelle non devono ingannare. Le elezioni comunali sono differenti dalle politiche, presentando delle particolarità che inducono la falsa impressione del ritorno del bipolarismo e del “successo” del Pd. In primo luogo, l’elezione diretta del sindaco impone un artificiale bipolarismo e, infatti, anche a livello nazionale, Pdl e Pd stanno valutando l’introduzione dell’elezione diretta del presidente della repubblica o del premier. In secondo luogo, l’M5S sulle elezioni locali e amministrative è strutturalmente meno performante. Ad esempio, a Roma alle regionali di febbraio l’M5S prese solo 222.410 voti contro i 436.340 delle politiche, malgrado le due competizioni fossero contemporanee. L’M5S non è un vero partito, a differenza del Pd e, sebbene in modo diverso, anche a differenza del Pdl. Dunque, non ha un vero radicamento territoriale, non ha struttura organizzativa, e i suoi candidati sono degli sconosciuti con poca esperienza. Inoltre, mentre alle politiche i leader carismatici, come Grillo e lo stesso Berlusconi, pesano molto, alle comunali possono poco per sostenere i loro candidati.

Ma, soprattutto, c’è un elemento che dovrebbe far riflettere chi si cimenta nella interpretazione delle elezioni. La fase politica attuale è caratterizzata da una estrema fluidità. In una fase di tale volatilità e incertezza bisogna guardarsi dal trarre conclusioni troppo affrettate. Nel corso dei prossimi mesi l’M5S potrebbe recuperare i voti che ha perso, magari non tutti ma una parte variabile. Il punto è che il voto di milioni di italiani che si sono astenuti è ancora contendibile da forze di alternativa o percepite come tali. E lo sarà in occasione delle politiche, anche perché c’è un altro dato fondamentale che non si considera. I cittadini di Roma – come delle altre città piccole e medie dove si è votato – percepiscono che al comune si decide poco o nulla. Il fiscal compact e le politiche di austerity hanno reso quasi nulli i margini della politica locale, alla faccia del federalismo e del localismo tanto sbandierati. Del resto, mai come oggi la campagna elettorale è stata così piatta, specie a Roma: nessun candidato poteva promettere nulla. Il contesto è sempre il solito: una crisi capitalistica fatta pagare alle classi subalterne attraverso vincoli di bilancio giustificati con la necessità di mantenere l’unione monetaria europea. Le elezioni locali e soprattutto quelle amministrative non sono il contesto dove si possa esprimere il voto di protesta, all’M5S o ad altri, contro queste politiche. In questo quadro, era irrealistico aspettarsi partecipazioni diverse al voto amministrativo, di solito già meno partecipato.

Dal momento che l’Italia è la patria del genio, i geni non potevano mancare neanche tra la sinistra “radicale”. Infatti, qualcuno si è affrettato, sulla base dei risultati elettorali, a trarre conclusioni liquidazionistiche della presenza comunista in Italia. In realtà, nessuno poteva pretendere che il risultato di Prc e PdCI fosse diverso. Infatti, niente è cambiato né poteva cambiare in tre mesi. Semmai il forte peso delle clientele locali, caratteristico delle elezioni amministrative, e soprattutto lo scetticismo sull’utilità del voto locale con il conseguente altissimo astensionismo hanno penalizzato maggiormente proprio Prc e PdCI. Il fatto è che la nostra classe di riferimento (i lavoratori salariati, ed in particolare precari, disoccupati, giovani, donne), è quella che si sente più distante dal sistema politico. La marginalizzazione dalla vita economica e sociale produce marginalizzazione dal sistema politico e quindi astensione. Inutile girarci intorno, il rapporto fiduciario tra noi (e in genere tra la lotta politica) e questi settori si è rotto e non può essere ricostruito in tempi brevi. È necessario un lungo e certosino lavoro di ricostruzione di una presenza territoriale, di un radicamento. Ma questo lavoro non può essere inteso solo da un punto di vista organizzativo né tantomeno in una ottica locale. I problemi organizzativi rimandano a problemi politici e quindi generali. Di conseguenza, non è possibile risolvere i nostri problemi e soprattutto quelli dei lavoratori senza una correzione di linea a livello nazionale e, ancor meno, in presenza di una linea politica nazionale confusa e incerta. Del resto, alle elezioni comunali si è visto di tutto: PdCI e Prc separati, insieme tra di loro, e tutti e due insieme o separatamente con altre forze politiche. Di fatto, le nostre organizzazioni sono ancora in una fase di confusione e di difficoltà dopo la cocente sconfitta delle politiche ed hanno affrontato il nuovo cimento nelle condizioni peggiori.

Questo è il momento della maggiore crisi del capitale che si sia verificata dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, non certo della liquidazione del progetto di un partito comunista in Italia. Questo è il momento in cui bisogna reagire ponendo le fondamenta della riorganizzazione della presenza comunista nel nostro Paese, in una forma il più possibile unitaria. Maggiore sarà la serietà e la profondità con cui porremo queste basi, maggiore sarà la possibilità di risalire la china. Per cominciare, bisogna sfruttare appieno l’occasione offerta dai prossimi congressi del PdCI e del Prc. Dobbiamo avere il coraggio e la disponibilità a confrontarci tra di noi attraverso un dibattito vero, cioè che sia a tutto campo, franco e aperto. Non abbiamo bisogno né di liquidazioni né di chiuderci in rassicuranti certezze. Abbiamo bisogno di capire una realtà economica, sociale e politica che è cambiata e, sulla base di questa analisi, definire il che fare adeguato ai tempi nuovi e drammatici di cui oggi vediamo appena le avvisaglie.

NOTE

1 Dati dell’Istituto Cattaneo.

2 Dati dell’Istituto Cise-Luiss.