Perché l’Italia non è la Francia

riceviamo e pubblichiamo

di Aginform

Sono in molti ormai a chiedersi perchè in Francia e in altri paesi europei si sciopera e in Italia invece, dove i salari sono diminuiti in termini reali non solo per l’inflazione, ma per il blocco della contrattazione che dura da anni, non c’è ripresa delle lotte.

Qual è la risposta? Qualcuno finalmente mette il dito sulla piaga e si è accorto che Landini si sta dimostrando il peggiore segretario confederale che la CGIL abbia mai avuto negli ultimi decenni. A lui si deve, insieme ai suoi compari di UIL e CISL, se in presenza di un’erosione sostanziale dei salari non c’è stata nessuna indicazione di lotta. La UIL poi è impelagata in casi di corruzione che hanno portato al commissariamento dell’intero vertice del pubblico impiego, mentre la CISL da tempo è ritornata a essere strumento dei governi di turno e dei datori di lavoro, pronta a bloccare qualsiasi iniziativa conflittuale purchè le siano garantiti i suoi ambiti clientelari.

Già questa condizione di unità confederale imposta sostanzialmente come prassi presenta grossi problemi rispetto alla contrattazione. Ormai siamo stati abituati al fatto che se non ci si muove insieme in sostanza non si possono aprire vertenze per cui il punto più arretrato della cordata confederale condiziona l’intero universo dei lavoratori. Spesso le incertezze e gli arretramenti hanno determinato la paralisi delle rivendicazioni e allineato di fatto i comportamenti delle singole confederazioni.

Detto questo però il problema ritorna sul che fare? Su Landini e soci il giudizio è chiaro e questo spazza via ogni furbesca tattica di entrismo nella CGIL. Al XIX congresso si è visto che l’opposizione ha raggiunto il 2% dei delegati, confermando che uno strumento corrotto non può essere conquistato affidandosi alle pratiche congressuali perchè la sua struttura rappresenta ben altro che gli interessi dei lavoratori. Questo non significa che gli iscritti ai sindacati confederali sono nostri nemici. Bisogna però rendersi conto che i confederali, CGIL compresa, sono ormai da tempo, e alcuni da sempre, qualcosa di molto diverso da una rappresentanza degli interessi dei lavoratori. In realtà sono un tappo, messo in piedi dai governi e dai ceti padronali per controllare che non si vada oltre certi limiti nelle rivendicazioni, e quando poi il principio della concertazione non basta ci sono le normative ad hoc sui limiti di sciopero e sui diritti di rappresentanza. Se si vuole partecipare alle trattative bisogna stare al gioco di chi organizza i tavoli, in caso contrario si sta fuori. E’ da ricordare a questo proposito che a suo tempo, quando la CGIL si oppose ad accordi di comodo alla FIAT di Pomigliano, fu esclusa dalle trattative e anche dai locali sindacali in azienda. La trattativa dunque è truccata in partenza e a rappresentare i lavoratori c’è un ceto di ‘professionisti’ che garantisce la stabilità delle regole. Muoversi in un contesto del genere per esprimere gli interessi dei lavoratori è estremamente difficile. C’è tutta una ragnatela di condizionamenti che provoca sfiducia e spesso rassegnazione. Questo spiega anche perché, mentre in tutta Europa i salari sono aumentati, in Italia in termini reali sono diminuiti.

Se in Francia dunque e in altri paesi europei si sciopera è perche i sindacati fanno ancora il loro mestiere, mentre in Italia è ormai avvenuta una mutazione genetica del sindacalismo confederale, e della CGIL in particolare (UIL e CISL non avevano bisogno di alcuna mutazione). Di questo bisogna prendere atto e capire come affrontare la nuova situazione nell’interesse dei lavoratori.

A questo proposito bisogna ammettere che finora si è sottovalutato il fatto che tutta una serie di provvedimenti, sul precariato, sugli appalti, sulle delocalizzazioni, in questi anni hanno creato la condizione che stiamo registrando in questa fase. Invece di affrontare la realtà che si andava profilando ci si è trastullati tra polemica coi confederali e sbandieramento di ipotesi di sindacalismo di base, senza approfondire i fatti e affrontare la deriva che ci siamo trovata di fronte. Per questo non è credibile uscirne inneggiando alla situazione francese e sperando che in Italia la situazione si sblocchi. Il romanticismo non paga.

Per capire le cose cerchiamo di vedere meglio la situazione oggettiva che vivono il mondo del lavoro e i lavoratori. Se partiamo intanto dal Pubblico impiego e dai servizi, in particolare le Ferrovie dello stato e la Sanità, dobbiamo registrare che in questi decenni vi è stata una ristrutturazione che ha portato a una diversificazione professionale che ha minato le spinte alle lotte e diviso profondamente i lavoratori. Negli ospedali lavorano in parallelo cooperative di servizi al livello più basso, infermieri professionali con titolo universitario e medici che si vanno peraltro esternalizzando perchè così guadagnano cifre favolose, almeno 500/600 euro al giorno. Nelle ferrovie di cui il sindacalista CGIL Moretti è stato amministratore delegato il personale in questi anni è stato dimezzato e in parte appaltato. Per il resto, nel Pubblico impiego tra Covid, smart-working, blocco delle assunzioni, invecchiamento del personale e professionalizzazioni di alcuni specifici e limitati settori ritenuti trainanti non c’è aria di ripresa.

In effetti se ne è discusso poco, anzi si può dire che si è mantenuto praticamente il silenzio, ma in giro non si parla delle elezioni RSU del Pubblico Impiego del 2022, da cui si possono capire molte cose. Quello che si definisce sindacalismo di base ad esempio tace, forse perchè ha spuntato poco più dell’1% dei voti. Quanto allo stato di salute dei confederali, basta pensare che in un recente sciopero della scuola, uno dei pochi nel pubblico impiego, hanno totalizzato, insieme a tutte le sigle, confederali e no, il 24% di partecipanti. A completare il panorama si tenga conto infine che un ente importante come le Poste è completamente controllato dalla CISL che ne esprime a volte anche gli amministratori. Si può ben dire che alle Poste, dal punto di vista sindacale, non si muove foglia che la CISL non voglia.

Se andiamo ad esaminare poi la situazione nel settore privato emergono questioni di non poco conto sulla struttura dei rapporti di lavoro. Qui imperano contratti a tempo determinato, decentramento produttivo, uso abbondante degli immigrati in comparti importanti come l’agricoltura, l’edilizia, il commercio, il turismo, la ristorazione, e il progetto della Meloni è quello di rendere l’uso di manodopera extracomunitaria strutturale e concordato col padronato con i ‘corridoi umanitari’. Ad Avezzano, in Abruzzo, recentemente per la raccolta delle famose patate si è arrivati al punto di organizzare voli charter dal Nordafrica per il lavoro stagionale.

Anche la grande industria non scherza. E’ di questi giorni il reportage de Il Fatto sulla Fincantieri di Monfalcone che nei suoi cantieri navali occupa direttamente 1400 operai mentre ci lavorano anche 10.000 operai delle ditte di appalto. E parliamo di una delle più grandi aziende italiane. Si può immaginare come vanno le cose nei settori produttivi di minore importanza. Quindi ci troviamo di fronte a una seria disarticolazione del tessuto del lavoro dipendente e se vogliamo uscire da questa condizione dobbiamo riflettere bene su come procedere.

Come la Francia insegna, per avere una forza contrattuale e mettere in crisi l’avversario bisogna che ci sia una mobilitazione compatta dei lavoratori. Senza questa condizione non si può andare da nessuna parte. Il primo problema perciò è capire come ottenerla, senza iniziative avanguardistiche che in questi anni hanno lasciato il tempo che trovano.

L’equivoco è stato, finora, quello che bastasse decidere di essere sindacato di base per superare gli ostacoli e riorganizzare i lavoratori su un’altra linea . Sappiamo come è andata nel pubblico impiego. Quanto agli altri settori del lavoro dipendente, alcune rondini non fanno primavera. Forse proclamarsi avanguardie può soddisfare le smanie di protagonismo alimentate anche dalle quote sindacali che ne permettono la sopravvivenza. Ma chi ha occhi per vedere e un minimo di conoscenza storica di lotte dei lavoratori potrà constatare facilmente che in Italia un po’ di democrazia non si nega a nessuno purchè non disturbi il manovratore. In questa commedia ognuno fa la sua parte, ma a rimetterci sono i lavoratori in termini di salario e condizioni di lavoro. La verifica la si può fare facilmente sui risultati della contrattazione. Chi l’ha gestita finora e quali risultati sono stati portati a casa?

Ma se questa, a grandi linee, è la situazione, qual è la possibile soluzione dei problemi che stanno di fronte a chi si propone di cambiare lo stato di cose presente? La prima condizione, a nostro avviso, è politica. Se si dà per scontato infatti che la rappresentanza dei lavoratori è automaticamente attribuita a chi gestisce attualmente la contrattazione e ci si limita a fare opposizione verbale ai confederali la situazione non si sposta di un millimetro. La condizione essenziale per cambiare le cose è mettere in crisi la legittimità di CGIL, CISL e UIL a rappresentare i lavoratori, sviluppando una coscienza collettiva e unitaria che bisogna liberarsi di queste organizzazioni fantoccio e parassitarie e ricomporre una diversa idea di rappresentanza dei lavoratori in cui questi siano i protagonisti e il vero soggetto contrattuale. In altri termini bisogna approfondire la frattura tra interessi dei lavoratori e confederali, rendendola insanabile e facendo avanzare un altro modello di rappresentanza. Ma per arrivare a questo risultato ci vuole la partecipazione dei lavoratori. Ricreare organizzazioni confederali in sedicesimo, comunque le si denomini, somiglia un po’ all’esperienza di coloro che dopo lo scioglimento del PCI lo hanno voluto ricostituire senza un retroterra.

Quando furono costituite le prime strutture delle Rappresentanze sindacali di base l’idea non era quella di gareggiare con CGIL, CISL e UIL tentando una nuova avventura confederale, ma di sviluppare una riappropiazione degli strumenti di rappresentanza e decisionali e contrapporli alle confederazioni: una sorta di dualismo di potere su cui incanalare la spinta dei lavoratori.

Si sa come sono andate le cose: l’ideologismo post-sessantottino, la pratica anarco-sindacalista e la scoperta delle ritenute sindacali per costruire un mini potere hanno portato al fatto che l’Italia non è la Francia.

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