
di Andrea Catone
1. Una nuova fase della storia mondiale
Dagli inizi del 2022 siamo entrati in una nuova fase della storia mondiale. Contro gli impegni assunti nel 1990-91, al momento dello scioglimento del Patto di Varsavia e del COMECON, di non espandersi ad est, la Nato, in un crescendo di provocazioni, ha inglobato i paesi ex socialisti europei, le tre repubbliche baltiche ex sovietiche e, con il colpo di stato a Kiev del febbraio 2014, ha posto sotto suo controllo de facto l’Ucraina, imbottita di armi, istruttori militari, mercenari e laboratori Usa per le armi biologiche ai confini della Federazione russa. La quale, dopo vani tentativi di trovare una soluzione pacifica dando seguito agli accordi di Minsk (2015), ha alla fine reagito sul piano militare.
Non si tratta di una guerra locale e circoscritta. Si tratta di una guerra che ha già un carattere mondiale e si svolge su diversi campi. Quello militare è solo un aspetto, che rivela chiaramente il carattere mondiale di questa guerra con l’enorme invio di armi al regime di Kiev da parte di Usa (per oltre 20 miliardi di dollari!), Canada, Regno unito, paesi Ue. Il governo italiano, pur dimissionario, ha approvato qualche giorno fa un nuovo invio di armi a Kiev. Sul piano economico-finanziario l’Occidente ha sganciato le sue bombe nucleari, con sanzioni pesantissime nel commercio e transazioni finanziarie, nel tentativo di isolare la Russia dal sistema mondiale (sanzioni che si stanno rivelando per i paesi europei un boomerang, soprattutto per l’import di gas). È una guerra ad alta intensità anche sul piano ideologico-culturale, come non si era visto neppure ai tempi della “guerra fredda”. Insieme con una violenta campagna russofobica, i fautori dell’unipolarismo occidentale (dallo statunitense Biden all’inglese Johnson, all’italiano Draghi) lavorano per alimentare una visione del mondo in cui dalla parte dell’Occidente ci sono i buoni, i giusti, civiltà, democrazia, libertà; diritti umani; dall’altra parte, quella di Russia e Cina, i nemici assoluti, le dittature, le autocrazie, i negatori della libertà, i becchini della democrazia, ecc. (sulla scia di quanto affermato nel “Summit della democrazia” promosso da Biden nel dicembre 2021). Tra i nemici dell’Occidente, accanto alla Russia, nei media occidentali mainstream e nei documenti della Nato e del G7, viene posta la Repubblica Popolare Cinese, nei documenti Usa sulla sicurezza definita come il nemico strategico principale. In questi giorni, le provocazioni Usa contro la RPC si stanno intensificando, come si vede con l’annunciato viaggio a Taiwan della speaker del parlamento Usa Nancy Pelosi.
La nuova fase della storia mondiale in cui siamo entrati può essere definita come quella in cui si è acutizzata la contrapposizione tra due strade possibili che sono oggi di fronte all’umanità:
Da un lato, uno sbocco progressivo, il riconoscimento e l’accettazione del multipolarismo, cioè di quella visione e pratica dei rapporti internazionali – di cui la Repubblica popolare cinese si è fatta sempre più apertamente e consapevolmente promotrice – che propone non solo coesistenza pacifica ma anche cooperazione win win tra paesi con storia, cultura, organizzazione sociale e politica diverse, nella consapevolezza che questo è l’unico pianeta in cui viviamo e che in esso va costruita una comunità di destino condiviso.
Dall’altro, uno sbocco regressivo ed estremamente pericoloso: la guerra permanente che l’imperialismo Usa, potenza economica in declino, alimenta nel tentativo anacronistico di mantenere il dominio unipolare e fermare il corso della storia.
Il movimento operaio e democratico, antimperialista e antifascista, pur nella varietà e differenziazioni delle diverse analisi, posizioni, strategie e tattiche politiche, ha sulle sue spalle la grande responsabilità di operare perché si affermi lo sbocco progressivo.
Nell’attuale fase della storia mondiale l’affermazione del mondo multipolare è la condizione per avanzare in direzione dell’emancipazione sociale e del socialismo.
2. La crisi del governo Draghi e le prossime elezioni
Sin dai primi giorni del passaggio a una fase più acuta dello scontro mondiale in atto, con l’inizio dell’operazione militare della Federazione russa in Ucraina – dove era in atto nel Donbass una guerra dal 2014 del regime di Kiev contro le repubbliche popolari di Donec’k e Lugansk – il presidente del consiglio italiano Mario Draghi ha prospettato una guerra di lunga durata e a tutto campo contro la Russia (comunicazioni alla Camera del 25 febbraio). Questa posizione si è più nettamente definita e rafforzata in seguito, espressa in atti legislativi, in dichiarazioni pubbliche, nei consessi internazionali. Da una prima fase in cui, insieme con l’invio di armi a Kiev, parlava, pur se in modo vago e senza alcuna base concreta, della possibilità di trattative, Draghi è passato a indicare, accanto a Biden e Johnson, come obiettivo irrinunciabile la piena “vittoria delle democrazie” e la disfatta e punizione delle autocrazie (Dichiarazioni durante il G7 di Elmau a fine giugno).
Questa posizione – la più oltranzista tra i paesi fondatori della Ue – presuppone una guerra lunga, una escalation in campo militare come in quello economico e finanziario, la guerra lunga e a tutto campo, tra cui quello energetico, che sta mettendo in ginocchio le economie europee.
Ignoriamo sinora tutti i retroscena e le dinamiche che hanno portato alle dimissioni di Draghi: se sia stata – in previsione dell’acuirsi della crisi economica e sociale e di una (programmata?) escalation militare con il coinvolgimento diretto delle forze armate italiane – una mossa studiata e voluta dal capo dell’Esecutivo, che ha richiesto la totale sottomissione dei partiti di governo alla sua agenda, respingendo sprezzantemente ogni possibile mediazione (sia con il M5S, sia con Lega e Forza Italia); o se hanno avuto una parte – al di là delle dichiarazioni di facciata di Lega e Forza Italia – le contraddizioni tra le diverse frazioni della borghesia italiana, alcune delle quali sono seriamente danneggiate dalla guerra prolungata di Biden e del suo più affidabile “prefetto” europeo.
3. L’Italia è in guerra
Sta di fatto che l’Italia è in guerra. L’Italia è parte belligerante, fornisce, contro il dettato costituzionale, armi, intelligence, supporto logistico e istruttori alle truppe di Kiev. L’Italia è in guerra contro la Russia, con le sanzioni pesantissime, la chiusura dello spazio aereo. L’Italia è in guerra contro la Russia con intensa campagna russofobica che tratta come collusi col nemico tutti i pochi obiettori della scelta di schierarsi senza se e senza ma a fianco di Kiev.
Ma se è così, la questione della guerra è oggi la questione principale, da cui dipendono anche tutte le altre scelte politiche sul terreno economico, sociale e istituzionale. Se c’è la guerra – guerra prolungata fino alla vittoria delle ‘democrazie contro le autocrazie’, e cioè fino alla debellatio della Russia – anche l’economia diventa economia di guerra. Si veda per esempio cosa accade con la cosiddetta transizione energetica, che oggi, a causa delle scelte di guerra che tagliano l’import di gas russo, fa il passo del gambero e riattiva le centrali a carbone. Ma ciò vale per qualsiasi programma economico-sociale: se c’è la guerra, occorrono finanziamenti speciali e supplementari per sostenerla, togliendo risorse alle spese sociali per dirottarle sulla spesa militare (e già l’Ue finanzia con miliardi di euro al mese l’apparato statale e militare ucraino). Ogni programma economico-sociale viene subordinato all’economia di guerra.
Se c’è guerra, si giustifica lo stato di emergenza, la trasformazione delle istituzioni, il passaggio a uno stato autoritario, a un esecutivo dotato di pieni poteri. Non è affatto un’eventualità remota la trasformazione in senso presidenzialistico della nostra Costituzione.
È fondamentale allora porre la questione della guerra al centro della campagna elettorale. Fuori l’Italia dalla guerra può essere la parola d’ordine unificante e di massa.
4. Contro lo pseudo bipolarismo Letta/Meloni del partito unico dell’atlantismo
Costruire il fronte ampio del “Fuori l’Italia dalla guerra”
Dopo le dimissioni definitive di Draghi (sulle ragioni profonde delle quali dovremo collettivamente indagare più a fondo, utilizzando la cassetta degli attrezzi di Marx, con la relativa analisi dei movimenti e delle contraddizioni delle classi e delle frazioni di classe) sembra profilarsi – fatte salve tutte le parti in commedia del ceto politico italiano con le sue subculture – uno scontro pseudo bipolaretra il polo a guida Pd di Enrico Letta e il polo trainato da FdI di Giorgia Meloni. Questa polarizzazione è stata esplicitamente invocata da Letta che vede in essa la chance di contrastare l’affermazione, pronosticata dai sondaggi, del polo di destra. Potrebbe così esercitare il ricatto del “voto utile”: o il Pd o i fascisti.
Ma il bipolarismo Letta/Meloni è un falso bipolarismo. Se tra i due non vi è certamente identità di storia e cultura politica, vi è però comunanza dichiarata su una questione di fondo, anzi sulla questione di fondo oggi: entrambi, nei principali consessi politici, negli atti parlamentari, nelle dichiarazioni pubbliche, si sono posti saldamente e più che saldamente all’interno del campo Usa/Nato, hanno anzi fatto a gara su chi fosse più oltranzista nel sostegno militare a Kiev. FdI si è anche vantato di aver proposto una mozione di sostegno militare e politico all’Ucraina più netta e determinata di quella del governo Draghi (Atti parlamentari del 20 e 21 giugno).
Entrambi i contendenti accettano in merito alla guerra “l’agenda Draghi”. Sono due frazioni del partito unico dell’atlantismo.
A questo partito unico dell’atlantismo va contrapposto il “partito della pace”, un fronte ampio che ponga oggi, senza fughe in avanti, la questione dell’uscita dalla guerra, della neutralità italiana, di un’Italia vocata a un ruolo di tessitrice di relazioni di amicizia e cooperazione con tutti i paesi del mondo su base paritaria e di reciproco vantaggio. Come fu – anche nella guerra fredda – la politica di Enrico Mattei con i paesi del “terzo mondo” e con l’URSS.
È proprio così utopistico pensare alla possibile costruzione, già per le elezioni politiche di settembre, di una coalizione di forze politiche, sociali, associative, culturali, che faccia dell’uscita del nostro Paese dalla guerra ucraina il perno unificante del programma elettorale?
Non ci troviamo in una fase “ordinaria”, “normale” della lotta di classe. Siamo entrati in una fase acuta di quella “guerra mondiale a pezzi” di cui da anni parla papa Francesco. La guerra ucraina in corso non è un pezzo periferico di questa guerra, ne è il centro. Essa è oggi la questione principale, la contraddizione principale, rispetto alla quale le altre contraddizioni che interagiscono nel mondo si subordinano. Tutte le altre questioni – pane, lavoro, disoccupazione, salari, pensioni, povertà crescente, salute, crisi ambientale – non si possono né affrontare né tantomeno incominciare a risolvere se non si affronta oggi la questione principale della guerra.
Nella campagna elettorale già avviata, le principali forze politiche di destra e di “sinistra” si comportano come se la guerra non ci fosse, o come se, in ogni caso, quelle coordinate di guerra di lunga durata fino alla “vittoria delle democrazie e la sconfitta delle autocrazie” definite da Biden, Stoltenberg e, nella Ue, principalmente da Draghi, fossero ormai date una volta per tutte, immutabili, pienamente introiettate dal corpo del Paese. I principali media e le forze politiche si muovono all’interno del recinto definito della guerra per procura di Usa/Nato contro la Federazione russa.
Le principali forze politiche escludono dal loro orizzonte la rottura di questo recinto di guerra e si battono tra loro sul come dividersi gli spazi interni al recinto. Si potrebbe dire che è una lotta interna a frazioni di borghesia compradora, asservita agli interessi dell’oltranzismo atlantico, ad onta della difesa dell’interesse nazionale sbandierata da Fratelli d’Italia.
Porre la questione della guerra ucraina al centro della campagna elettorale consentirebbe di parlare di cose molto concrete e comprensibili a livello di massa.
Rispetto alla guerra attuale il movimento per la pace non è riuscito a decollare, incontra notevoli difficoltà, sia per l’attacco forsennato cui ogni voce critica è stata sottoposta (“putiniano”, in “intelligenza con il nemico”…), sia anche per limiti soggettivi. Uno dei quali può essere individuato nell’aver insistito sulla questione della trattativa necessaria, piuttosto che su quella del porre l’Italia fuori della guerra, di recuperare il nostro Paese a quel ruolo di coesistenza e cooperazione pacifica con tutti i paesi del mondo che ha caratterizzato le fasi migliori della politica estera italiana della “prima repubblica”. Allora la catena della Nato non impedì alla Fiat di istallare impianti automobilistici in Unione Sovietica a città Togliatti. A differenza della richiesta di trattative, che deve fare i conti con la volontà di trattare di entrambe le parti in conflitto, la fuoriuscita dalla guerra – non solo rispetto all’invio di armi, che è una vera e propria incostituzionale cobelligeranza, ma anche rispetto alla guerra economica, alle sanzioni, o alla guerra culturale di accanimento russofobico – dipende formalmente dalla volontà politica della sola Italia.
È un obiettivo certamente difficilissimo, per il clima politico-culturale sempre più pesante che ci ammorba, ma è obiettivo ben definito, preciso, determinato. Quanto meglio definiti e precisi sono gli obiettivi, tanto più un movimento che li persegua con determinazione ha speranza di ampliarsi e divenire un movimento di massa in grado di ottenere risultati. Irretito nella ragnatela di richiesta di trattative, il movimento pacifista si è fermato e infine zittito quando si è manifestata con chiarezza – in particolare dopo la riunione alla base americana di Ramstein di fine aprile, riunione convocata formalmente non dalla Nato, ma direttamente dal presidente Usa ed esplicitamente finalizzata al supporto militare al regime di Kiev – la strategia della guerra prolungata fino a rendere la Russia incapace di combattere. Non è nelle nostre mani il potere di fermare la guerra, ma è nelle nostre mani la possibilità di richiedere e ottenere che l’Italia stia fuori dalla guerra.
È un obiettivo capace di parlare non solo a cerchie ristrette del circuito della sinistra (quella reale, senza virgolette) se lo si collega alle questioni economiche, ai prezzi delle materie prime e dell’energia, ai vantaggi di una ripresa di rapporti delle imprese italiane con la Federazione russa.
Se aspiriamo alla rinascita di una sinistra – pace, lavoro e pane (e anche le rose…) – che non sia puramente residuale e incapace di influire sui processi storici, non è forse questo il momento più opportuno e, al contempo, più necessario?
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