Democrazia contro aggressioni e barbarie

di Flavio Arzarello e Alessandro Squizzato

 

15ottobreLe grandi ragioni che hanno portato in piazza 500 mila persone a Roma sabato, in gran parte ragazze e ragazzi, sono sostanzialmente scomparse dai mass media e nelle discussioni del nostro Paese.

Per la prima volta siamo scesi in piazza per le stesse ragioni in tutta Europa e in tante parti del mondo. Democrazia, diritti, un’idea diversa di distribuzione della ricchezza. Il primo appuntamento di massa contro il liberismo e non solo contro Berlusconi, contro la dittatura della Bce in Europa, per un’uscita diversa dalla crisi.

Roma è stata forse la piazza più partecipata a livello mondiale. Sarebbe stata la genesi del movimento di quest’anno, consapevole e determinato. In continuità con quello nato un anno fa, esattamente il 17 ottobre 2010, all’indomani della grande manifestazione indetta dalla Fiom, che ha attraversato le imponenti lotte degli studenti, delle donne, fino ai referendum di questa primavera. Invece si sta parlando di altro: degli scontri, della violenza di pochi. Quello che sarebbe potuto essere il battesimo del movimento rischia di diventarne la tomba: quanto messo in scena sabato dalle poche centinaia di incappucciati addestrati e organizzati è stato un vero e proprio attacco al corteo e al movimento.

Abbiamo aspettato a scrivere, proprio per indagare e tentare di capire, fuori dall’agitazione del momento; oggi appare chiaro che gli interessi dei violenti e dei poteri forti sono convergenti: impedire che questo movimento, dalle grandi ragioni e dalle grandi possibilità faccia breccia, si allarghi nel ventre della nostra società oltre i confini delle forze organizzate. Sabato eravamo, tutti insieme, riusciti a produrre la cosiddetta ‘eccedenza’. Ed è per questo che non solo li condanniamo, per i metodi e per gli scopi, ma che li consideriamo nostri nemici.

I gruppuscoli che hanno organizzato il teppismo e gli scontri con la polizia probabilmente sono più eterogenei di quello che pensiamo, e mettono assieme estrema destra, delinquenti comuni, infiltrati (non abbiamo elementi, ma non ci stupirebbero modalità di cossighiana memoria) ed estremisti di altro genere che magari si ritengono anche di sinistra. La regia politica, tuttavia, è mossa da un’idea molto precisa: disarmare lo scontro sul piano politico e portarlo sul piano “militare”, inteso come uso organizzato della forza.

Per fare questo occorre alzare il livello di scontro con gli apparati repressivi dello Stato, far chiudere al dissenso democratico gli spazi di libertà fino a renderlo innocuo e quindi sostenere i propri mezzi come unici possibili.

Mezzi che peraltro non c’entrano nulla con gli scopi “anticapitalisti” che dichiarano: sono stati attaccati piccoli esercizi commerciali, forse qualche vetrina (assicurata) di banca e molte auto utilitarie, probabilmente di lavoratori e lavoratrici indignati quanto noi.

L’esplosione di “rabbia” che forse in parte c’era stata il 14 dicembre, e che non avevamo colto fino in fondo, o la risposta ad una strategia cilena delle forze dell’ordine come a Genova sono cose che con sabato non c’entrano nulla. La linea di demarcazione tra i manifestanti e gli incappucciati non la stiamo tracciando noi con queste considerazioni, è stata visibile a chiunque si trovasse a Roma sabato: la manifestazione è stata violentata, stuprata e quindi azzittita.

E ora il movimento rischia di trovarsi schiacciato nella più classica delle eterogenesi dei fini.

Chi ha messo in scena la violenza è ben felice di scatenare ritorsioni autoritarie che legittimano i loro metodi ed eliminano la concorrenza politica. Allo stesso tempo la destra al potere – lo vediamo già dalle reazioni di Alemanno e Maroni – è interessata a mettere fuori gioco chi la sfida (vincendo) sul piano politico e presentando all’opinione pubblica un nemico comune mascherato, incomprensibile, che ti sfascia la macchina o la vetrina del negozio: recintare, chiudere gli spazi democratici appare – secondo il loro schema – così una scelta obbligata.

I violenti di sabato non sono “utlimi dei Mohicani” che non si arrendono, non sono rivoluzionari un po’ acerbi, non sono proletari arrabbiati: sono manodopera della vecchia ed assodata strategia della tensione.

E certa stampa, anche di sinistra, non aiuta: non fanno certo bene, in modo speculare, gli editoriali assolutori e le interviste, tra l’altro poco credibili, che vorrebbero essere di denuncia, ma contribuiscono a creare un alone di mistero e di possibile fascinazione. ‘Gli incappucciati’, usiamo questo termine per evitare definizione che possono suonare approssimative, sono interessatissimi alla costruzione di un immaginario, fatto di violenza e machismo, che li unisca idealmente a chi protesta in Grecia o in altri Paesi europei. Non possiamo prestare il fianco. A noi, che facciamo politica tra i giovani quotidianamente, non può sfuggire che, pur nell’insignificanza dei numeri (99% contro 1%) il ‘blocco nero’ è composto da diversi giovanissimi, cresciuti in anni in cui la politica appare, e in larga parte è, lontana dai bisogni concreti. Rilanciare il movimento è necessario anche per fare in modo che questo pericolosissimo germe non si allarghi.

Chi sta facendo le spese, per prima, di questa strategia è la FIOM, e quindi le lavoratrici e i lavoratori: i metalmeccanici manifesteranno scontrandosi con i vincoli del tutto pretestuosi di Alemanno. Per questo la mobilitazione di domani assume un significato ulteriore: un preciso, fermo, nettissimo NO a chi vorrebbe limitare le libertà democratiche in questo Paese.

Infine, dobbiamo imparare dagli errori compiuti nella costruzione dell’appuntamento del 15 ottobre. La scelta di costruire un ‘Coordinamento’ 15 ottobre e non un ‘Comitato’, per essere il più inclusivi possibile, vista la mancanza di condivisione di piattaforme politiche e di pratiche, è stata errata. Lo diciamo prima di tutto a noi stessi.

Lo spontaneismo è un principio che nelle manifestazioni di piazza aiuta l’inclusione ma ci rende deboli. Dobbiamo ripensare, inoltre, come andare in piazza, dall’ordine degli spezzoni al “governo” del corteo, per renderci meno attaccabili. Anche su questo non possiamo più assecondare la vulgata antipolitica, secondo cui le forze organizzate, partiti-associazioni-sindacati, devono venire sempre dopo.

Alemanno, con tutta la sua esperienza nel campo delle manifestazioni, Maroni, persino Di Pietro accecato come spesso capita dalla smania di raccattare consensi, cercano di uccidere il movimento.

La nostra risposta deve essere quella di rilanciarlo. Rilanciarlo a partire da quello che spaventa sia chi sta al potere, sia chi spacca le vetrine: proposte politiche chiare, concrete e di massa. Contenuti che parlano di riforma fiscale e del welfare, diritti ai lavoratori precari, investimenti sulla ricerca e l’innovazione per favorire lo sviluppo, difesa dei beni pubblici, riforma in senso democratico dei partiti e della politica.

La coesione attorno a questo programma, che cammina sulle gambe di chi lavora e studia, di chi vuole un paese migliore, alla luce del sole e a volto scoperto, è un’arma che sul lungo periodo è molto più forte degli agguati nei cortei e delle cariche delle forze dell’ordine. Dobbiamo difenderlo e rilanciarlo assieme, contro gli uni e contro gli altri.

La parola d’ordine, che deve accompagnarci è democrazia: contro le politiche di austerity della Bce, contro il Governo Berlusconi, contro chi sfascia le vetrine e contro chi reprime il dissenso. Democrazia per l’Italia, l’Europa e il mondo di domani.

 

(Flavio Arzarello è coordinatore nazionale della Fgci, Alessandro Squizzato è componente dell’esecutivo nazionale della Fgci)