riceviamo e pubblichiamo
di Roberto Gabriele
Pur dovendo sfidare l’opinione di settori di sinistra, è ormai necessario aprire un dibattito sugli scioperi indetti da quello che si definisce sindacalismo di base, per chiarire alcune questioni che normalmente sfuggono perché la quasi totalità degli interessati non partecipa agli scioperi e quelli che scioperano e soprattutto scendono in piazza lo fanno a prescindere dai dati oggettivi.
Perché vogliamo chiarire questi equivoci? Partiamo dalla questione centrale, che è quella del significato dello sciopero generale. Da tempo quello che si definisce sindacalismo di base è abituato a fare scioperetti di sigla senza curarsi del risultato e del discredito che il loro fallimento di fatto comporta.
Stavolta però la novità è stata che tutte le sigle del sindacalismo di base hanno deciso di scioperare assieme. Il fatto è stato salutato con grande enfasi, ma nessuno si è posto la questione di come mai quello che si proclama sindacalismo di base ha marciato fino ad oggi diviso. Il sindacalismo di base non dovrebbe per definizione essere un movimento unitario che parte dai lavoratori e spinge per raggiungere, con la sua forza, determinati obiettivi e per rompere il controllo confederale che ne impedisce il raggiungimento? E se questo è il motivo che giustifica la nascita di strutture alternative ai confederali come mai fino ad oggi abbiamo visto il proliferare di sigle in concorrenza tra loro che in quanto sindacalismo di base dovrebbero invece rappresentare la maggioranza dei lavoratori interessati alle lotte? Finora la fraseologia ‘antagonista’ e il rivendicazionismo virtuale hanno nascosto il fatto che il sindacalismo di base in realtà esprime una configurazione minoritaria che risponde a logiche di gruppo e ha introiettato la cultura che queste logiche hanno prodotto. Il fatto di definirsi sindacalismo di base non ne cambia la sostanza.
Chi ha buona memoria ricorderà che la questione di strutture sindacali alternative si è posta quando, a partire dagli anni ’70, le Confederazioni CGIL-CISL-UIL hanno imposto ai lavoratori accordi contrattuali che andavano contro i loro interessi. Laddove si è espressa un’esigenza di consolidare un livello permanente di opposizione sono nate quelle strutture che prenderanno il nome di Rappresentanze sindacali di base, Cobas scuola, Comu, tanto per citare le sigle storiche che hanno avviato il processo. Subito però a tutti i protagonisti si è posta la questione di come andare avanti perché la sfida era stata lanciata, ma il rapporto tra confederali, istituzioni e padronato mirava a impedire che sulla scena della contrattazione della forza lavoro irrompesse un nuovo protagonista. A questo punto si è verificata la svolta operata dai soliti cattivi maestri che, ereditando la cultura post sessantottina del minoritarismo, hanno scambiato il sindacalismo di base per un nuovo strumento di protagonismo di gruppo.
La storia si è ripetuta pari pari sul piano politico. Come i rifondatori di improbabili partiti rivoluzionari o autodefinitisi comunisti a suo tempo hanno tentato inutilmente di aprire un varco nei rapporti di forza determinatisi dopo la liquidazione del PCI, anche coloro che volevano essere espressione della volontà dei lavoratori hanno imboccato, per schematismo ideologico e opportunismo di fatto, la via del sindacalismo tradizionale cercando di superare gli ostacoli diventando ‘confederazioni’. Una scelta del genere andava a cozzare però con alcune questioni che qui riassumiamo:
– intanto la questione della maggiore rappresentatività, il fatto cioè che questo principio, codificato dallo Statuto dei lavoratori, taglia fuori organizzazioni che pretendono di sedersi al tavolo delle trattative non avendo un peso organizzativo adeguato e sottovalutando il fatto che le questioni contrattuali vengono attribuite ai sindacati consociativi. E’ la storia stessa che ci insegna che in questi decenni, tranne in casi periferici, i sindacati di base non hanno mai avuto la possibilità di contrattare un bel niente. Sul piano istituzionale siamo perciò al punto di partenza. Dopo più di 40 anni di ‘contestazione’ il ruolo delle Confederazioni CGIL-CISL-UIL non è stato minimamente scalfito. Questo vale anche per le vertenze che hanno rilevanza nazionale, come insegna la vicenda Alitalia.
– che cosa c’è di sbagliato dunque nella impostazione di questo sindacalismo ‘di base’? Due questioni contano in questo contesto: 1) il rapporto coi lavoratori e il loro ruolo per incidere sulla contrattazione, 2) il vero obiettivo politico che bisognava raggiungere una volta che si fosse messo in moto un processo di autonomia dei lavoratori dai loro controllori confederali.
La storia del movimento dei lavoratori ci insegna, anche attraverso il motto uniti si vince, che l’unità dei lavoratori è una condizione per la vittoria, anche se non la sola. Non esistono scioperi minoritari, questo ci insegnano le lotte operaie e laddove ci si è mossi su questo terreno si è andati incontro alla sconfitta. A meno che gli scioperi non siano virtuali e destinati a non incidere, come è avvenuto in questi anni quando sono stati solo il pretesto per il protagonismo politico di qualche gruppo.
Sulla questione dell’obiettivo politico da raggiungere bisogna tener presente che la questione della riorganizzazione dei lavoratori passerà, se la si vuole realizzare, attraverso tre condizioni essenziali: la partecipazione maggioritaria dei lavoratori alle lotte, la capacità delle avanguardie nei posti di lavoro di tenerli uniti e di guidarli nei vari passaggi, la preparazione del terreno del confronto col padronato rivendicando l’agibilità sindacale costituzionalmente riconosciuta. L’unità dialettica di queste tre condizioni deve essere la stella polare di ogni organizzazione di base che non voglia ingannare i lavoratori con la demagogia massimalista.