La guerra scomparsa

pubblichiamo come contributo alla discussione

di Roberto Gabriele

Le elezioni dovrebbero essere un’occasione per regolare i conti con i partiti della guerra e invece si è finiti a parlare solo di schieramenti e di liste. Tutto nasce da un equivoco, quello cioè di pensare che una cosa sono le elezioni e un’altra la lotta contro la guerra.

Certamente in tempi normali si pensa alle candidature e agli scenari parlamentari, ma ora c’è una guerra in corso e l’Italia ne è parte attiva per cui bisogna definire qual è il compito prioritario del movimento antimperialista.

La domanda è per noi quasi retorica, ma bisogna comunque farla data la totale assenza di un soggetto politico che abbia capito che l’obiettivo non è strappare qualche voto in più, ma organizzare una sorta di referendum contro i partiti della guerra e della crisi economica.

Se guardiamo alle dichiarazioni dei contendenti si rimane sul terreno delle lista della spesa con cui si tenta di agganciare gli elettori. Quello che a nostro parere manca è invece l’obiettivo da conseguire nella competizione elettorale, che non è di dimostrarsi più a sinistra di qualcun altro pensando così di essere più bravi, ma quello di mobilitarsi nelle piazze per stabilire, aldilà delle liste, una linea di demarcazione tra i partiti della guerra e della crisi economica e tutti quelli che la guerra non la vogliono e che devono organizzarsi per difendersi dalle sue conseguenze.

Non saranno dunque le cautele di Conte e i balbettii di De Magistris a rappresentare la linea del fronte che si batte contro la guerra.

Per tutti quelli che dal 24 febbraio hanno partecipato alla discussione sulle responsabilità per la guerra in Ucraina e non sono caduti nella trappola della condanna della Russia si apre una fase di riorganizzazione dell’intervento politico centrato sulla guerra e la crisi economica. A costoro va rivolto l’appello a rompere con l’impostazione elettoralistica e impegnarsi in altro modo, da oggi fino alla scadenza del 25 settembre, per essere più chiari sulle modalità con cui va concepito l’intervento in campagna elettorale e perchè non ci siano equivoci di sorta, non per parlarsi tra i soliti addetti ai lavori che si logorano per spartirsi le briciole.

La nostra interlocuzione deve essere con quei milioni di italiani che rifiutano o sono preoccupati per la guerra in Ucraina e per le conseguenze economiche che sta producendo e vogliono che l’Italia se ne tiri fuori. A questi dobbiamo parlare di pace e di condizione economica, un unico obiettivo che deve emergere con evidenza, nella convinzione che la campagna contro la guerra è il perno che può dare forza alla lotta.

In piazza dunque con chi rifiuta la guerra di Draghi, di Letta, della Meloni e di tutti gli altri partiti che hanno votato l’invio di armi per la guerra in Ucraina e deciso le sanzioni economiche contro la Russia. In piazza anche contro il vergognoso comportamento di Landini e degli altri sindacati confederali che stanno coprendo il governo Draghi e la Confindustria bloccando i lavoratori con una finzione di trattativa.

Se questa è la scelta da fare non significa però che la campagna elettorale non vada seguita da un punto di vista politico e valutata per le sue conseguenze, che prevediamo disastrose. Su questo dobbiamo comunque attrezzarci e arrivare all’appuntamento del post 25 settembre con un movimento già orientato a combattere.

Bisogna però mettere in chiaro che il modo con cui le varie liste elettorali usano il tema della guerra per accaparrare voti non corrisponde alle necessità del momento ed è espressione di un elettoralismo che non riesce a convincere la gente e porta a rafforzare l’astensionismo.

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