La festa del (non) lavoro

tomba lavoro

di Marco Pondrelli

Parlare di lavoro e di Italia rischia di diventare un ossimoro. Nonostante l’ottimismo sparso a piene mani dal governo i dati macroeconomici continuano a darci un quadro desolante. Al drammaticamente basso livello dei salari italiani si unisce la sicurezza sul lavoro, con le morti che oramai non fanno più notizia.

Ovviamente le colpe di tutto ciò non possono essere attribuite al solo governo in carica (che comunque ci ha messo molto del suo), si tratta di un percorso che è stato avviato all’inizio degli anni ’90. Al crollo dell’Unione Sovietica non è corrisposta la fine della storia ma un attacco potentissimo al mondo del lavoro. In particolare gli anni ’92-’93 furono quelli in cui attraverso la concertazione si cancellò la scala mobile ed anche quelli del referendum Occhetto-Segni-Confindustria per il passaggio al maggioritario, se da una parte si colpivano i salari dall’altra i rappresentanti dei lavoratori. Un dato da guardare con attenzione è la presenza di operai in Parlamento, in quello attuale non ce ne sono. Abbiamo costruito il modello americano e come negli Stati Uniti la politica è tornata ad essere fatta dai ricchi per i ricchi.

Il calo della partecipazione elettorale non è un calo suddiviso nell’intera società, sono le classi più deboli e povere ad essere escluse. È normale che a questo nuovo assetto istituzionale (frutto dei rapporti di classe) si accompagni una compressione dei salari e una limitazione degli spazi democratici.

Non molto tempo fa in Parlamento Mario Draghi ha sottolineato la necessità di rilanciare i consumi aumentando i salari, evidentemente chi ha parlato è solo omonimo del Mario Draghi che da direttore generale del Ministero del Tesoro guidò il grande periodo delle privatizzazioni e ci deliziò ulteriormente come Presidente della Banca d’Italia, della BCE e del Consiglio dei Ministri (con una breve parentesi a Goldman Sachs). Anche pezzi di borghesia, che una volta si sarebbe definita illuminata, capiscono che la compressione dei salari porta ad una contrazione dei consumi. È stato quindi un unico grande errore quello ciò che è successo in Italia negli ultimi 30 anni? No, la scelta era finalizzata ad abbassare i costi di produzione per sostenere le esportazioni, abbiamo sostituito alla svalutazione della moneta la svalutazione del lavoro.

In un contesto mondiale in cambiamento il nostro Paese deve decidere cosa vuole fare, se rimpiangere la globalizzazione libero-scambista o guardare ad un nuovo mondo in cui la produzione si è spostata ad oriente. L’Italia deve guardare a Brics e nello stesso tempo rilanciare il proprio mercato interno, devono aumentare i salari e va rilanciato il welfare state. Questa strada non è compatibile con quella del riarmo, che vorrebbe sostituire al welfare state il warfare state, individuando la Russia e la Cina come nostri nemici. L’Occidente, a partire dagli Stati Uniti, ha il record di spese per armamenti ma evidentemente non gli basta, la retorica anti-russa e anti-cinese serve però a poco per ridurre le liste d’attesa in sanità e per calmierare l’inflazione.

Dal 5 aprile qualcosa si sta timidamente iniziando a muovere. Dobbiamo però essere chiari: l’obiettivo non può essere il campo largo, oggi è necessario ricostruire un radicamento nel mondo del lavoro e lavorare per far saltare il quadro politico non per puntellarlo. Abbiamo bisogno di ripartire evitando scorciatoie elettoralistiche che finora non hanno portato bene.

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