di Francesco Gesualdi | da il Manifesto
Il debito pubblico non è più una questione di ordinaria politica. È diventata una guerra che, a seconda di chi la vincerà, potrà avere effetti devastanti per la democrazia e lo stato sociale dei prossimi trecento anni. In campo ci sono le comunità nazionali contro i poteri della finanza, ma più che di scontro bisognerebbe parlare di assedio. Disgraziatamente, il vantaggio è delle oligarchie della finanza e non per merito proprio, ma per il tradimento della classe politica che mentre distraeva i cittadini con spettacoli di bassa demagogia, spalancava i portoni nazionali all’esercito mercantilista affinché i suoi guerrieri occupassero tutti i posti strategici. Ed oggi che l’intera economia mondiale è sottomessa al loro dominio e che le loro regole sono applicate come fossero leggi della natura, tutti si affrettano a dirci che non c’è altro da fare se non accettare i diktat dei mercati, ossia dei signori della finanza, che usano la speculazione e ogni altra strategia di ricatto per raggiungere i loro obiettivi, fondamentalmente tre. Il primo: fare aumentare i tassi di interesse affinché una quota crescente di ricchezza prelevata alla collettività, finisca nelle loro tasche invece che ai servizi pubblici. Così scopriamo che il debito pubblico è un meccanismo parassitario per consentire ai benestanti di vivere di rendita senza colpo ferire. Un meccanismo di redistribuzione alla rovescia, che prende a tutti per regalare ai più ricchi. Nel 2010 la quota di entrate tributarie regalata ai signori della finanza è stata pari al 15,6% corrispondente a 70 miliardi di euro. Ma dopo le bordate speculative degli ultimi mesi, i tassi di interesse sui titoli di stato sono quasi raddoppiati e per il 2012 ci si aspetta un aumento della spesa per interessi di 10-15 miliardi di euro. Soldi che in parte anche il governo Monti andrà a pescare dove ce n’è e dove è facile prenderli, ossia nella cassa pensioni. E mentre tutti sentenziano che per una questione di equità intergenerazionale è un dovere sacrosanto andare in pensione a 70 anni, ci nascondono che il vero obiettivo non è garantire soldi ai giovani, ma assicurare un pizzo sempre più alto ai signori della finanza che hanno fatto buon apprendistato alla scuola dei padrini. Il secondo obiettivo è mettere le mani sui servizi pubblici che possono procurare profitto. Non solo acqua e rifiuti, ma anche sanità, poste, istruzione, trasporti, viabilità, addirittura il sistema penitenziario come mostra l’esperienza statunitense.
La strategia per convincerci a passare al mercato è stata sviluppata in due tempi. Prima ci hanno fatto un buon lavaggio del cervello per convincerci che privato è buono, pubblico è cattivo. Poi, ci hanno procurato una buona crisi finanziaria per convincerci che quand’anche volessimo, il pubblico non ha i mezzi per garantirci i servizi. Tutto sembra accidentale, ma sappiamo che la dottrina neoliberista è all’opera dai tempi dell’accoppiata Reagan-Thatcher e non lavora solo tramite la via finanziaria, ma anche quella istituzionale, come mostra l’attività di lobby svolta a Bruxelles e a Ginevra per ottenere dall’Unione Europea e dall’Organizzazione mondiale del commercio, risoluzioni e trattati che tolgono agli stati l’esclusiva dei servizi pubblici. Il terzo obiettivo è impossessarsi a buon mercato del patrimonio collettivo, ossia dei beni comuni, facendo leva sull’argomentazione che per risolvere il problema del debito pubblico bisogna ridurne la portata. Il debito pubblico italiano ammonta a 1900 miliardi di dollari: come disfarsene con le sole entrate fiscali? Ed ecco il suggerimento di vendere tutto ciò che la comunità possiede in termini di partecipazioni azionarie, edifici, terreni, infrastrutture, spiagge, isole, monumenti. Uno dei più solerti ad accogliere questo invito è stato il governo D’Alema che nel 1999 venne insignito del premio Ocse come miglior privatizzatore dell’anno. Dal 1992 ad oggi sono stati trasferiti ai privati oltre 150 miliardi di patrimonio collettivo, principalmente imprese pubbliche. Ma la Fondazione Eni, che pubblica annualmente un rapporto mondiale sulle privatizzazioni (Privatization barometer) stima che fra aziende ed immobili, lo stato italiano possiede ancora un patrimonio di 1500 miliardi su cui i privati non vedono l’ora di mettere le mani, naturalmente a prezzi di realizzo.
La scelta che oggi si impone è se chinare la testa e cedere al ricatto dei mercati, o drizzare la schiena e organizzarci per rompere l’assedio. Ragioni di democrazia, dignità e giustizia suggeriscono di imboccare la seconda strada, adottando subito una misura d’urgenza, definita congelamento o moratoria del debito, che consiste nella sospensione del pagamento di capitale e interessi, per uno o due anni, verso banche, fondi e assicurazioni, avendo cura di salvaguardare le famiglie che detengono appena il 14% del nostro debito pubblico. Due gli scopi principali della manovra: neutralizzare la speculazione e toglierci di dosso l’ansia delle scadenze immediate che ci costringono a scelte avventate. Tamponando l’emorragia degli interessi non avremmo bisogno di ricorrere a manovre finanziarie d’urgenza e senza la pistola dei mercati alla tempia potremmo concentrarci sulla messa a punto di un piano ben ponderato di uscita dal debito. Un piano che deve necessariamente partire da una perfetta conoscenza delle ragioni per cui il debito si è formato. È perfino superfluo doverlo affermare, ma la prima cosa che si fa quando si è chiamati ad aiutare una famiglia o un’azienda a tirarsi fuori dai debiti è di capire bene la situazione, che non vuol dire solo mettere a fuoco l’ammontare dei debiti, ma anche se ci sono dei debiti illegittimi, come gli interessi usurai. Nel qual caso non si consiglia di pagare, ma di portare le carte in tribunale per denunciare l’abuso. Se l’illecito può annidarsi nei debiti privati, tanto più può nascondersi nel debito pubblico, un mare magnum dai mille gestori che non sempre hanno dato prova di onestà e rispetto per il denaro pubblico.
Per questo un secondo passaggio imprescindibile è la nomina di una commissione di inchiesta, autorevole e indipendente, che conduca una seria indagine (audit per dirla all’inglese) per dirci chiaramente cosa ha contribuito a formare il debito pubblico. Solo l’aumento sconsiderato delle spese o anche la riduzione delle entrate? E parlando di spese quanto hanno pesato gli interessi che in certi periodi sono stati a due cifre? E quanto hanno pesato gli eccessi di spesa dovuti a ruberie e corruzione? Dopo di che bisognerà aprire un grande dibattito pubblico per stabilire se abbiamo l’obbligo di pagare tutto o solo ciò che ha una base di legittimità. Molti giuristi internazionali affermano che il popolo ha l’obbligo di restituire solo quella parte di debito che è stato utilizzata per il bene comune e solo se sono stati pagati tassi di interesse equi. Tutto il resto, dovuto a ruberie, sprechi, corruzione, può essere dichiarato illegittimo e in quanto tale da ripudiare, come ci insegnano i popoli del Sud del mondo. Se ben fatta, l’indagine ci mostrerà non solo la vera dimensione del debito legittimo da ripagare, ma ci fornirà anche indicazioni sulle politiche da seguire per mettere a punto un piano equo di uscita dal debito. Se risulterà che al debito hanno contribuito privilegi e regalie alle fasce più ricche, sotto forma di interessi esosi, contributi indebiti, abbattimenti fiscali ingiustificati, sarà un motivo in più per prevedere sacrifici più alti a loro carico. In Italia sappiamo che abbiamo un tasso di evasione altissimo e che dal 1982 ad oggi si sono abbassate le aliquote oltre i 75.000 euro dal 72 al 43%. Per lo stato ha significato un mancato incasso che gli ha procurato un doppio danno: il peggioramento del debito e un maggiore esborso per interessi. Per i ricchi, invece, si è trattato di un doppio guadagno: mancato esborso fiscale e incasso di interessi perché la beffa è che i soldi risparmiati sono finiti comunque allo stato, ma sotto forma di prestito. E allora chi è il vero debitore: il popolo depredato dai ricchi o i ricchi che hanno derubato il popolo?
Così arriviamo alla terza iniziativa che è l’individuazione delle politiche da adottare per sbarazzarci del debito senza danno sociale. Un tabù da sfatare è che non si possa ristrutturare il debito, ossia patteggiare con i creditori una riduzione delle quote in loro possesso. Lungo la storia molti paesi lo hanno fatto con sommo beneficio e sarà necessario che lo faccia anche l’Italia per non aggravare una bancarotta già in atto, che è quella sociale. Ristrutturare il debito, ma anche rivedere seriamente entrate e uscite. Sul piano delle entrate oltre ad adottare, finalmente, una seria politica anti-evasione bisogna ripristinare una politica fiscale di tipo progressivo come prescrive la Costituzione. Si è sempre difeso l’abbassamento delle aliquote sui redditi alti sostenendo che servono per gli investimenti produttivi. Oggi sappiamo che sono utilizzati per attività speculative, addirittura contro i titoli di stato per costringerlo a pagare tassi di interesse più alti. Ebbene, quei soldi oggi usati contro la comunità vanno recuperati per ripagare in parte il debito accumulato, in parte per finanziare il rilancio dell’economia basata sull’economia locale, sulla riconversione delle attività produttive in un’ottica di sostenibilità, sul miglioramento e ampliamento delle infrastrutture che stanno alla base dei servizi pubblici: acquedotti, ferrovie locali, edilizia pubblica. Aumento di spese per la costruzione di un altro modello economico e contemporanea riduzione delle spese inutili e dannose come le spese militari, i privilegi dei dirigenti pubblici e politici, le opere faraoniche che servono solo a ingrassare mafie e clientele. Ovviamente si tratta solo di considerazioni sommarie, che devono essere definite in dettaglio da un ampio dibattito pubblico. La partecipazione: ecco di cosa abbiamo davvero bisogno per uscire dal debito con equità. Ma la partecipazione si nutre di conoscenza. Per questo si scrive commissione d’indagine sul debito pubblico, ma si legge democrazia.
*Campagna per il congelamento del debito