di Emiliano Brancaccio | da www.emilianobrancaccio.it
I miei ultimi interventi sulla crisi della zona euro hanno suscitato alcune interessanti reazioni. Gli articoli e le interviste sulle ambiguità di Syriza, sul fatto che c’è modo e modo di abbandonare la moneta unica e sulla necessità che la sinistra inizi a dotarsi di una exit strategy dall’euro hanno animato dibattiti ai quali hanno partecipato vari studiosi ed esponenti politici.
Il segretario del PRC, ad esempio, ha ritenuto opportuno criticarmi sostenendo che della “bomba atomica” si può discutere solo dopo che sia esplosa, non prima. Questo atteggiamento tattico è prevalente tra gli attuali esponenti della sinistra, ma sembra trascurare un piccolo dettaglio: i tempi di innesco e la specifica traiettoria della “bomba” in questione non saranno affatto irrilevanti per i destini di coloro ai quali il PRC e il resto della sinistra vorrebbero chiedere voti. Eludere la questione sperando che nessuno si accorga dello stallo in cui versano le forze di sinistra temo sia illusorio, e potrebbe compromettere persino obiettivi modestissimi come la mera autoriproduzione di qualche residuo gruppo dirigente.
Ma non è finita qui. Nel corso di un seminario organizzato pochi giorni fa dalla Fondazione Di Vittorio e dall’ARS, uno stimato collega economista, della scuola di Federico Caffé, si è lanciato in un’animosa invettiva contro il sottoscritto. Il collega mi ha sostanzialmente dato del “guerrafondaio” semplicemente perché ho sostenuto che i tempi dovrebbero ritenersi maturi affinché le forze di “sinistra” elaborino un autonomo punto di vista sulle diverse, possibili modalità di deflagrazione dell’eurozona. Alla filippica del collega ho quindi ritenuto necessario rispondere con la nota Gli intellettuali “di sinistra” e la crisi della zona euro. In essa ho sostenuto che, da un esame un po’ meno superficiale del corso della Storia, non è difficile trarre la conclusione che proprio una reiterata soggezione alla camicia di forza dell’attuale Unione monetaria europea potrebbe render concreta, a un certo punto, l’agitata minaccia di un’onda bellicista.
L’esperienza insegna, però, che i montanti possono sempre giungere da entrambi i lati. Laddove il suddetto economista mi ha additato come un irresponsabile agitatore delle più nefande pulsioni guerresche, un altro collega invece mi ha rimproverato di essere ancora troppo “timido” nei confronti della prospettiva di un’uscita dall’euro. L’accusa di “timidezza” proviene da un post di Alberto Bagnai, docente di Politica economica presso l’Università di Chieti-Pescara e animatore del blog Goofynomics.
Una premessa: sono riconoscente a Bagnai per i suoi apprezzamenti verso la mia attività di ricerca, in particolare per avere attribuito a un mio paper il merito di esser stato tra i primi, in Italia, ad avanzare una critica alle tesi prevalenti di Blanchard, Giavazzi e altri sulla sostenibilità degli squilibri delle partite correnti in seno all’eurozona. In verità Augusto Graziani, prima di me e di altri, aveva già da tempo sollevato il problema. E’ vero tuttavia che fino a pochi anni fa la rilevanza di quegli squilibri veniva ancora negata da molti, sia in ambito mainstream che eterodosso. Se dunque oggi qualcuno mi attribuisce il merito di aver dato un piccolo contribuito alla messa in discussione della vecchia vulgata, incasso e ringrazio.
A sua volta, con Francesco Carlucci, Bagnai ha avuto la prontezza nel 2003 di pubblicare una delle primissime stime del moltiplicatore fiscale keynesiano per l’intera eurozona. A dirla tutta, non essendo stati folgorati sulla via di Sraffa, Bagnai e Carlucci adoperavano un modello che determinava l’equilibrio di “lungo periodo” su basi neoclassiche. Ciò nonostante, in una fase storica in cui ancora imperversavano le improbabili tesi sugli effetti espansivi delle politiche restrittive, la loro stima ha avuto il merito di tener viva l’attenzione sul problema keynesiano della domanda effettiva adoperando strumenti sufficientemente à la page. Di questo loro merito abbiamo dato conto anche nel nostro libro.
Bagnai ha scritto diversi altri ottimi contributi scientifici, ma ora mi preme venire ai capi della sua accusa nei miei confronti. In quel che segue eviterò di badare ai toni delle sue imputazioni, in fin dei conti irrilevanti, e vedrò di badare al sodo.
In primo luogo, non so se rassicuro Bagnai o rovino esteticamente il suo presunto, splendido isolamento, ma credo sia utile ricordare un fatto: a rigor di termini, e fino a prova contraria, gli economisti italiani che sarebbero disposti a sostenere un’uscita dalla zona euro sono quasi 300. Nel giugno 2010, quando Goofynomics non aveva ancora emesso un vagito e l’eventualità di una deflagrazione era considerata a dir poco lunare, la Lettera degli economisti terminava con le seguenti parole: “Qualora le opportune pressioni che il Governo e i rappresentanti italiani delle istituzioni dovranno esercitare in Europa non sortissero effetti, la crisi della zona euro tenderà a intensificarsi e le forze politiche e le autorità del nostro Paese potrebbero esser chiamate a compiere scelte di politica economica tali da restituire all’Italia un’autonoma prospettiva di sostegno dei mercati interni, dei redditi e dell’occupazione”. Ricordo che questa frase finale suscitò comprensibili preoccupazioni tra i colleghi promotori della Lettera. Ma alla fine, grazie anche al sostegno di Sergio Cesaratto, insistemmo per inserirla nella stesura finale. Naturalmente, fu quella la parte del testo che creò le maggiori perplessità tra i possibili firmatari. Del resto, eravamo appena ai primordi della crisi greca e la gravità estrema della situazione europea non era pienamente percepita nemmeno tra gli economisti. Proprio a causa di quella frase, quindi, probabilmente perdemmo per strada un candidato Nobel, alcuni economisti di Bankitalia e vari altri autorevoli colleghi, pur simpatetici con la nostra iniziativa. Qualche altro, forse, firmò senza leggere fino in fondo (è il caso, temo, dell’economista che oggi mi accusa di fomentare la guerra). Alla fine, però, le adesioni furono comunque numerosissime e di notevole rilievo.
Come è noto, anche e soprattutto per quella dichiarazione finale, la Lettera si guadagnò tremendi strali di accuse da parte dei liberisti: per loro eravamo come i nuovi barbari, malcelati nemici dell’integrazione europea. Oggi i liberisti hanno abbassato un po’ la cresta e sui media faticano un po’ di più a far passare le loro contraddittorie ricette. Di converso, alla Lettera del 2010 viene da più parti riconosciuta una certa potenza profetica. Non siamo divenuti mainstream, beninteso. Ma possiamo dire che quei 300 firmatari, per primi, si sono presi la briga in Italia di dare un pedigree all’ipotesi di sganciamento dall’euro, facendola uscire dal novero delle indicibili bestemmie.
A questo punto, anziché riconoscere che abbiamo spianato la via, Bagnai potrebbe solipsisticamente obiettare che nella Lettera, così come nel nostro libro, ci ostiniamo ad affiancare l’opzione di uscita dall’euro a esercizi a suo avviso evocativi di una svolta europea che non potrà mai giungere. Se così facesse, tuttavia, la sua posizione diventerebbe immediatamente impolitica. Come abbiamo più volte sottolineato nel nostro libro, sussitono motivi tangibili per sostenere che i portatori degli interessi prevalenti in Germania hanno già messo in conto i costi di una eventuale deflagrazione della zona euro. La sola eventualità che essi temono è la messa in discussione non solo dell’euro ma anche della libera circolazione dei capitali e delle merci in Europa. Dunque, un modo per smuovere il quadro politico in Germania esiste: esso può essere riassunto nell’affermazione che “se salta la moneta unica può saltare anche il mercato unico europeo”. L’evocazione di una prospettiva neo-protezionista da parte dell’Italia e degli altri paesi periferici costringerebbe i tedeschi a riformulare l’analisi dei costi e dei benefici di una deflagrazione dell’Unione, e potrebbe credibilmente riaprire la partita in sede europea (che ne pensa Hollande? anziché acriticamente rallegrarsi per la loro vittoria, questa è la prima vera domanda che bisognerebbe rivolgere ai socialisti francesi). Naturalmente, fino a quando in Italia collocheremo a Palazzo Chigi un irriducibile liberoscambista come il Professor Monti, i “falchi” tedeschi si sentiranno garantiti e questa ipotesi politica non potrà tradursi in un controfattuale. Si tratta però di una ipotesi robusta, sulla quale sarebbe bene soffermarsi a ragionare (anche perché potrebbe tornare utile in una seconda fase, come i più avveduti non dovrebbero avere difficoltà a comprendere). Trascurarla in nome di un purismo astratto significa condannarsi a un destino di emarginati con la puzza sotto il naso, di tronfie cassandre tra quattro mura domestiche che si accontenteranno di lamentarsi per l’ennesimo, nefasto trionfo dei “liberoscambisti di sinistra”. Ma non credo sia questa l’ambizione ultima di Goofy.
Infine, rilevo tre passaggi analitici del ragionamento di Bagnai che trovo errati, e sui quali credo sia bene spendere qualche parola.
Innanzitutto, nella sua lettera a me indirizzata egli scrive: “…per lunga esperienza di modellizzazione del commercio internazionale colgo immediatamente il banale fatto che una svalutazione reale competitiva è isomorfa all’imposizione di un dazio protettivo”. Banale fatto? Può darsi che mi sbagli, ma intravedo un grave vizio neoclassico in questa proposizione. Evidentemente i modelli cui Bagnai si riferisce o sono fondati su un ceteris paribus di tipo marshalliano, oppure sono basati su assiomi in grado di determinare esistenza, unicità e stabilità di un equilibrio generale di tipo arrowiano. Al contrario, in uno schema di riproduzione, e nella realtà dei fatti, non è per nulla garantito che una svalutazione sia logicamente equivalente al protezionismo, né dal punto di vista della scala, né della composizione, né della distribuzione del prodotto sociale.
In secondo luogo, sugli effetti di una svalutazione sui salari reali e sulla quota salari, posso sapere, di grazia, cosa dovrei farmene del grafico di figura 7 riportato nella lettera d’amore-odio di Bagnai? Da economista teorico lo chiedo, sommessamente, all’econometrico, il quale sa di certo che da quella serie temporale non si può ricavare nulla che possa vagamente somigliare a una conclusione valida in generale e per il futuro. Cerchiamo allora di ragionare concentrandoci su un insieme di dati più ampio, ma riferito al caso specifico della crisi di un regime di cambi fissi, che è quello che ci interessa da vicino. Bagnai sa bene che sussistono numerose evidenze del fatto che uno sganciamento da un cambio fisso e una successiva svalutazione possono coincidere con una riduzione dei salari reali e della quota salari tutt’altro che trascurabili. Naturalmente, va ricordato che dal crollo dello SME al 1998 in Italia i salari reali rimasero quasi stazionari, e in Spagna e Francia aumentarono persino leggermente (real compensation per employee, dati Ameco). Ma bisogna anche tener presente che le quote salari di quei paesi si ridussero in misura consistente: in Italia, in particolare, la caduta fu pesantissima, dal 62% al 54% (adjusted wage share, dati Ameco). Qualcuno forse ritiene che in fondo conti solo il salario reale, e che la quota salari non sia importante? Spero che nessuno si azzardi a pensarla in questi termini: la dinamica delle quote distributive è forse l’indicatore chiave del cambiamento nella struttura socio-politica di un paese. Il fatto che in Italia quel crollo della quota salari sia avvenuto in concomitanza con una perniciosa mutagenesi del ruolo del sindacato non è certo casuale. Per giunta, tornando ai salari reali, si dovrebbe tener presente che l’arco 1992-1998 coincide in realtà con una transizione da un regime di cambi fissi ad una ancor più stringente unione monetaria, per l’ingresso nella quale si richiedeva una convergenza verso una nuova parità di cambio. E’ evidente allora che l’inflazione fu contenuta anche in virtù di quella convergenza! In una diversa situazione cosa potrebbe accadere? Difficile a dirsi. Le evidenze di cui disponiamo danno i risultati più disparati. Tra quelli meno piacevoli segnalo che nel 1994-1995, dopo i deprezzamenti, Turchia, Messico e Argentina registrarono in un anno cadute dei salari reali rispettivamente del 31%, 19% e del 5%, e che dopo la svalutazione del 1998, in Indonesia, Corea del Sud e Tailandia si verificarono diminuzioni dei salari reali del 44%, 10% e 6% (dati ILO e World Bank). Intendiamoci, così come è sbagliato tralasciare gli effetti sui salari, sarebbe un errore altrettanto ingenuo – o in malafede – ritenere che l’uscita dall’euro implichi necessariamente simili crolli. Tuttavia, se guardiamo non solo alla divergenza accumulata ma anche a quella prospettica dei costi unitari del lavoro interni alla zona euro, sembra logico prevedere che, dopo un eventuale sganciamento dall’euro, la dinamica delle variabili monetarie sarebbe considerevole. Pertanto, a meno di cadere nel vizio di Blanchard di considerare il markup come una variabile dipendente dalla sola elasticità della domanda e insensibile alla dinamica delle variabili monetarie, ho il forte sospetto che faremmo bene a cautelarci, esigendo: 1) una indicizzazione dei salari, 2) un ripristino dei controlli amministrativi su alcuni prezzi “base” ed anche 3) una politica di limitazione degli scambi che ci aiuti a governare meglio le fluttuazioni delle valute. Chi si ostina a eludere questo problema deve capire che così non aiuta la transizione ma la ostacola.
Infine, è evidente che dentro la zona euro il valore relativo dei capitali nazionali dei paesi periferici declina, ma per quale motivo questa ovvietà dovrebbe esimerci dall’esaminare l’effetto ulteriore e accelerato che una svalutazione avrebbe su quel valore? Solo una sindrome à la Eugene Fama potrebbe indurci a ritenere che i prezzi correnti abbiano già pienamente scontato la svalutazione futura! In realtà, l’ampia letteratura sui “fire sales” segnala che il deprezzamento del cambio in genere implica una ulteriore caduta ex-post dei prezzi degli assets. Per questo, occorre mettere in chiaro che un eventuale sganciamento dall’euro deve essere immediatamente affiancato da vincoli alle acquisizioni estere, in campo sia bancario che industriale. La sequenza del 1992, in cui svalutazione, privatizzazioni e dismissioni all’estero furono legate da una precisa catena logica, dovrebbe averci insegnato qualcosa, spero. Ancora una volta, chi gioca a sostenere che “possiamo far saltare la moneta unica” e poi il resto si vede, non ha capito niente. Io però confido che Goofy capisca.
Intendiamoci: come ho ripetuto anche di recente in una conversazione con Salvatore Bragantini e Mario Pianta pubblicata sull’ultimo numero di Micromega, personalmente continuo a ritenere che la “sinistra” sia in tremendo ritardo rispetto al precipitare degli eventi. La conseguenza più probabile è che altri arriveranno per primi al nodo delle questioni e che i lavoratori subordinati, senza adeguate rappresentanze, assumeranno il classico ruolo di variabile residuale del sistema. Ciò nonostante, occorre insistere. Per questo, vorrei suggerire la lettura, in questo volume, di un breve saggio del collega Sergio Levrero. Non lo condivido interamente ma a livello divulgativo mi sembra una possibile base di partenza per iniziare a ragionare intorno a possibili exit strategies declinate “a sinistra”.
Emiliano Brancaccio
P.S. Come avevamo osato sospettare, a quanto pare l’annuncio della mirabile vittoria di Monti in materia di fondo salva-stati era appena un tantino pompato. Presumo dunque che svariati banchieri, in questo momento, stiano augurando una estate ricca di soddisfazioni a George Soros. Buona estate e buona fortuna anche a tutti noi.
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