Rimettere il dentifricio nel tubetto. La vendetta dell’autunno caldo

oprai 1969 assemblea mirafioridi Pasquale Cicalese per Marx21.it

“Considerando che la produttività dipende dalle performance delle singole imprese, dobbiamo lavorare duramente per aiutare queste imprese a essere più grandi e più forti. Se sei troppo piccolo, non puoi sopravvivere”

Pier Carlo Padoan Guindhall, City, Londra 4 marzo 2016

“Se a ristrutturare le aziende sono gli stessi manager-imprenditori che le hanno portate alla crisi è difficile cambiare le cose. E poi ci vuole una nuova finanza adeguata a risollevare davvero le sorti delle aziende e finanziarne il rilancio. Finanza che le banche non possono assicurare, ma che invece possono portare veicoli di investimento specializzati come il nostro”.

R. Saviane Idea Capital Partners, in Milano Finanza, Crediti dubbi? Tutte Pmi, 5 marzo 2016

“Il mercato italiano è destinato ad essere l’epicentro del trading delle sofferenze bancarie”

Justin Sulger, Fondo Anacap  Padoan, gli Npl frenano la crescita ma per le banche nessun rischio di tracollo,  Il sole 24 ore 5 marzo


Il compianto Marcello de Cecco, assieme all’ex ministro delle finanze Vincenzo Visco, a metà degli anni duemila coniò il detto “rimettere il dentifricio nel tubetto”. Si riferivano al fatto che l’anomalia italiana degli ultimi 40 anni era costituita, rispetto agli altri paesi industrializzati, da un’abnorme percentuale di lavoratori indipendenti (20% del totale) e da 700 mila micro e piccole imprese nate con il decentramento produttivo post 1969, favorito dal capitale per contrastare l’avanzata operaia di gatto selvaggio nella fabbrica fordista dell’autunno caldo. Secondo questi economisti era un’anomalia da risanare sia con politiche industriali sia con mezzi fiscali. Visco ci provò due volte ma fu stoppato dal Pd perché perdevano consensi. La destra lo definì “Dracula”, ma certo rimaneva il fatto che questi due settori economici erano per la più parte, ovviamente c’erano e ci sono eccezioni, avulsi al fisco.

C’è da dire in ogni caso che nemmeno le medio grandi aziende scherzano se è vero che da diversi decenni i proventi da esportazioni rimangono all’estero e i profitti reinvestiti in paradisi fiscali, spesso con la holding capogruppo con sede in paesi con regime fiscale lassista.

Sta di fatto che questo panorama industriale italiano, costruito per sfidare la protesta operaia del 1969 (altro che ’68!), una volta smantellata l’economia pubblica,  si è dimostrato incapace di fronteggiare la crisi. De Cecco ebbe modo di ironizzare con la docente bolognese Vera Zamagni, che agli inizi degli anni novanta scrisse un best seller sui distretti industriali “Dalla periferia al centro”, rimpallando la dicitura “Dalla periferia al centro…..e ritorno”.

All’economista abruzzese, nostalgico dei colossi pubblici, il sistema industriale italiano, così come si era configurato negli ultimi decenni, non piaceva ed era dell’idea che ci aspettassero “anni di ferro”.  Si celebrava il nord est, ma de Cecco una volta ebbe a dire che era preoccupato che i 15enni veneti entrassero in fabbrica mentre i loro coetanei calabresi facevano il liceo e andavano all’università.

Era anche una questione sistemica: le piccole imprese hanno storicamente, con eccezioni, una produttività inferiore al 50% delle medie imprese e addirittura del 75% rispetto alle multinazionali, data l’inesistenza di economia di scala e l’assenza, spesso, di spesa in R&S. Il decentramento produttivo, assieme all’esplosione del lavoro indipendente, non aveva un fondamento economico, ma politico-sociale, era un modo per contrastare le lotte operaie che misero in scacco il capitale italiano per un decennio.

Certo da esso nacque in ogni caso il “quarto capitalismo”, medie aziende che negli ultimi vent’anni si sono internazionalizzate. Sono circa 20 mila e hanno un bacino di subfornitura di circa 70 mila imprese. Padoan e Renzi guardano ad esse. Con quali strumenti? “Il foglio” – L’idea di Padoan (un po’ anglo-francese) per riattivare il capitale floscio – del 5 marzo riferisce di un prossimo provvedimento fiscale frutto del lavoro del gruppo “Finanza per la crescita” che vede insieme Banca d’Italia, Ministero del Tesoro e Ministero dello Sviluppo economico. Questo gruppo ha dato forma legislativa alla nuova Sabatini, la legge che finanzia l’acquisto di macchinari, l’ACE, volta alla patrimonializzazione delle imprese, e il credito d’imposta per la ricerca. Ora va oltre e sta perfezionando un piano “per fornire un significativo incentivo fiscale finalizzato a canalizzare il risparmio verso gli investimenti produttivi in modo stabile e duraturo, facilitando la crescita del sistema imprenditoriale italiano”.

Si tratta di facilitazione fiscali per fondi specializzati, quali l’Anacap citato sopra, che investano nella patrimonializzazione e nel rilancio delle imprese. E’ indirizzato a imprese fino a 300 milioni di fatturato o quotate o dotate di strumenti finanziari quotati (obbligazioni), che esclude  dunque piccole imprese.

L’anomalia è che gli investitori in titoli di imprese italiane da parte di fondi pensione ammontano al 3% del patrimonio complessivo. Accanto ai fondi pensione, ci sono i fondi del risparmio gestito e quelli di fondi di private equity. I risparmi verrebbero quindi indirizzati dai titoli di stato e dagli immobili verso imprese produttive di medie dimensioni finalizzati ad accrescere il profilo dimensione delle aziende.

Ma c’è un altro strumento che si sta delineando. La Cassa Depositi e Prestiti nei prossimi mesi lancerà un fondo partecipato da privati da due miliardi di euro per rilevare incagli e sofferenze corporate, vale a dire di aziende. Sul totale di 201 miliardi di sofferenze, 135 sono corporate, specie di Pmi, e su un totale di 101 miliardi di incagli, cioè di crediti dubbi, stressati, che possono trasformarsi in sofferenza qualora la crisi continuasse,  85 sono corporate.

La Cassa rileverebbe questi crediti per ricapitalizzare imprese che hanno prospettive e rilanciarle, e non è detto che rimanga lo stesso proprietario. La particolarità di questo fondo è che è indirizzato a medie imprese ed esclude le piccole e le micro. Cassa Depositi e Prestiti non è l’unica a creare un fondo del genere. Inglesi, americani, francesi e tedeschi stanno acquistano crediti deteriorati corporate in vista di creare valore per i loro fondi, sia attraverso il trading, cioè acquisto e vendita di sofferenze, sia nella ristrutturazione aziendale. Si assisterà ad un riassetto capitalistico di portata storica, del resto anticipato dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nelle Considerazioni Finali del 31 maggio 2013 (si veda il mio http://www.marx21.it/italia/economia/22383-il-qghost-countryq-del-governatore-visco.html).

Non è dunque di 120 miliardi la cifra in ballo come sostiene il governatore Visco, ma tra sofferenze e incagli siamo nell’ordine di 220 miliardi di euro, almeno il 50% dell’apparato industriale rimasto. Ma se il governo favorisce imprese di una certa stazza, che fine faranno le altre? Sappiamo che il 25% del capitale industriale è andato distrutto. Rimane il 75%. Di questa percentuale il 50% fa capo a piccole e micro imprese industriali, specializzate nella subfornitura delle 20 mila medie grandi imprese italiane e nella subfornitura di multinazionali tedesche (soprattutto meccanica e chimica) e francesi (soprattutto tessile abbigliamento e pelletteria).

Attraverso la gestione di fondi specializzati di una massa enorme di crediti deteriorati in capo a questa parte di imprese si opererà una svalorizzazione di capitale industriale che, a quel punto, a prezzi stracciati, può essere comprato dalla casa “madre” committente, italiana o estera, o da altro acquirente, italiano o estero.

Scomparirà il piccolo imprenditore e si opererà una centralizzazione produttiva e di profitti industriali. Dal lato del lavoro ciò è reso possibile dal Jobs Act che ha eliminato lo Statuto dei Lavoratori del 1970 (a motivo del quale nacque il decentramento produttivo) e il governo, tramite il sottosegretario Nannicini (autore proprio del Jobs Act), estenderà il modello di relazioni industriali di Pomigliano della Fiat a tutti i settori industriali, provvedimento che vedrà la luce alla fine di quest’anno.

Oltre al prosciugamento del lavoro nel settore statale, si assiste pure ad una notevole diminuzione percentuale di lavoro indipendente che o rimane disoccupato o si trasforma in lavoro salariato.

Dal punto di vista del capitale industriale, molta parte, svalorizzata,  se dovesse cambiare il quadro economico, verrebbe salvata ma inglobata dalla casa madre e verrà fatto fuori il piccolo industriale che ha trattenuto per decenni una quota, seppur minoritaria, di profitto industriale. Ciò avrà un effetto sulla crescita dimensionale delle medie imprese italiane e sulla produttività, proprio come richiede Padoan, che non a caso ha affermato le parole suddette alla City, alla presenza di fondi specializzati nella gestione di sofferenze bancarie.

Molta parte verrà salvata perché, nonostante tutto, moltissime imprese piccole hanno valore, hanno prodotti, tecnologia e una forza lavoro qualificata, segno che la scuola italiana ha lasciato una traccia indelebile.

Ma al capitale italiano ed estero non serve più il decentramento produttivo, il dominio sul lavoro è ormai totale e ora occorre la centralizzazione dei profitti. Dove non è arrivato il fisco, è arrivata la banca, e con essa i fondi avvoltoi. E’ la vendetta dell’autunno caldo.

Morte del lavoro indipendente, scomparsa della piccola imprenditoria, l’Italia ritorna all’immediato dopoguerra, senza però i colossi pubblici, con una massa sterminata di salariati o disoccupati, si ingrosserà la classe operaia, rimarrà l’aristocrazia finanziaria e la media grande impresa.

Svalorizzazione del lavoro e svalorizzazione del piccolo capitale saranno i prodromi per l’arrivo di multinazionali estere che si insedieranno avendo costi stracciati rispetto ai canoni di pochi anni fa. Il Vietnam nel cuore dell’Europa, all’intreccio tra Africa, Medio Oriente e Nord Europa, con una forza lavoro mediamente qualificata e con infrastrutture decenti, almeno al centro nord. Questo hanno in mente Renzi, Padoan e la Guidi, un paese a misura della medio grandi imprese e delle multinazionali estere: un enorme ristrutturazioni da costi, un arretramento dei salari del 20%, un forte arretramento del lavoro autonomo e la scomparsa della figura tipica del Made in Italy, il piccolo imprenditore, protagonista, quest’ultimo, non poche volte, di piccole aziende a forte capitale industriale anche se con pochi addetti e che, con la crisi e la distruzione del mercato interno, si è trovato di fronte spesso al crollo della domanda e a una crisi di liquidità.

Fine della classe media, tutti salariati. Dove si  sbagliava Karl Marx?

Pier Carlo Padoan negli anni settanta era un economista di fede marxista e criticava Keynes da sinistra. Dalle lettura de Il capitale avrà imparato a come essere un ottimo funzionario del capitale italiano ed estero. Ma de Cecco lo avvertiva: taglia, taglia, taglia, poi non rimane niente. Ci vuole la crescita. E da che mondo è mondo, la crescita in Italia nell’ultimo secolo si è avuta due volte, nel periodo giolittiano e con lo schema Beneduce del 1936, adottato nel dopoguerra. In entrambi i periodi vi fu un forte ruolo del pubblico nell’economia.  Padoan lo esclude, contando nell’imprenditoria privata. Che non è mai stata protagonista di processi di accumulazione  e che porta i proventi da export  all’estero.  Oltre ai proventi da export, le medie grandi imprese italiane portano all’estero quasi tutti i profitti industriali. Basti vedere i conti del 2015: surplus commerciale di 45 miliardi, surplus della partite correnti di 32 miliardi ma deflussi netti di capitale pari a 93 miliardi. Bassi salari, tagli alla spesa pubblica, più Stato per il mercato, niente investimenti (chi vuoi che investa in questo scenario?), profitti ottenuti grazie ai tagli salariali e non tramite aumenti di fatturato e produzione,  per cosa? Per portare i soldi all’estero, ecco perché non gira liquidità. Almeno il piccolo imprenditore spendeva per i suoi collaboratori (famosi i “fuori busta”) e i suoi familiari, costituendo l’ossatura della classe media. Quel che non dava al fisco, o quel che non lasciava all’azienda, lo restituiva in liquidità nel territorio di appartenenza. Non era il massimo, ma almeno finiva lì.  Il profilo di Padoan ha come effetto produrre a bassi costi e portare i soldi all’estero, come un paese in via di sviluppo. Altro che “Dalla periferia al centro”: buona sorte a tutti.