«Pensioni, partita truccata Falso che l’Italia spenda di più»

di Roberto Farneti | da Liberazione

 

inps-w350Intervista a Felice Roberto Pizzuti, professore di Economia all’Università di Roma

 

Professor Felice Roberto Pizzuti, l’Europa ci ha lanciato un ultimatum. Al vertice europeo di domani (oggi ndr) l’Italia si dovrà presentare con un pacchetto di misure per la crescita, contenente anche l’innalzamento dell’età pensionabile. Al posto del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, lei cosa avrebbe risposto a Francia e Germania?

 

Domenica scorsa l’Unione europea ci ha sollecitato a presentare un pacchetto di misure per stimolare la crescita senza fare alcun riferimento esplicito a interventi nel settore pensionistico. Del resto, non ci sono ragioni di bilancio per giustificare che si intervenga proprio lì e non, ad esempio, sull’evasione fiscale.

 

Il punto sono le pensioni di anzianità. E’ vero che esistono solo in Italia?

 

Se confrontiamo l’età di pensionamento di fatto, vediamo che in Italia gli uomini vanno mediamente in pensione a 60 anni e qualche mese; in Germania a circa 61 anni; in Francia circa a 59 anni. L’Italia si situa cioè a metà strada tra Francia e Germania. Eppure in Germania l’età di pensionamento di vecchiaia è 65 anni. Allora come si spiega che c’è chi va in pensione prima? Evidentemente anche lì esistono altri canali che ti consentono di farlo. E comunque, dal punto di vista economico, quello che conta è l’età effettiva di pensionamento.

 

D’accordo, in Francia uomini e donne per ora vanno in pensione a 62 anni. Però Sarkozy ha già fatto una riforma che porterà gradualmente l’età per andare in pensione a 67 anni nel 2020. L’Italia non dovrebbe fare la stessa cosa?

 

Tanto per cominciare l’età di vecchiaia in Italia non è 62 anni, come in Francia, ma è già 65. Più un anno di differimento delle finestre, arriviamo a 66. Nel 2013, quando scatteranno i tre mesi connessi con l’aumento della vita media attesa, l’età di vecchiaia salirà a 66 anni e tre mesi, al livello più o meno della Germania. Francamente che i francesi, ma anche i tedeschi, sostengano che il nostro sistema pensionistico è più generoso del loro è molto poco credibile. Dal 1992 in Italia le prestazioni pensionistiche non sono più agganciate agli aumenti salariali reali, ma solo al costo della vita e in misura parziale. In Germania invece le pensioni sono agganciate sia ai salari reali che all’inflazione.

 

Il problema è che, malgrado i bassi importi degli assegni erogati, per le pensioni l’Italia spende comunque troppo. Una recente analisi comparativa della Commissione Europea ha calcolato che, senza l’introduzione di correttivi al nostro sistema previdenziale, già tra nove anni avremmo la più alta incidenza di spesa per le pensioni rispetto al Pil tra i 27 paesi dell’Ue: il 14,1% contro il 10,5% della Germania, il 9,5% della Spagna, il 6,9% del Regno Unito e via dicendo.

 

La comparazione europea è falsata. Basti dire che Eurostat tra le prestazioni pensionistiche italiane include anche il Tfr. Ma noi sappiamo che il Tfr non è una prestazione pensionistica, è semplicemente salario differito, un prestito forzoso che i lavoratori fanno alle imprese. ll Tfr equivale circa un punto e mezzo di Pil. Ancora, in Italia i prepensionamenti a seguito di crisi aziendali diventano spesa pensionistica, in altri paesi sono considerati interventi di politica industriale non contabilizzati nella spesa pensionistica. In Germania i soldi che escono dagli enti pensionistici sono esattamente quelli che entrano nelle tasche dei pensionati e la spesa pensionistica viene contabilizzata al netto di ciò che viene pagato. In Italia invece viene registrato come spesa pensionistica il lordo erogato, inclusa la ritenuta d’acconto. Poiché dal punto di vista contabile ciò vale altri due punti e mezzo di Pil, se togliamo dal computo questa spesa e il punto e mezzo di Pil del Tfr, già la differenza tra Italia e Germania scompare del tutto. Inoltre in altri paesi il sistema pensionistico privato è più diffuso, mentre da noi le pensioni sono ancora quasi totalmente pubbliche. La vera anomalia sta perciò nelle statistiche, che non tengono conto di questi elementi di disomogeneità.

 

In Italia la Confindustria è tra i più accesi sostenitori della necessità di alzare l’età pensionistica. Sul Corriere della Sera gli economisti Alesina e Giavazzi propongono di sostituire la cassa integrazione con sussidi di disoccupazione temporanei e di introdurre le gabbie salariali nel pubblico impiego. Lei cosa pensa di questa visione, neoliberista, secondo cui le protezioni sociali, siccome costano, sono di ostacolo alla crescita, mentre i diritti sindacali sono un freno alla capacità di competere delle aziende?

 

Alesina e Giavazzi non sembrano trarre insegnamento dalla più grande crisi della storia del capitalismo. Non capiscono che il modello economico che ha dominato negli ultimi trent’anni, a fronte del continuo aumento della capacità di offerta, non ha reso possibile una equivalente crescita della domanda effettiva. Questo mancato equilibrio è dovuto in particolare a due motivi: la cattiva distribuzione del reddito, che ha depresso la capacità di consumo dei lavoratori, e la riduzione dell’interazione con i mercati da parte dell’intervento pubblico. In quell’articolo si suggerisce di intervenire sul costo del lavoro ma non c’è un punto su come agire sulle vere cause della crisi. E’ come se fossero fermi a vent’anni fa.